lunedì 27 giugno 2022

Intervento commemorativo per i Sette Martiri di Valdagno - 26 giugno 2022

Signora Assessore, parenti delle vittime, autorità civili e militari, amici del complesso strumentale,
cittadine e cittadini e in particolare ragazze ragazzi presenti: a tutte e tutti voi il mio saluto personale e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Invitato dalla sezione di Valdagno, torno dopo pochi anni dalla prima volta, nel 2018, a fare memoria con voi dei nostri “Sette Martiri”. E dico nostri non soltanto per il legame che mi unisce a Valdagno, città medaglia d’argento per la Resistenza e città in cui lavoro; nostri perché quello che i Sette Martiri hanno lasciato è un lascito che travalica i confini e che tuttavia spinge una comunità a riunirsi per ricordarli e per fare proprio il loro messaggio, nel presente e nel futuro da costruire insieme. È questo – non mi stanco mai di ripeterlo – il significato del commemorare; non una cerimonia che si ripete ma un’occasione per ribadirci gli uni con gli altri la direzione da prendere, una direzione orientata da chi, 78 anni fa, affermò con la propria vita la parte della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e della solidarietà.

Oggi vorrei rivolgermi in particolare ai giovani presenti, immaginandoli come gli adolescenti di cui ogni mattina, da settembre a giugno, incontro gli sguardi, ascolto le voci e scruto i gesti. A voi, ragazze e ragazzi, vorrei rivolgere le riflessioni a partire dal ricordo dei sette che oggi commemoriamo e che sono divenuti testimoni – questo il significato della parola ‘martire’. Sette uomini che furono fucilati dai nazifascisti il 3 luglio 1944 a pochi passi dal monumento davanti al quale è iniziata la nostra cerimonia.

Ferruccio Baù, di Valdagno, classe 1908, era un commerciante. Si era fatto notare come antifascista nel luglio 1943, quando aveva gettato dal balcone del municipio la foto di Mussolini, deposto e arrestato pochi giorni prima;

Virgilio Cenzi, classe 1896, era un militante del PCI e sostenitore del movimento partigiano: faceva il falegname alla manifattura della Marzotto;

Antonio Bietolini, classe 1900, era meccanico; politicamente era un militante comunista di lungo corso, arrestato più volte nel corso del ventennio e costretto a scontare sette anni di Confino alle isole Tremiti. Dal febbraio 1944 dirigeva la federazione vicentina del PCI;

Alfeo Guadagnin, classe 1899, era un socialista bassanese di lunga militanza, di professione noleggiatore d’auto, animatore della Resistenza nel Bassanese. L’arresto lo colse mentre si trovava a Valdagno per incontrarsi con l’amico Ferruccio Baù;

Marino Ceccon, classe 1912, comunista, era operaio agli stabilimenti “Marzotto”;

Pasquale Giovanni Zordan, valdagnese, soprannominato “Nani Sette”, classe 1908, era anche lui comunista, attivista nella fabbrica “Marzotto”;

Francesco Rilievo, classe 1919, operaio alla “Marzotto”, non aveva legami con l’attività politica clandestina né con la Resistenza, fu arrestato semplicemente perché cognato di Giovanni Zordan.

A questi sette uomini, come sappiamo, doveva aggiungersi Raffaele Preto, di 24 anni, di professione calzolaio, membro della Resistenza, che riuscì invece a scampare alla fucilazione attraverso una fortunosa fuga e fu poi partigiano. Gli altri furono uccisi perché antifascisti nel corso di una rappresaglia che aveva il duplice scopo di colpire l’attività clandestina e terrorizzare la popolazione. Nessuno di loro aveva a che fare con lo scontro fra tedeschi e partigiani avvenuto il 30 giugno precedente e che fu addotto a motivazione della rappresaglia. Ma questa era la prassi dei nazifascisti: la rappresaglia serviva a terrorizzare la popolazione e a spingerla a rifiutare l’appoggio che essa dava ai partigiani.

Ma fermiamoci a riflettere un istante sulle parole: nazifascisti, partigiani, antifascisti, rappresaglia sono infatti parole che ci suonano strane oggi, così distanti dal nostro eterno presente. Allora cerchiamo di fare insieme un passo indietro per tornare alla Valdagno di 78 anni fa.

Perché, ragazze ragazzi, 78 anni fa qui come nel resto del nord Italia, non c’era la libertà di cui oggi noi godiamo i frutti, spesso dimenticandoci di chi la conquistò; 78 anni fa anche solo uscire di casa per comperare quel poco che il razionamento dei viveri consentiva era un’azione che poteva costare la vita. Valdagno pullulava di soldati e poliziotti della RSI, lo stato fantoccio che dopo l’8 settembre 1943 era stato costituito da Mussolini per continuare la guerra a fianco della Germania nazista. E tutto ciò avveniva dopo vent’anni di dittatura fascista: una dittatura che aveva abolito la libertà di parola, di stampa, di riunione, che aveva sciolto tutti i partiti tranne quello fascista così come i sindacati, che aveva educato un’intera generazione non a pensare con la propria testa e a sentire col cuore ma a “credere, obbedire e combattere” praticando l’insulto sistematico dell’avversario, propugnando il nazionalismo e il razzismo e affermandosi grazie alla violenza e all’uccisione degli avversari. Nomi che ancora una volta ci sembrano lontani, benché essi siano spesso presenti sui cartelli delle vie nelle nostre città: Piero Gobetti, Antonio Gramsci, don Giovanni Minzoni, Giacomo Matteotti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, per citarne solo alcuni.

Eppure, nonostante la violenza che il regime fascista aveva elevato a sistema di potere ci fu chi si oppose. Sei di coloro che furono fucilati, come avete sentito, partecipavano alla vita politica clandestina. Si erano interessati, avevano vinto l’indifferenza per cercare di fare qualcosa. E non soltanto per loro, ma anche per gli altri. Questa, ragazze e ragazzi, è una grandissima lezione. La libertà per quanti aderirono alla Resistenza non era soltanto, come spesso oggi la intendiamo, di libertà di fare e di essere, ma era molto più complessa. I partigiani e le partigiane combattevano anzitutto per una libertà da: dal fascismo e dall’occupante tedesco; ma anche una libertà di: cioè di essere, fare, creare, in pace; infine, e mi preme ricordarlo, la Resistenza propugnava una libertà con: cioè con gli altri, da vivere e condividere partecipando alla vita della società, attraverso diritti ma anche doveri, cercando di costruire un mondo, come recita una celebre canzone scritta da Italo Calvino, più umano, e più giusto, più libero e lieto. Sì, anche più lieto, intendendo ancora una volta la felicità come traguardo collettivo, non soltanto individuale.

E dall’altra parte invece? Per cosa combattevano i nazifascisti? Vi rispondo ancora con le parole di Calvino, questa volta tratte dal suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno. Le pronuncia Kim, un comandante partigiano:

C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro […] va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti; degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.

Questo slancio, questo desiderio di cambiare il mondo è proprio di ogni nuova generazione di giovani, ma nella generazione che aderì alla Resistenza ha dato frutti che non temo di definire eccezionali. Ma ci pensate? Erano cresciuti con una sola idea, spesso non avevano fatto che poche classi a scuola, eppure scelsero, e rischiando la vita. Erano, utilizzando un’espressione di un grande scrittore vicentino (e partigiano), Luigi Meneghello, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita, «apprendisti italiani».

E noi? Oggi spesso dimentichiamo che la libertà, come la democrazia, non è una conquista definitiva. Essa va costantemente alimentata. Come? Attraverso l’interesse, lo studio, la cura, la partecipazione alla vita sociale e politica. Lo so che è difficile, tanto più oggi. Veniamo infatti da oltre due anni di pandemia, da una crisi economica che dal 2008 non è mai passata; e ora persino una guerra alle porte dell’Europa. Sembra davvero difficile sperare e trovare la forza per contribuire a costruire un mondo migliore. E invece è proprio adesso che dobbiamo più darci da fare! Ciascuno nel proprio campo, nei contesti della propria vita: in famiglia, a scuola, nei vari gruppi che frequentiamo.

Sapete, mi ha molto colpito un dialogo che tempo fa ho avuto con una mia studentessa: una brava ragazza, impegnata, attiva, solare. Eppure mi diceva che non sentiva la scuola come vera vita, questa per lei era soltanto fuori, e quindi a poco valeva impegnarsi. Le sue parole mi sono rimaste dentro. Certo, possono esserci momenti di sconforto, ma non possiamo lasciare che le difficoltà ci abbattano. 78 anni fa esse erano infinitamente più grandi, eppure chi scelse di combattere per la libertà, la giustizia, la democrazia, la pace, lo fece pensando proprio a noi, al mondo che sarebbe venuto.

Vorrei davvero che avessimo più tempo, a scuola e altrove, per leggere gli scritti di quanti, uomini e donne, fecero parte della Resistenza. Torniamo a leggere, per citarne solo alcuni, il diario di Ada Prospero Gobetti o di Emanuele Artom, i libri di Calvino, di Primo Levi, di Rigoni Stern, di Beppe Fenoglio, di cui pure ricorrono i cento anni dalla nascita, di Luigi Meneghello, o ancora Il manifesto di Ventotene, scritto nel 1941, nel pieno della Seconda guerra mondiale, da alcuni intellettuali antifascisti confinati nel carcere di Ventotene; infine torniamo a leggere le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea così come la nostra Costituzione, frutto della Resistenza. Allo stesso modo dovremmo tornare sui luoghi, sostare, meditare di fronte alle lapidi, ai nomi, ai monumenti – pensiamo all’ultima lapide posta sulla facciata delle scuole elementari, dove sono ancora presenti le celle in cui i Sette Martiri furono imprigionati. E questo non per restare inerti a contemplare il passato come una reliquia, ma per trovare motivazione e coraggio per agire oggi. Perché violenza, guerra, cancellazione dei diritti, oppressione dei più deboli e altre ingiustizie sono ancora ben presenti nella società. Lo abbiamo visto, lo vediamo guardandoci intorno come scorrendo i social, lontano e vicino: pensiamo che solo alcuni giorni fa a Vicenza è stata imbrattata la sede della CGIL, un sindacato, con metodi simili a quelli che usavano le squadracce fasciste. E poi ci sono le nuove sfide, prima fra tutti la difesa dell’ambiente e la costruzione di un futuro ecosostenibile e in cui le risorse siano distribuite con maggiore equità e con solidarietà.

Insomma, dobbiamo, dovete, ragazze e ragazzi, darvi da fare. Scriveva Antonio Gramsci nel lontano 1919: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».

Così faremo vera memoria dei Sette Martiri come di tutte e tutti coloro che diedero la vita per la causa della Libertà. E voglio allora salutarvi con le parole di un ragazzo di diciannove anni, Giacomo Ulivi, partigiano fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Scriveva Ulivi nella sua ultima lettera:

Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto.

Responsabilità è la nostra, la vostra sfida: della memoria viva, che agisca nell’oggi. Ecco il significato del nostro essere qui, a commemorare i nostri Sette Martiri. Buon lavoro a tutte e tutti noi. Viva la Resistenza!

martedì 21 giugno 2022

La lodola mattiniera, capolavoro da riscoprire di Romano Pascutto

«Fiorenzo portò fuori i due piccoli a vedere la terra appena arata, ancora in zolle rovesciate come grosse fette di pane scuro, che l'erpice avrebbe poi spianato per la semina. Amava i bambini, fossero suoi o degli altri. Amava la terra indipendentemente dal frutto che ne ricavava. Era felice di vivere perché amava, pensava, lavorava, lottava. Gli amici, compreso Santo, dicevano di lui che era «un poco matto»; e lui pensava che i matti erano loro perché, vivendo, non riuscivano ad afferrare tutto il gusto che aveva la vita. Certe volte stentavano a capirlo. Nemmeno lui in certi momenti aveva chiara coscienza di ciò che gli accadeva nell'intimo. Pensava che talvolta gli uomini diventavano malvagi perché smarrivano se stessi. Come il padre di Piero, Come Tonello. Voleva portarlo nella sua amministrazione. Certo, avrebbe sudato di meno e guadagnato di più; ma sarebbe stato come strappare una radice dal terreno proprio per trapiantarla in un terreno sconosciuto, dove avrebbe potuto inaridire. Un albero secco e inutile, buono per il fuoco. I due ciliegi, invece, con tanti frutti rossi sopra il tesoro nascosto.
A questi pensieri, strinse a sé i due bambini, il figlio proprio e quello di Evelina, sentendoli caldi e teneri come due pulcini. «Che importa soffrire» si disse «se questi, quando saranno grandi, non saranno costretti a rifare la nostra vita, a scappare, nascondersi, odiare, sparare, uccidere?».

Romano Pascutto,
La lodola mattiniera, in Opere complete II (a cura di Saveria Chemotti), Marsilio, Venezia 1996.

La lodola mattiniera è un capolavoro dimenticato di un autore altrettanto (ingiustamente) dimenticato o ritenuto a torto locale. Nato a San Stino di Livenza nel 1909, Pascutto fu sfollato a Firenze con la famiglia dopo la rotta di Caporetto.  
Antifascista, nel 1930 fu costretto a emigrare in Libia assieme al fratello, dove restò, come funzionario di Compagnie di Navigazione, fino al rientro coatto in Italia nel 1943. Partecipò attivamente alla Resistenza. Nel dopoguerra lavorò per la compagnia "Tirrenia" a Venezia. Iscritto al PCI, fu sindaco nel di San Stino dal 1975 al 1980. Morì a Treviso nel 1982. Fu poeta (in italiano e in veneto) e scrittore di prosa, giornalista e dirigente politico.

La lodola mattiniera è il romanzo di una generazione e di un territorio, la grande pianura trevisana, in cui la grande storia incontra le storie quotidiane delle persone. Due vite in particolare si confrontano in primo piano: da una parte Tonello, prima fattore e poi grosso proprietario terriero tutto preso dall'accumulare la sua roba, dall'altra Fiorenzo, detto Fiore, contadino che lotta per i diritti della sua gente. Fra le loro, tante altre storie di vita, in un mondo pervaso dalla fatica del vivere. 
Romano Pascutto, da https://www.sanstino.it/
La vicenda si snoda dagli anni Venti a quelli del secondo dopoguerra, in un'atmosfera da grande epopea contadina. Scorrendo le pagine del romanzo ho pensato spesso a Novecento di Bertolucci: molte situazioni avvicinano le due opere, ma l'atroce violenza del film di Bertolucci è assente nel libro di Pascutto, temperata non da vicende meno dolorose ma, oltre che dalla tipicità dell'ambientazione, da una scrittura delicata, precisa, piena di amore per la materia narrata, una scrittura limpida e onesta, che accompagna il lettore dipingendo paesaggi, vicende e personaggi di un mondo che è stato.
Trovare oggi La lodola mattiniera non è facile: il libro, edito per la prima volta per i tipi di Rebellato nel 1977, è stato ripubblicato nel 1996 da Marsilio ed è oggi piuttosto difficile da reperire. Ma, fidatevi, è un'impresa che vi ripagherà. Più ancora però pagherà la lettura di questo classico che non può mancare in chi ama la letteratura del Novecento, e quella veneta in particolare. Perché qui l'anima della letteratura veneta, fatta di amore per la propria terra, di lotta, di paesaggio e di vita vissuta, di parole e soprattutto di silenzi, emerge in tutta la sua potenza.








venerdì 3 giugno 2022

Il meraviglioso incipit di "Gente di mare" di Giovanni Comisso

Frutto di un viaggio compiuto nel 1922 a bordo di un veliero, Gente di mare è un capolavoro oggi poco conosciuto del grande scrittore veneto Giovanni Comisso. Con sguardo attento e capacità rara di penetrare il senso profondo di luoghi e persone, l'autore ci accompagna, attraverso i suoi racconti, fra le genti delle diverse sponde dell'Adriatico: vite legate al mare e alla terra, vite continuamente segnate dalla fatica di ogni nuova partenza e da ogni nuovo sospirato approdo.
Al libro, pubblicato nel 1928, fu assegnato l'anno seguente il premio Bagutta. 
Ne riporto l'incipit con la speranza di far nascere il desiderio di scoprirlo o di riscoprirlo. 

«Si arriva per prati d'acqua, dopo avere rasentato paesi costruiti come scene di teatro di altri tempi e panorami di alberi con terreni erbosi di un verde prepotente sul precipizio azzurro del mare. 
Il vaporino attracca al molo arioso e subito ci accolgono i più vivaci sorrisi accresciuti dalla luce. La città è un aspro guscio d'ostrica dove tra riflessi di madreperla la vita fermenta. Sui gradini del primo ponte, vecchi pescatori curvi e frettolosi raggiustano le reti bruciate dal salso, tenendole tese con le dita dei piedi. Più avanti ci s'accorge del temperamento isolano della gente, insistente a guardarci e a commentare sulla stoffa del nostro pastrano. Altri vecchi, puntigliosi e pettegoli, seduti su piccole sedie rattoppano una vela e tra le grosse pieghe spuntano i loro piedi con lucide ciabatte da donna. La calle rasenta il canale fitto di barche. Forti ragazzi camminano abbracciati e sorridono. Botteghe di verdura e di frutta sembrano vuotarsi sul selciato sconnesso. Tutti parlano a voce alta con la stessa intonazione come fossero a bordo dei loro velieri tra il vento che disperda i comandi. Spesso l'aria viene lacerata da grida astiose che risentono della lotta con il mare. Le donne sembrano create dopo un fortunale di scirocco che abbia allenato all'amore le braccia dei marinai: tanto ànno di ventoso nel capo e di patito nel corpo. Ma le giovinette incantano per meraviglia. Rinchiuse nelle piccole case, la noia le accende negli occhi verdastri, il collo su dalla centina delle spalle à tutto il desiderio di un mozzo che voglia scoprire la terra per primo e l'agilità a ogni mossa di vertebra non si nega, pure camminando sui duri zoccoli sbattuti per il dispetto di essere prigioniere nella città isolata. Sgusciano e sfuggono. Nell'ombra dei portici altre chinano i loro pensieri su di un lavoro di bianchi merletti come sopra alla muta apparizione del corpo amato. Sono state raccontate iniziative fantastiche di perdimento concesse in favore del ricco forestiero e siamo tentati a credere dallo sguardo penetrante e di agguato di certe vecchie nascoste dietro all'imposte socchiuse.
Seduti per terra, luridi di sole e di polvere, i bambini sono innumerevoli, quasi si pestano, sono come cuccioli che non riescano a spostarsi con le zampe non ancora congiunte da muscoli, ma dai ponti scendono e dalle barche attraccate spiccano salti i ragazzi già compatti nel corpo da arcieri. Ànno una turgidezza africana nel petto, il capo rotondo si volge libero sul collo brunito e nel camminare con i larghi piedi scalzi imitano tutta l'eleganza delle onde. I vecchi dagli occhi lustri strisciano rasente ai muri, foschi di fermento e di rabbia come per essere dovunque respinti».