domenica 21 maggio 2017

Parole parole parole

Parole parole parole... 

Tutti almeno una volta abbiamo ascoltato, anche solo di sfuggita o per caso, la celebre canzone di Mina Parole parole. Il ritornello di questa canzone mi è tornato in mente in questi giorni, lavorando alle ultime prove di un piccolo reading teatrale portato in scena nella scuola in cui insegno. Il titolo del lavoro - "Come fiocchi di neve d'inverno" -  riprendeva alcuni versi dell'Iliade, un passo nel quale si fronteggiano a parole Menelao e Odisseo. 
Gli Achei sono in assemblea e quando Menelao prende la parola parla con scioltezza, dicendo poche cose ma in modo sonoro poiché <<non era prolisso>>; quando è Odisseo a reggere lo scettro e ad avere quindi il turno di parola, se ne sta in piedi a lungo, guardando a terra, e a prima vista nessuno si farebbe avanti per ammirarlo.

Ma quando emetteva dal petto la sua voce robusta
e le parole, simili ai fiocchi di neve d'inverno,
allora nessun altro mortale avrebbe sfidato Odisseo...
                                                    (Iliade, III, vv. 221-224)

In Omero Odisseo è l'emblema della parola, una parola ammaliante, pronunciata con abilità, capace di trascinare gli altri e, quindi, di modificare la realtà. In tal senso essa può essere ambigua: se usata con malizia, la parola può ingannare, può distogliere dal vero, dal giusto, dall'onesto. Essa è dunque un'arma pericolosa. Lo sostiene anche il sofista Gorgia, vissuto fra il V e il IV sec. a.C., nel suo Encomio di Elena, un testo in cui egli si propone di difendere la moglie di Menelao, accusata dal mito di essere stata la causa della sanguinosa guerra di Troia, scagionandola da ogni imputazione. Uno dei punti salienti del discorso è proprio quello in cui l'autore sostiene che se Elena fu persuasa da Paride a seguirlo, e lo fu per mezzo delle parole, <<non fu colpevole ma sventurata>>. Le parole infatti, scrive ancora Gorgia, altro non sono se non un pharmakon, cioè 'medicina' ma anche 'veleno', capaci tanto di purificare quanto di stregare l'anima di chi le ascolta.

Cose del passato? Cose "da scuola"? Cose inutili nel nostro piccolo mondo finalmente in ripresa economica? Forse, per qualcuno. Ma proviamo a gettare uno sguardo alla cronaca: accendiamo il televisore o il cellulare o l'i-pad, sfogliamo le pagine di un giornale e riflettiamo. Quante parole vengono gettate ogni giorno nel mondo reale e nel tritacarne della rete? Fra queste, quante parole oneste, quante malevole? Il dibattito sui vaccini, le polemiche che ogni giorno la politica ci porta, i commenti ad ogni più diversa notizia circolante sui social sono condotti attraverso parole. Come riconoscere quelle oneste? Come soppesarne i contenuti? Come capire l'autorevolezza o la malafede di chi le pronuncia? Questa la sfida odierna. Scriveva Gian Luigi Beccaria all'inizio di un suo saggio uscito quasi trent'anni fa:

<<Dalla nascita alla morte, ogni giorno viviamo in un oceano di parole. Poche spesso sono nostre, veramente nostre. Ma una valanga le altre. Viviamo comunque o sbalestrati, o invece padroni, come pesci nell'acqua di questo mare. Ci muoviamo rapidi o impacciati. Inconsapevoli, respiriamo la lingua come l’aria, la produciamo come un atto fisiologico naturale. Raramente ci pensiamo su. Eppure la parola è uno dei più potenti mezzi che abbiamo a disposizione per capire, per convincere; per avvicinarci di più a chi ci sta vicino, per parlare con un amico, i propri cari, per capire ciò che gli altri ci dicono, che sentiamo o che leggiamo sui giornali e sui libri, per convincere, infine, chi ci sta a sentire che quanto diciamo è forse giusto, buono, utile>>.
(Gian Luigi Beccaria, Italiano. Antico e Nuovo, garzanti, Milano 1988, p. 7)

Naturalmente per poter scegliere, distinguere, soppesare le parole altrui è necessario innanzitutto ascoltare. e per ascoltare dobbiamo fare silenzio in noi, tacitando lo strepito; dobbiamo "disconnetterci", per usare un termine ormai entrato nel linguaggio comune. Dal silenzio nasceranno le domande e, forse, anche le parole. Quelle buone.