giovedì 3 settembre 2020

Lingua, cultura, storia e tradizioni venete: il caso della Valle dell'Agno

 Cari lettori e lettrici,

condivido un mio articolo apparso sull'ultimo numero di "Rezzara Notizie", periodico dell'istituto "Rezzara" di Vicenza e bollettino informativo dell'istituzione Università degli Adulti/Anziani. Il numero è ricco di interventi interessanti e ben scritti sulla lingua, la cultura, la storia e le tradizioni venete. Il mio articolo affronta tutto ciò con un focus sulla Valle dell'Agno (ovest vicentino). 



«Il Veneto ha tutto, si sente spesso dire: è come un piccolo universo geografico. Ha un territorio che comprende, in magica unità, montagne bellissime, una pianura fluviale e il mare; ha città splendide, monumenti di incommensurabile valore, ha gente che sa il fatto suo, ingegnosa, cosciente della propria storia e della propria ‘venetità’, che conosce i segreti della bellezza e del piacere del vivere, gente che ha però anche il senso della realtà, che ha conosciuto la durezza del vivere».

Così nella Guida del Veneto edita dal Touring Club Italiano (ed. 2005) veniva presentata la nostra regione. Una definizione efficace e che offre uno spaccato realistico di quanto il Veneto, almeno in parte, è. Tuttavia una guida turistica non può dire tutto: presenta i dati, descrive, ma non è uno studio. E a ben guardare il Veneto è anche una terra in cui i motivi di vanto vanno di pari passo con le contraddizioni: terra di crescita economica tardiva rispetto alle altre regioni del nord ma rapidissima e senza precedenti per portata, il Veneto è anche più di altre la regione in cui affiorano i limiti e i rischi di quello che il grande poeta Andrea Zanzotto chiamava «progresso scorsoio», basti solo pensare al triste primato in relazione al consumo di suolo o all’inquinamento dell’aria e delle acque, conseguenza di decenni di cementificazione selvaggia e pesante industrializzazione.

Con la sua rete di piccole e medie imprese, frutto dell’ingegno e della capacità delle sue genti, la regione ha poi sofferto particolarmente la crisi economica scoppiata nel 2008 e proseguita negli anni seguenti, crisi che ha messo in luce anche i limiti di un modello in crescente difficoltà rispetto alle sfide che la globalizzazione ha imposto. E a livello sociale? Con la crisi, accanto all’aumento dell’insicurezza e della sfiducia, si sono rafforzate le pulsioni autonomistiche aleggianti nella regione, talora sfociando in movimenti politici che si sono spinti ad invocare la vera e propria indipendenza rispetto ad un governo centrale percepito solo per le imposizioni, per la burocrazia, per le ingerenze all’arte di arrangiarsi tipicamente veneta. Secondo questa narrazione i problemi della regione risiederebbero sostanzialmente al di fuori e la toccherebbero in quanto importati in un mondo in sé altrimenti perfetto.

Da tale rinnovato senso di «venetità» sono anche scaturite negli ultimi anni varie iniziative di riscoperta di una sospirata identità veneta, tanto più sentita oggi dopo che nei decenni trascorsi il rapido sviluppo economico aveva di fatto spinto molti a troncare di netto i legami con un passato di povertà avvertito come un fardello di cui vergognarsi.

Ma è lecito allora chiedersi: quale cultura e quale identità riscoprire? Una sola? E in che modo? Penso in particolare al moltiplicarsi nel territorio di simboli legati alla storia veneziana o ai tentativi di insegnamento della lingua veneta attuati in alcuni comuni della regione. Non è scopo di questa riflessione quello di esprimere un giudizio tout court su iniziative di questo tenore quanto piuttosto di interrogarsi sulle modalità di approccio ad un patrimonio storico, culturale e sociale che va certamente preservato, valorizzato e trasmesso alle nuove generazioni. Questo obiettivo è del resto ben noto all’Istituto Rezzara e alle numerose sedi nel territorio vicentino dell’Università degli Adulti/Anziani, due istituzioni da molti anni impegnate, grazie all’apporto fattivo di docenti, collaboratori e corsisti, al recupero e allo studio della storia e della cultura delle genti venete.

E in tal senso il Veneto ha davvero molto da offrire: in campo artistico, musicale e letterario, con una storia che si snoda nei secoli e ai grandi affianca una miriade di figure minori ancora oggi in parte da riscoprire; in campo linguistico, con l’immenso patrimonio delle lingue locali e minoritarie, dal ladino al cimbro ai dialetti delle singole città, aree o specifiche attività; nel campo delle tradizioni locali e del folclore, con mondi anche molto diversi in dialogo fra loro; in campo sociale ed economico, con infinite storie di fatica, sofferenza, emigrazione, ma anche di grandi risultati. E si potrebbe continuare.

Un esempio per spiegarmi. Chi scrive vive nella valle dell’Agno, area in cui in modo particolare si avvertono le tensioni fra passato e presente e in cui non sono mancate iniziative di riscoperta e valorizzazione della cultura veneta come quelle citate sopra. Tuttavia i simboli – penso in particolare al leone marciano la cui effige ha conosciuto negli ultimi anni grande diffusione – da soli non bastano. Anzi, i simboli, quando non sono accompagnati da studio, consapevolezza e visione d’insieme, rischiano di veicolare significati fuorvianti e che poco hanno a che fare con la storia. Quanti fra coloro che si fanno vanto di esporre il vessillo della Serenissima esaltandone il governo illuminato hanno contezza della storia della valle e dei nobili che a lungo la ressero? Mi riferisco ai nobili conti Trissino, dalla cui schiatta fiorì nella prima metà del Cinquecento il letterato Giangiorgio, e che furono sempre legati agli imperatori tedeschi al seguito dei quali erano discesi in Italia; consolidati fra XIV e XV secolo i propri dominii grazie ad abili e talora spregiudicati giochi politici, nel secolo di Michelangelo e Tiziano, mentre confermavano la loro fedeltà alla Dominante, muovevano sospetti di aver abbracciato l’eresia protestante; nel frattempo governavano col pugno di ferro.


Come non chiedersi allora il significato di certe riproposte? Qual è il loro scopo e soprattutto quale identità puntano a veicolare? Perché se si vuole affrontare con coscienza e necessaria scientificità il tema dell’identità veneta si dovrà prima o poi fare i conti con la sua dimensione plurale, eredità delle numerose genti transitate per queste nostre terre, dalle montagne alla laguna, e degli influssi con popoli e culture vicine, penso in particolare all’area tedesca per tutta la fascia montana e pedemontana o, per Venezia, ai rapporti con l’oriente. Anche a tal proposito vorrei offrire un piccolo esempio personale. Cresciuto in collina, mi sono abituato ad osservare le cose da una certa distanza: dal colle dietro la contrada dove il mio bisnonno giunse alla fine dell’Ottocento dopo aver lasciato Castello di Arzignano, vedo bene l’autostrada A4 e, parallela ad essa, la strada regionale 11. Quella strada poggia sull’antica via Postumia. Ma ben prima anche delle insegne di Roma queste terre avevano conosciuto una civiltà fiorente e pacifica, quella dei cosiddetti paleoveneti, e continuando a ritroso possiamo giungere fino all’Età del Rame, come testimonia l’area sepolcrale emersa negli anni Novanta a Sovizzo. Dopo la caduta di Roma, per millenni questa stessa zona fu passaggio obbligato per eserciti e genti migranti che hanno lasciato i segni della loro presenza. Questa è l’identità del Veneto: plurale e pluristratificata.

Oggi la stessa via Postumia è percorsa da torme di turisti che, scendendo dal nord o arrivando dalla Lombardia, corrono ad affollare Venezia, altro grande simbolo dell’identità e delle contraddizioni che una certa idea di passato e, più in generale, di cultura rischia di veicolare. È il dramma stesso della città lagunare, costretta ad affidarsi al turismo di massa per sopravvivere e dallo stesso soffocata, consumata, ridotta a parco dei divertimenti, a ricordarci che accanto ad uno studio scientifico e rigoroso del patrimonio culturale è necessario pensare ad un modo nuovo di trasmetterlo e di fruirlo, contestualizzandolo in una visione più ampia, superando approcci ideologici e soprattutto guardando al futuro. La valorizzazione del passato e delle identità dovrebbe infatti aprirsi alle sfide globali, prima fra tutti quella per la salvaguardia del pianeta, concretizzandosi in un rapporto nuovo con il territorio, rispettoso di quanto è stato ma, al contempo, aperto al futuro. È senza dubbio un’impresa che richiede coraggio e impegno notevoli ma che, considerata la posta in gioco, non può restare intentata. Dopotutto siamo o non siamo veneti?