domenica 6 luglio 2014

Sulle note della marcia di Radetzky

La marcia di Radetzky non è solamente il celebre brano musicale di Strauss padre che chiude i concerti di Capodanno nel Musikverein di Vienna, è anche il titolo del romanzo più noto di Joseph Roth, scrittore di cui ho già parlato qualche volta. Ebreo viennese, scrittore e giornalista, vide la fine dell'impero degli Asburgo, l'avvento della modernità, l'ascesa dei totalitarismi. Esule, morì a Parigi nel 1938, solo e dimenticato. La marcia di Radetzky, apparso nel 1932, è il romanzo del crepuscolo di un'epoca: attraverso tre generazioni, dal 1859 al 1914, Roth dipinge gli ultimi decenni dell'impero austro-ungarico e, con esso, la fine degli ideali stessi su cui esso si fondava, in primis la fedeltà a quel <<vecchio imperatore dalla barba bianca>> che rappresenta per tutto il testo la stabilità di quanto è immutabile. Tutto incomincia con una battaglia, quella di Solferino, e termina con i primi scontri in Galizia, regione al centro di immani battaglie nel corso dei primi mesi della Grande Guerra.

In Galizia è di stanza Carlo Giuseppe, ultimo rampollo della famiglia Trotta e protagonista del romanzo. Per gli ultimi giorni del giugno 1914 è prevista una festa militare nel piccolo paese di confine: si festeggia un reggimento di cavalleria lì stanziato. Momento culminante dei festeggiamenti è un ricevimento che si svolge la sera del 28 giugno. Come accennavo domenica scorsa, è durante questo ricevimento che viene portata la notizia dell'attentato contro l'erede al trono Francesco Ferdinando. La scena, dicevo, è memorabile, vero capolavoro letterario, tanto l'istante in cui apprendiamo cosa rechi il misterioso messaggero giunto a cavallo quanto le scene che immediatamente seguono.

<<Il dragone scese da cavallo e chiese del colonnello Festetics. Gli fu risposto che il colonnello era già entrato. Un momento dopo il colonnello usciva, prendeva una lettera che l'ordinanza gli consegnava e ritornava in casa. Nell'anticamera dove non c'era una lumiera appesa al soffitto, si fermò. Un servitore gli si mise alle spalle con un candelabro in mano. Il colonnello strappò la busta (La marcia di Radetzky, Longanesi, 1953, p. 345)>>.

Sarà dallo sguardo incredulo di questo giovanissimo servitore, che non riesce a fare a meno di sbirciare, che apprenderemo il contenuto della busta recapitata all'ufficiale.

<<Senza che egli avesse affatto cercato di leggere al disopra delle spalle del colonnello, il testo della lettera cadeva nel campo visivo dei suoi occhi bene educati, un'unica frase di poche parole scritte con un lapis turchino a lettere grandi e distinte [...]: "Corre voce successore al trono ucciso a Serajevo" dicevano le lettere>> (Ibidem, p. 346).

Joseph Roth Radetzkymarsch 1932.jpgQuanto segue è una serie di scene che ha dell'incredibile. Mentre un terribile temporale sta per scoppiare, all'interno del palazzo in cui si svolge il ricevimento avvengono le reazioni più disparate. Il colonnello convoca gli ufficiali: chi è incredulo, chi scioccato, chi, come gli ufficiali ungheresi, è lieto che il <<porco>> sia morto. La festa continua, almeno per un po'. E il clima diviene grottesco, nessuno sa cosa fare, il caos regna sovrano, d'un tratto le due bande presenti nella sala dal ballo smettono coi valzer e attaccano la marcia funebre di Chopin, ma è un disastro: direttori e musicisti sono brilli, non riescono ad andare a tempo. La marcia funebre acquista velocità, gli ufficiali ungheresi ballano ora senza curarsi di nasconderlo. Il tutto mentre fuori il temporale ormai infuria, e l'immagine metereologica della tempesta in atto si sovrappone perfettamente alla tempesta che sta per abbattersi sull'impero e sui personaggi. Quando finalmente si decide di interrompere la festa, si rinnovano le scene grottesche: ciascuno viene letteralmente allontanato; persino gli strumenti vengono portati via ai musicisti che però rimangono a ripetere i movimenti del suonare come automi: <<Quando fu portato via al suonatore di grancassa il suo pesante strumento, egli continuò a manovrare nell'aria le bacchette e i battagli. I maestri banda, che avevano bevuto più degli altri, furono finalmente trascinati via, da due servitori ciascuno, come i loro strumenti. Gli ospiti risero forte. Poi vi grande silenzio. Nessuno più parlò. Tutti erano rimasti nella posizioneche avevano avuto prima e nessuno più si mosse. Dopo gli strumenti, furono portate via anche le bottiglie. E a questo o a quello, che aveva ancora in mano il bicchiere mezzo vuoto, fu portato via il bicchiere>> (Ibidem, pp. 356-357).

Ecco che il sipario cala. La farsa è finita, il temporale passato. Gli ufficiali di grado più alto siedono sui gradini dell'ingresso: <<alcuni pezzetti di carta erano rimasti appiccicati alle loro spalle e non se ne andavano più>>.

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