domenica 29 dicembre 2013

Da Recanati a Santurbàn: per salutare l'anno vecchio e augurarsi il meglio per il nuovo

Il 2013 è ormai in procinto di cedere il passo all'anno nuovo: qualcuno (e forse più di qualcuno) si troverà, magari sfruttando alcuni giorni di riposo, a fare un bilancio dei mesi passati e a stilare piani per l'avvenire. Il 2014 sarà l'anno della ripresa, hanno detto alcuni; però ci vorrà tempo, hanno chiosato altri. Fortunatamente, almeno da parte dei media, la pausa natalizia giova un po' al silenzio.

Veniamo a noi! Scusandomi con voi per le poche riflessioni proposte ultimamente (la tesi concede poco tempo per altre letture), ho pensato di salutare l'anno vecchio con un testo celeberrimo del poeta di Recanati, uno dei dialoghi delle Operette morali che prediligo e che sempre mi rileggo negli ultimi giorni prima della fatidica notte di S. Silvestro; mi riferisco, l'avrete capito, al Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere

Si tratta di un testo che mi ha sempre molto impressionato. In particolare, le domande incalzanti che il passeggere rivolge al venditore sul significato della vita passata e sulle aspirazioni per l'avvenire mi hanno sempre creato un senso di disagio, non meno che le risposte semplici, sincere del venditore (invito perciò a leggere il dialogo completo, abbondantemente presente anche in rete). Un ritmo incalzante prepara il terreno all'affermazione centrale che Leopardi esprime per bocca del Passeggere:

Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? 

Tuttavia mi pare poco simpatico concludere l'anno e porgere il mio augurio per il 2014 con le affermazioni gravi e non troppo ottimiste di un filosofo. Così ho deciso di stemperare il clima dell'operetta con l'augurio semplice e lieto che la notte di Capodanno faceva il poverissimo Toni Oche, un personaggio del Paese silenzioso:

Bonì, bon ano, bon capo de l'ano 
bone feste, bone minèstre 
boni capòni, boni minestroni 
'Na borsa de oro, una de argento 
Dème 'na man, ca so' contento!

Il mio augurio (intendiamoci, accanto a quello di un prospero 2014!) che anche a voi, come accadeva per Toni Oche, la notte di Capodanno un'anima buona doni qualcosa in cambio di questa breve filastrocca: una nocciola, una nespola, un uovo o una tazza di brodo. Qualche decennio fa tanto bastava per dirsi contenti.

domenica 22 dicembre 2013

Per un Natale silenzioso

Cari amici lettori,
questo è il primo Natale da quando ho aperto il blog, spazio di riflessioni condivise e di dialogo con voi. Per me sarà un Natale di lavoro intenso, ma, spero, anche di incontri e, al contempo, di silenzio. Quanti di voi hanno letto il mio primo libro sanno le valenze che attribuisco ad esso: silenzio è necessario per porsi in ascolto e, quindi, per scrivere; silenzio è pure inevitabile di fronte all'autunno e poi all'inverno della vita, non solo personale. Ma il silenzio dell'inverno è un silenzio carico di vita dormiente, un silenzio trepidante, d'attesa. E mentre si attende la primavera, una passeggiata invernale può far rivivere ricordi, emozioni e nel frattempo, soprattutto, far sedimentare le esperienze vissute.

Per augurarvi un Natale di silenzio ho scelto una poesia imparata alle elementari. Si tratta di una lirica assai nota di Giuseppe Ungaretti, scritta nel 1916, durante un periodo di licenza. Non è una poesia allegra: in essa il poeta, con ancora la guerra negli occhi e nello spirito, chiede di essere lasciato solo davanti al focolare. 
Possiamo far nostro il messaggio come preferiamo. Per quanto mi riguarda, lo vorrei leggere come un invito a evitare, almeno per qualche giorno, le strade chiassose fuori e dentro di me, così da lasciare spazio al silenzio e alla riflessione non frettolosa, non ansiosa, non rumorosa.
Buon Natale di silenzio.


NATALE 

Napoli, il 26 dicembre 1916

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

domenica 15 dicembre 2013

Nebbia, musica e luci di Natale

Da qualche tempo le mie giornate non sono scandite da grandi avvenimenti: la tesi esige tempo e pazienza, le pagine a volte procedono, altre volte stentano a susseguirsi. Così, le mattine e i pomeriggi trascorsi in biblioteca sfumano, divengono simili e indistinti, come avvolti dalla nebbia. E dirlo in questi giorni sembra davvero un'ironia: nebbia fuori, nella città, e nebbia dentro la biblioteca e tra i pensieri...

Ci sono momenti però in cui è bene staccare, liberarsi dai quotidiani pensieri e dare alla mente una boccata d'aria fresca. Così ho accolto con entusiasmo, lo scorso mercoledì, l'invito di un amico a partecipare ad una lezione-concerto pomeridiana nella celebre Sala dei Giganti. Tema dell'iniziativa: i Canti di Ossian. Come dicevo, ho accettato senza troppo rifletterci, felice, tra l'altro, della coincidenza tra pensieri, realtà e mondo della letteratura: nell'immaginario di Macpherson, l'autore dei Canti di Ossian, i paesaggi scozzesi sono spesso avvolti dalla nebbia, un'idea che qualche decennio dopo, in piena età romantica, avrà il suo pieno sviluppo. La nebbia impedisce una visone nitida, avvolge, deforma, nasconde e insieme rivela, imponente manifestazione di una natura nei confronti della quale l'uomo non può che apparire minuto osservatore, come accade nel celebre dipinto di Caspar David Friedrich, datato al 1818, Viandante sul mare di nebbia.

La lezione sui Canti di Ossian, tenuta da un celebre professore di letteratura, si è rivelata poi una bella introduzione alla seconda parte del pomeriggio, protagonista un'orchestra di giovani che ha emozionato il pubblico suonando l'overture Die Hebriden (op. 26) di Felix Mendelssohn. 
Mi sono sempre piaciute le commistioni tra arti: come in una tavolozza di colori, spesso è mescolando che si colgono possibilità espressive inattese. Oltretutto, come comprendere pienamente il passato se non attraverso una visione complessiva delle manifestazioni umane e artistiche? Peccato che la musica si studi così poco!

Terminato il concerto, salutati gli amici presenti, mi sono avviato. Fuori la città era già buia e una nebbia pesante, invadente, avvolgeva strade e piazze, sfumando i contorni di persone ed edifici, penetrando col suo odore amarognolo sotto i vestiti. Le luci delle vetrine attiravano gli sguardi dei passanti e quasi tracciavano la via ai passeggiatori più indecisi. Mi è allora tornato in mente il vècio dell'Altipiano. In una delle ultime interviste, ospite di "Che tempo che fa", Mario Rigoni Stern si trovò a spiegare ad un incredulo Fabio Fazio le differenze che si possono cogliere, nei rispettivi odori, tra neve e nebbia. E quando Fazio chiese se si trattasse di espedienti letterari, il vècio scosse la testa: "Sono esperienze vere" disse. Chissà cosa avrebbe detto dell'Italia di questi giorni, persa nella nebbia di un significato che si stenta ad afferrare, tra ambigue proteste e ancor più ambigui e sfuggenti aneliti di cambiamento...

Forse avrebbe suggerito di imparare ad osservare. E tra la nebbia non è facile. Come l'altra sera, si rischia di farsi guidare da luci tanto scintillanti quanto effimere. Giusto mantenere l'attenzione, vedere nel profondo. Ma capitano i momenti di stanchezza. E allora, se non possiamo sottrarci al gioco, ci possiamo almeno augurare, come ci suggerisce la Nebbia di Giovanni Pascoli, che essa nasconda, sfumi le cose inutili e distanti.

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli,
d'aeree frane!

domenica 8 dicembre 2013

Un libro sulla Grande Guerra per riflettere sulla pace

Cari amici lettori,
interrompo le riflessioni settimanali per darvi una bella notizia: a febbraio arriverà in libreria il mio prossimo libro. Come la mia seconda opera, si tratterà di un libro per ragazzi (dai 9 anni). L'argomento (almeno quello di fondo) sarà la Prima Guerra Mondiale. Come saprete, infatti, nel 2014 cadrà il centenario dello scoppio della Grande Guerra, il primo dei due immani conflitti che segnarono il Novecento. E se sull'argomento la bibliografia per adulti è certamente cospicua, dalle opere di narrativa a quelle memorialistiche (per non parlare degli studi storici), per ragazzi pochi sono i titoli che affrontino l'argomento con taglio narrativo.

Da qui nasce l'idea che la Raffaello mi ha affidato e che ha portato alla nascita del testo: raccontare una storia che avvicini i ragazzi, delle elementari in primis ma non solo, a questo conflitto lontano ma vicino, che tante e tante tracce ha lasciato nei territori del nostro paese ove fu combattuto come in ogni paese o città. 

Il libro sarà intitolato L'eco delle battaglie e avrà per protagonisti Irene, una bambina sensibile e curiosa, e suo fratello Emanuele. Originari di una cittadina del centro Italia, si troveranno, complice la crisi economica, a rinunciare alle vacanze di famiglia per essere ospiti dei nonni materni nella casa che questi hanno affittato sull'altopiano di Asiago, una delle località italiane che maggiormente conservano memoria della Grande Guerra

Un’estate di villeggiatura coi nonni sull’Altipiano, come lo chiamarono Emilio Lussu e poi Mario Rigoni Stern, finirà per rivelare loro un passato lontano eppure ancora vivo e presente. Fra escursioni in montagna e passeggiate nei boschi, fra nuove conoscenze e incontri inaspettati, i bambini ripercorreranno le vicende che coinvolsero l’Italia fra il 1915 e il 1918.

Un racconto per comprendere cosa fu la Grande Guerra per il nostro paese e per l'Europa di oggi nonché, come recita il sottotitolo, per riflettere sulla pace.

Il libro, in stampa in questi giorni, uscirà, come dicevo, a febbraio. Tra qualche settimana, dunque, vi darò maggiori dettagli. Resto come sempre a vostra disposizione per domande o curiosità.
Estote parati!

domenica 1 dicembre 2013

A settant'anni dall'appello di Concetto Marchesi nel paese dell'oblio e dello shopping natalizio

In Grecia l'oblio e la dimenticanza erano rappresentati da un fiume, il Lete. Situato nel regno dei morti, con le sue acque offriva a chi vi si accostava la perdita della memoria dal proprio passato. Al Lete ho pensato quando, alcuni giorni fa, mi è giunta la notiza del corteo di estrema destra che ci sarebbe stato (e c'è stato, ieri pomeriggio) a Vicenza: in strada "contro le banche e l'immigrazione", come ho letto su un articolo on-line.
Ora, non voglio attuare discorsi sulla legittimità o meno di una manifestazione neofascista a Vicenza, città decorata di due medaglie d'oro al Valor Militare, di cui una per la Resistenza nel periodo 1943-1945; mi limito a condividere alcune riflessioni su temi a me cari quali memoria, responsabilità e futuro (parole che potrete ritrovare sin dai miei primi post). Ciò che mi ha infatti colpito, ancor più del gran parlare della cosa, è stato leggere l'articolo presente ieri sul sito del quotidiano della provincia. In esso, il tema più sentito suscitato dalla manifestazione (e contromanifestazione) era la rabbia e l'indignazione dei commercianti del centro storico, penalizzati nel primo fine settimana di acquisti natalizi. Non una parola all'Anpi o ad altre associazioni partigiane impegnate nella trasmissione della memoria storica.

Concetto Marchesi 2.jpgI tempi sono duri e, come avrebbe detto Cicerone, ciascuno pro domo sua. Fatto sta che, come spesso mi accade, non ho potuto fare a meno di gettare ponti tra argomenti diversi, luoghi diversi, tempi diversi. Esattamente settant'anni fa, 1 dicembre 1943, Concetto Marchesi, insigne latinista e, dall'estate del '43, Rettore dell'Università di Padova, diffondeva il suo celeberrimo appello agli studenti. Con esso invitava ciascuno a resistere all'occupante e ai suoi sgherri repubblichini. Lo condivido con voi, amici lettori, non perché tutti si debba avere le stesse opinioni o idee, bensì perché solo attraverso la memoria viva, accompagnata da una sua corretta interpretazione, possiamo mantenere i sensi fini ed evitare l'indistinta marea di quanti, per ingnoranza o presunzione, gridano odio e violenza, oppure, ascoltantodo ciò, si voltano cinicamente dall'altra parte.

Studenti dell’Università di Padova! Sono rimasto a capo della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dall'offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento.
Oggi il dovere mi chiama altrove. Oggi non è più possibile sperare che l'Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l'ordine di un governo che - per la defezione di un vecchio complice - ardisce chiamarsi repubblicano vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori. Nel giorno inaugurale dell'anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell'Aula Magna, travolti sotto la immensa ondata del vostro irrefrenabile sdegno. Ed io, o giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di vent'anni profanato; e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l'anima vostra. Ma quelli, che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunci mendaci hanno soffocato il vostro grido e si sono appropriata la vostra parola. Studenti: non posso lasciare l'ufficio del Rettore dell'Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall'ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c'è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla schiavitù e dall'ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo.

Concetto Marchesi



domenica 24 novembre 2013

Sullo scrivere

Un paio di settimane fa mi è accaduto un fatto curioso. Ero al bancone della biblioteca di Storia (il fu dipartimento di, ora parte del più ampio Disgea, di cui fanno parte anche le robe che ho studiato in questi anni) quando mi si è avvicinato un giovane docente, bravo, assai preparato, del quale avevo seguito un corso un paio d'anni accademici fa. Giunto a pochi passi, dopo un cordiale saluto, mi ha chiesto come procedeva. 
- Insomma - ho risposto, accennando al progressivo deperimento di salute cui va incontro ogni laureando, specie quelli che si occupano di cose scritte.
L'ulteriore battuta del docente mi ha colpito. 
- Eh sì - ha sorriso, - leggiamo troppo e scriviamo troppo...
Il tono di voce era inequivocabile: più che sul leggere puntava tutto sullo scrivere. Ho sorriso tra me e ho annuito. Gli davo ragione, pienamente. Detta da un "interno" all'ambiente accademico poi, quella frase superava la semplice constatazione per assumere un sapore dolce e insieme asprigno, come proprio di certe arguzie che si colgono più fuori che dentro la parola.

Sentendomi specialiter coinvolto e avendo ripensato spesso in questi giorni alla frase, mi sono come sempre lasciato andare a paralleli, collegamenti, suggestioni. Scriviamo troppo, questo è innegabile. Sarebbe però poco saggio, da parte mia, lamentare con eccessiva enfasi la cosa e lanciarmi in invettive ex cathedra (quale poi?!) contro lo spreco di parole cui assistiamo quotidianamente. Del resto altri lo fanno con maestria, e lamentandosi sempre un po' di tutto, si aggiungono più o meno consapevoli al coro.
Ad ogni modo, che ci si senta o meno il Giobbe di turno, per comunicare, specie nel mare degli internauti, si scrive. E forse metà dell'umanità si è già ridotta a leggere quello che scrive l'altra metà, come scriveva (!) già Italo Svevo nel suo incompiuto Vegliardo parlando di «letteraturizzazione» della vita. Quello che però poco si nota citando, non di rado a sproposito, il passo in questione è che la scrittura proviene dal raccoglimento, «unica parte importante della vita», come viene definita.

Se la prendiamo in questo senso, allora sì che la scrittura assume un valore altro. Il raccontare, il ricordare, il riflettere, il capire divengono funzioni della parola, per cui essa risulta indispensabile: «Scrivere è confessarsi, è donarsi; scrivere è liberarsi. Io non posso non scrivere» scriveva (!) fra David Maria Turoldo ormai al termine della sua vita. «Scrivo quanto ho qualcosa da dire» soleva ripetere il vècio dell'altipiano, Mario Rigoni Stern.
Scrivere per conoscere, per comprendere, per liberarsi. Per dare forma, ordine, per ricondurre ad uno schema comprensibile il groviglio di realtà in cui ci troviamo immersi. E se anche, per ampliare un concetto ben espresso da Primo Levi, scrivere comporta inevitabilmente semplificare, altrettanto vero è che scrivere è funzione del capire. Sarà cura poi di chi scrive (o dovrebbe esserlo!) scegliere quanto proporre ad altri e quanto tenere per sé. Ecco, forse il problema oggi è proprio questo: si mette in vetrina anche quello che sarebbe meglio tenere in magazzino. Concludo dunque con un buon monito che ci viene da Luigi Meneghello: 

«Scrivere, per me, è quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c'è, cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle che paiono un po' meno sbagliate, un po' meno goffe o vacue o sguaiate».
(Jura, 2003, p. 70).



domenica 17 novembre 2013

Da Fozio a Hrabal: libri scritti, libri che scrivono (e salvano)

La riflessione di oggi mi viene da un breve dialogo scambiato con un amico e collega tra gli scaffali della biblioteca di greco, a Padova, qualche giorno fa. Gli chiedevo spiegazione di un curioso post da lui pubblicato su facebook: "L'uomo ha creato i libri a sua immagine" diceva, e proseguiva con un'affermazione che mi era parsa provocatoria, una sorta di sententia: "Siamo libri". Mi ha detto che l'ispirazione gli era venuta da Fozio, nome noto agli antichisti ma che dice poco o nulla ai più.
  
Fozio era uno che amava i libri. Patriarca di Costantinopoli per due volte, e per due volte deposto, visse nel IX secolo, in un periodo particolarmente burrascoso in cui la Chiesa ortodossa si scontrava con quella cattolica romana a colpi di concili e reciproche scomuniche, sancendo a poco a poco una divisione che, nonostante i cambiamenti seguiti al Concilio Vaticano II, perdura tuttora. Ma non è per questi motivi che Fozio viene ricordato (e celebrato) da chi studia il mondo antico, bensì per aver redatto un'opera, la Biblioteca, che ha permesso di trasmettere, almeno in parte, molti testi altrimenti irrimediabilmente perduti. Fozio legge gli Antichi, e di quanto legge dà conto: riassume (nel gergo del settore "epitoma"), commenta, ma soprattutto salva testi dal Lete, il fiume che per gli Antichi rappresentava l'oblio. La sua, chiaro, è una scelta personale, come accadrebbe se ciascuno di noi desse conto delle proprie letture e ne fornisse estratti, riassunti, commenti. 

Fozio dunque con la sua opera ha salvato una notevole quantità di libri. Ma non solo, li ha riscritti "a sua immagine" e al contempo da essi è stato, per così dire, scritto. L'idea, non lo nascondo, mi ha suscitato una certa emozione. Noi creiamo i libri ma, al contempo essi creano noi, ci cambiano, si trasfondono in chi legge. Non è certo un'affermazione straordinaria: ciascuno potrà riconoscerne la verità e verificare nella storia, anche personale, casi più o meno eclatanti di libri che cambiano chi li legge. Ma mi è sembrato interessante darne nota, anche alla luce di una recente lettura. Citavo nel penultimo post un libro dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, acquistato per quasi nulla in un mercatino; il libro s'intitola Una solitudine troppo rumorosa. Ebbene in esso, un racconto lungo scritto con un linguaggio poetico e, insieme, con uno stile denso, vicino al flusso di coscienza, una delle idee chiave è esattamente la stessa. Il protagonista è un operaio che da trentacinque anni lavora ad una pressa tritacarta. Trita e schiaccia ogni tipo di carta tra cui, inevitabilmente, moltissimi libri. Ed a contatto con questi libri Hanta, così si chiama il protagonista, si avvicina alla lettura e agli autori che i libri li hanno scritti, al loro pensiero, soprattutto alle loro parole. Legge Hanta, fino a divenire suo malgrado istruito. Col suo operare non salva la cultura o la storia, sostiene il curatore dell'edizione che ho (Einaudi, 1991), se non nel fatto di ricreare a sua volta. Ma, oserei aggiungere, oltre a ciò e prima di ricreare Hanta assume, succhia dai libri. Se non salva, tuttavia si salva.
 
«Contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiasi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari» (p. 3). 

Chissà quanti altri paralleli si potrebbero creare a partire da questa suggestione:  libri scritti ma anche libri che scrivono; libri salvati ma, anche, libri che salvano. Non proseguo oltre e lascio ciascuno i collegamenti che potranno sorgergli.

domenica 10 novembre 2013

Ulivi dei miei colli e ulivi del mito...

In queste settimane tra i colli di Santurbàn ferve la raccolta delle olive. Io stesso, qualche giorno fa, ho dato una mano in famiglia, salendo sui vecchi ulivi in cima al monte Costi e su altri, più giovani, piantati da mio padre qualche anno fa in un fazzoletto di terra tra i lievi pendii oltre il paese.
Raccogliere le olive è impresa faticosa, specie per chi non è troppo abituato a lavori pesanti; eppure, al contempo, è opera che distrae la mente e che arricchisce: si è in compagnia e si chiacchiera, si scambia una battuta, si ride e si ascoltano i suoni di una natura pressoché intatta. Soprattuto però, direi, il clima autunnale, a differenza del tempo gaio e ridente della vendemmia, stimola alla riflessione. Nei brevi momenti di riposo durante il giorno o alla sera i pensieri, arricchiti dalle esperienze quotidiane, vagano e dialogano coi ricordi di altre esperienze...

L'ulivo, pianta mediterranea per eccellenza, possiede una tradizione antichissima. Il mito greco lo lega indissolubilmente ad Atena, dea della sapienza e protettrice dell'omonima città di Atene. Si narra infatti che la dea ottenne la sovranità sull'Attica proprio in virtù del fatto che avesse donato alla città l'ulivo, dono utile agli uomini, scalzando Poseidone, che pure avanzava pretese sul territorio attico e che aveva per questo fatto scaturire in precedenza una sorgente di acqua salata (Cfr. Robert Graves, I miti greci, p. 50).

Da sempre l'ulivo fu per gli Antichi simbolo di pace, nonché di quella laboriosità contadina che in seguito divenne mito a sua volta. Coltura tipica dei Greci, fu descritto da Virgilio nel poema dedicato all'agricoltura, le Georgiche, come proprio delle terre aspre e difficili (II, 179 e ss.). Ma ben prima di lui la letteratura si era "impadronita" dell'ulivo. I poemi omerici sono ricchi passi riguardanti la pianta sacra ad Atena: ne ricordo solo alcuni, senza pretese di esaustività. Nel canto XVII dell'Iliade l'ulivo diventa termine di paragone del guerriero ucciso e spogliato delle armi; più ampiamente, potremmo azzardare che l'ulivo, pianta di pace, diviene rappresentazione dello sconvolgimento che la guerra arreca.

Come se uno coltiva una florida pianta d'olivo
in luogo deserto, dove sgorghi però molta acqua
una pianta bella, rigogliosa; la scuotono i soffi
di venti diversi, ed è tutta gemmata di fiori bianchi;
ma un vento s’abbatte all’improvviso con un turbine violento,
la sradica dalla sua fossa e la getta stesa a terra:
così al figlio di Pantoo, ad Euforbo, prode lanciere,
l’atride Menelao, ucciso che l’ebbe, predava le armi.
(vv. 53-60, trad. di Giovanni Cerri)

Nell'Odissea poi, il poema dell'eroe prediletto di Atena, l'ulivo diventa personaggio tra gli altri. Sotto un ulivo meravigliosamente intrecciato con un oleastro si riposa Odisseo approdato all'isola dei Feaci, (V, 476 e ss.) e sotto l'ulivo sacro di Itaca l'eroe medita assieme alla dea l'uccisione dei Proci. Infine, è grazie ad un ulivo che avviene il riconoscimento finale di Odisseo da parte di Penelope (XXIII, v. 190 e ss.): 

Cresceva, dentro al cortile, un tronco d’olivo dalle foglie sottili, rigoglioso, fiorente, largo come una colonna. Intorno a questo io eressi il talamo, che feci con pietre fittamente connesse e ricoprii con il tetto ben fatto; e la porta applicai, solida e salda...(trad. di Maria Grazia Ciani). 

Ormai è trascorsa una settimana dalla "mia" raccolta, le olive raccolte sono diventate olio novello. E mentre esso decanta e si purifica mi piace pensare che, dopotutto, il mito vive (e continua a rivivere) anche sui colli di Santurbàn.