sabato 31 dicembre 2022

Il Capodanno di Tönle Bintarn

Il mio augurio di Buon Anno con una delle pagine più belle del libro per me più bello di Mario Rigoni Stern.

«A mezzanotte la Schola Cantorum della parrocchia cantò durante la messa solenne il coro del maestro Perosi «Al Signor levate, o genti... » , e dopo, quando tutto il popolo e le autorità e gli ufficiali e gli alpini del presidio si riversarono nelle strade e nelle piazze si diede il via, dall'alto della Gaiga, ai grandi fuochi pirotecnici che spaventarono tutti i cani dei dintorni e le cincie, i cuffolotti, i tordi nelle case degli uccellatori.
Ma Tônle non poteva essere con tutti gli altri compaesani. Perché avrebbe dovuto farsi arrestare proprio in quella notte di gran baldoria? E perché solo lui non doveva partecipare alla festa di cui tanto si era parlato nelle lunghe sere schiarite dal lumino tra il fruscio dei mulinelli e degli aspi? Nel pomeriggio era salito sul monte Katz, poi dal bosco del Gharto aveva trascinato sulla neve, poco sotto la croce, un grande mucchio di rami secchi tagliati dalle piante in piedi, e aspettò il grande evento seduto su un tronco davanti alla hutta dei Runz. Da lassù udiva le fanfare suonare a tutto fiato e il brusio del popolo. Dopo la fantasmagoria dei fuochi, e dopo che l'eco dei botti si spense per le montagne e i cani smisero di latrare, allora accese il suo fuoco solitario e bevette un sorso di grappa da una bottiglietta che aveva portato con sé. Laggiù in paese più di uno vide il suo fuoco e i nostri della contrada, che erano scesi a far festa con tutti gli altri, ammiccavano tra loro, allegri».

Mario Rigoni Stern, Storia di Tönle, Einaudi, Torino 1978, pp. 35-36.

lunedì 26 dicembre 2022

Vacanze di memoria. Alla scoperta di alcuni luoghi della Resistenza piemontese

Care lettrici e cari lettori,
dopo mesi davvero intensi torno a scrivere per augurarvi serene festività natalizie. Lo faccio con un racconto di viaggio scritto per il periodico dell'ANPI provinciale di Vicenza qualche mese fa, al rientro da una stupenda vacanza fra il Piemonte, la Francia e la Liguria. Spero di trasmettervi almeno in parte quanto ho provato ripercorrendo i passi della Resistenza in quelle terre.

Può una normale vacanza trasformarsi in un viaggio a ritroso nel tempo? Sì, se si toccano luoghi in cui la storia ha lasciato traccia del suo passaggio. E per la storia della Resistenza in particolare, poche province quanto quella di Cuneo possono contare memorie tanto numerose e importanti: luoghi, lapidi, monumenti, ma anche pagine indimenticabili scritte da altrettanti autori e autrici che alla Resistenza sono legati indissolubilmente. Nomi come quello di Duccio Galimberti, di Dante Livio Bianco, di Nuto Revelli, di Giorgio Bocca, di Ada Gobetti, di Lalla Romano per Cuneo e le sue valli alpine, di Beppe Fenoglio per Alba e le Langhe.

Nata come vacanza “francese” con Nizza e i suoi musei – e in particolare il meraviglioso museo Chagall – come meta, la seconda settimana di agosto si è trasformata per me e per una coppia di cari amici in un viaggio che ha incrociato di continuo le tracce della Resistenza in terra piemontese. Per alleggerire il viaggio di avvicinamento a Nizza infatti, in fase di pianificazione decidiamo di pernottare, sia all’andata che al ritorno, in Piemonte. La prima notte sarà dunque nella zona di Cuneo. E qui, complici forse le numerose letture resistenziali, lancio agli amici la proposta: “Vi va qualcosa in valle Stura anziché in centro città?”. Presto fatto: prenotiamo in un B&B a Gaiola, appena dopo Borgo San Dalmazzo. È così, quasi senza pensarci, che è iniziato il nostro viaggio nella memoria.


Cuneo

Il primo giorno di vacanza visitiamo Cuneo. È una città sabauda nell’aspetto e nell’impianto, specie nella sua parte più moderna: viali alberati, stemmi reali e facciate Liberty. Sorge alla confluenza delle valli Stura e Gesso ed è il primo centro importante che si incontra scendendo dal confine con la Francia. Una via obbligata per giungere in Italia, dall’antichità a oggi. Ma Cuneo è anche, e soprattutto, città di Resistenza, Medaglia d’oro al valor militare. Così la prima tappa della nostra passeggiata in centro ci porta in corso IV novembre: qui, al civico 8, una lapide ricorda la morte di Sandro Delmastro, ufficiale di marina e partigiano di Giustizia e Libertà, ucciso da un quindicenne della legione “Ettore Muti” mentre tentava di fuggire dopo l’arresto.


La lapide è incastonata fra due finestre di un edificio razionalista dei tempi del regime. E guardandola è difficile non emozionarsi: Sandro era l’amico di arrampicata di Primo Levi, colui che iniziò il futuro scrittore all’alpinismo, vissuto da entrambi come palestra di libertà negli anni bui che precedettero il secondo conflitto mondiale. Di lui Levi ha tracciato uno splendido ritratto nel racconto Ferro, contenuto nel Sistema periodico: «Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda» (P. Levi, Tutti i racconti, Einaudi, Torino 2005, pp. 402-03). Partigiano dopo l’8 settembre, Sandro fu ucciso il 4 aprile 1944. Della sua morte fu testimone Anna, allora fidanzata di Nuto Revelli.

Proseguiamo la nostra visita guardandoci intorno attentamente. Numerose sono infatti le tracce della Resistenza in centro, nelle lapidi che punteggiano le strade così come nella toponomastica, basti pensare che la piazza più grande di Cuneo è dedicata a Duccio Galimberti, intellettuale antifascista e figura di primissimo piano della Resistenza. Catturato a Torino nel novembre 1944, Galimberti fu torturato e sfigurato dai fascisti prima di essere finito a colpi di pistola. Gli saranno conferiti la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria e, da parte del CLN piemontese, il titolo di eroe nazionale. Oggi la sua casa è un museo: purtroppo la troviamo chiusa e non riusciamo a visitarla. Peccato.   

 

Paraloup

Ci sarebbe davvero moltissimo da visitare in queste zone: Borgo San Dalmazzo, per esempio, e più ancora Boves, piccolo centro in cui si consumò, nel settembre 1943, la prima di numerose stragi operate dai nazifascisti in Italia. Dovremo di sicuro ritornare, con più calma e magari con un clima più mite. Fra le mete disponibili, nel pomeriggio, scegliamo come meta Paraloup, un luogo che da anni mi aspettava, il cui nome già da solo basta a evocare suggestioni: Paraloup significa infatti ‘al riparo dai lupi’.


Nata come borgata di pastori, sorge a 1350 metri di quota nel comune di Rittana. Dopo l’8 settembre divenne la base per le formazioni “Italia libera” di Giustizia e Libertà che operavano nelle valli sopra Cuneo. Qui passarono Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca e Nuto Revelli, che a Paraloup ha dedicato pagine bellissime nel suo La guerra dei poveri. Vera e propria terra libera, qui si discuteva di politica, di società e di futuro. E qui, dopo decenni di abbandono seguiti alla fuga dalle montagne nel dopoguerra, da qualche anno è in atto un progetto di recupero che ha riportato in vita la borgata, restituendole la vocazione a luogo di incontro, di cultura e di scambio di esperienze, anche grazie a un innovativo progetto di restauro. Giovani tornati a vivere in montagna gestiscono un piccolo rifugio e accolgono il visitatore attraverso le baite, spiegando gli usi che esse avevano durante la Resistenza.

A Paraloup arriviamo attraverso una carrareccia di montagna, dopo mezz’ora di camminata. Nulla di difficoltoso, ma anche quassù il caldo di questa prima decade di agosto si fa sentire. Eppure basta un sorso d’acqua alla fontana appena fuori dall’abitato per ristorarci e immergerci in un mondo che sa di passato e di futuro al contempo. Estraggo dallo zaino la mia copia de La guerra dei poveri e dopo una foto di rito cominciamo a passeggiare fra le case accompagnati dalle parole di Revelli: «14 febbraio. La “mensa” e la “sala riunioni” di Paraloup sono nello stesso locale, nella stalla più grande. In una grangia accanto, la cucina e il magazzino viveri: nelle altre baite, cinque o sei, i dormitori. È strano, ma queste povere baite di Paraloup, diroccate, che affondano nella neve, mi riportano a Belogore, fra le povere isbe dalle pareti nere di fumo e dai tetti sconnessi, fra le tane scavate sotto terra, sul Don» (N. Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1919, p. 153).

Entriamo in una sala video. Qui un documentario interattivo presenta la storia della borgata dalle sue origini al progetto di recupero; il filmato si conclude coi volti dei giovani, ragazze e ragazzi, che hanno deciso di tornare a vivere in montagna, sulle orme dei loro avi. E dei partigiani.

Al rifugio chiediamo da bere qualcosa di tipico. La ragazza che serve al banco ritorna poco dopo con tre pastis, che sorseggiamo chiacchierando con lei: viene dalla Puglia e ha conosciuto Paraloup all’Università. È venuta quassù e si è innamorata del posto. Le chiediamo altre informazioni e lei chiama una sua collega della fondazione Revelli, che ci apre anche le baite che prima non abbiamo visitato, quella dedicata alle donne e quella che Revelli chiamava «sala riunioni», oggi centro culturale con tavoli e biblioteca. Paraloup è un posto davvero magico: quassù si respira un’aria affatto diversa da quella del mondo di giù. Qui il silenzio e la memoria viva sovrastano il rumore e le parole vane di un’Italia caciarona e volgare in perenne campagna elettorale. Ripartiamo a malincuore ma, al contempo, corroborati e pieni di speranza, come dei pellegrini, con la promessa di ritornare.

 

Il confine

Il giorno seguente, dopo una visita a Demonte, patria di Lalla Romano, e al suggestivo santuario di S. Anna di Vinadio, giungiamo in Francia attraverso il Colle della Lombarda, a 1350 metri di quota. Sul confine, che oggi si nota appena per il cambio di lingua sui cartelli, il passato riemerge attraverso i resti delle fortificazioni militari, ruderi di caserme, feritoie scavate nella roccia e bunker che ci scrutano silenziosi. Di qua il “vallo alpino” italiano, dall’altra, appena si comincia a scendere, le fortificazioni francesi.


Fantasmi di un’epoca di confini armati che conduce in un lampo il pensiero al presente e ai suoi nuovi muri, dentro e fuori d’Europa. Osservo le feritoie e la memoria corre a una frase di Mario Rigoni Stern. Nel 1940, quando l’Italia dichiarò guerra a una Francia ormai sconfitta ma che sulle Alpi resistette con valore all’aggressione mussoliniana, Mario si trovava in Valle d’Aosta, all’estremo nord di questa catena di fortificazioni. Era a pochi passi dal confine con un paese in guerra, eppure, come “le montagne erano uguali”.

Prima di scendere verso Nizza passeggiamo per alcuni minuti sul crinale. Getto lo sguardo a terra, attratto da un cilindretto di ferro arrugginito. È quanto resta di un bossolo di ferro. Un brivido mi coglie prendendolo in mano: questo genere di bossoli venne realizzato nell’ultima parte della guerra, quando ormai nelle industrie tedesche e italiane scarseggiava il più prezioso ottone. Allora ripenso a Revelli, a quando, nel suo libro, parla delle offensive estive dei tedeschi per occupare i valichi alpini, divenuti per loro fondamentali dopo lo sbarco alleato nel sud della Francia. E sì, anche questo pezzetto di ferro arrugginito allora può raccontare la storia.

 

Mondovì

Dopo i tre giorni trascorsi a Nizza e dintorni, anche il viaggio verso casa è segnato dalle tracce della Resistenza. Giungiamo a Mondovì verso sera, attraverso valli inaridite dalla siccità e devastate dagli incendi. Poi il paesaggio cambia quasi di colpo. In confronto al paesaggio semilunare incontrato nell’entroterra ligure la zona di Mondovì, specie la parte delle sue colline meridionali, ci stupisce per il verde rigoglioso dei prati e dei boschi. Pernottiamo nella città alta, in un alloggio che si affaccia su Piazza Maggiore. Restiamo a bocca aperta di fronte alla bellezza del borgo, per di più arricchito da un Festival dell’artigianato che trasforma fino a notte fonda il centro in una grande festa, con stand, visite guidate a chiese e palazzi, concerti, dimostrazioni, bancarelle. Naturalmente mi fiondo su quelle che espongono libri. E ne trovo una che vende testi locali sulla Resistenza riesumati da cantine e magazzini. Non resisto e finisco per farne incetta.
Poi, passeggiando per la piazza, scopro ancora una lapide ai partigiani caduti. E stavolta a tornare alla memoria è la frase che Meneghello in Libera nos a malo getta in faccia al lettore al termine della divertente gara di arrampicata dei brombóli (i maggiolini) sulle pareti del monumento ai caduti della Grande Guerra poco sotto il santuario di Santa Libera: «Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?».

 

Alba

L’ultimo giorno, ormai sulla via del ritorno, facciamo tappa ad Alba, dove giungiamo dopo aver attraversato le Langhe. Qui di nuovo e per lungo tempo la vista deve sopportare i danni causati dalla siccità. Nubi di polvere bianca si alzano dai campi dove possenti trattori arano una terra che sa di polvere. Eccole, oggi, le colline degli antieroi di Fenoglio, di Johnny e di Milton. E pare impossibile che possano essere le stesse. Nelle pagine dello scrittore di Alba è onnipresente il fango, specie nei giorni della leggendaria quanto effimera presa della città da parte delle forze partigiane, nell’autunno del 1944.

Prima di entrare in centro facciamo tappa al cimitero.

È immenso, strutturato su più sezioni, come pezzi di un puzzle assemblato in tempi diversi. La parte dedicata ai caduti della Resistenza, che scopriamo per caso, tocca il cuore: un recinto interno di ferro scuro, a terra un’erba perfettamente curata, verdissima. E per ciascuna tomba una piccola lapide di granito col nome, il cognome e la dicitura ‘partigiano’. Poco dopo, ancora una volta senza averlo cercato, scopriamo, a ridosso di un muro di cotto ricoperto di intonaco bianco, un monumento che ricorda sei uomini fucilati dai nazifascisti. Sostiamo in silenzio prima di avvicinarci al muro. I fori delle pallottole sono ancora lì. Sotto l’intonaco il rosso-arancio dei mattoni.

Infine, dopo aver chiesto aiuto a una signora che dava da bere ai fiori sulla tomba dei suoi cari, la troviamo. E così anche la delusione per la successiva visita alla città, invasa di gente per il mercato settimanale, e per il Centro studi Beppe Fenoglio trovato chiuso, sfuma di fronte a questo momento, che a buon diritto, nella memoria, resta l’ultima tappa di una vacanza diventata senza volerlo anche pellegrinaggio di memoria. Seguiamo le indicazioni della signora e la troviamo senza difficoltà. Una tomba di famiglia. Lui, Beppe, lo scrittore della Resistenza, è il primo della lapide a sinistra. La foto lo ritrae in giacca e cravatta, lo sguardo rivolto verso destra, il lato sinistro del viso appena in ombra. Sotto il nome le date di nascita e di morte, 1922-1963. Fra il nome e le date, due parole, «scrittore e partigiano».

Curioso, penso: abbiamo iniziato il nostro viaggio rendendo omaggio a Sandro Delmastro e ora eccoci qua, di fronte a un altro partigiano. Partigiano e scrittore. Ce ne andiamo in silenzio mentre in testa risuona una frase, forse la più famosa del Partigiano Johhny: «E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno» (B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 2005, p. 392). Quando, nel primo pomeriggio, risaliamo in macchina sappiamo che in questa settimana non ci siamo mossi soltanto nello spazio. Abbiamo percorso oltre mille chilometri, ma il nostro è stato anche un viaggio nel tempo. Nel passato, certo, ma anche nel presente. Perché a vivere oggi serve la memoria. Soprattutto per vivere oggi.


domenica 7 agosto 2022

Libri da leggere: La morte dei caprioli belli di Ota Pavel

 «Gli occhi del cane e quelli dell’uomo si incontrarono. Si guardarono l’un l’altro a lungo, forse per un’eternità, le luci dentro di loro si spegnevano e si accendevano, e quello che si dissero non lo sapremo ami perché sono morti tutti e due, e anche se fossero vivi, non lo saprebbe nessuno, perché nemmeno loro lo sapevano. Forse imprecavano sulla vita da cani, forse su quella degli ebrei, ma sono tutte supposizioni. Holan si alzò, si stiracchiò e si avviò pigramente come un qualunque cane di traghetto dietro al mio papà, come se gli fosse appartenuto da sempre. Sul viottolo si trasformò in lupo».

Ota Pavel, La morte dei caprioli belli, Keller, Rovereto 2013, p. 61

Ota Pavel (1930-1973), nato Popper, è stato uno scrittore ceco. Il padre era ebreo, la madre cattolica. Sopravvissuto alla Shoah, che vide il padre e due fratelli deportati nei campi nazisti, da cui riuscirono poi a tornare, Pavel fu giornalista sportivo e scrittore. Nel 1964, mentre era inviato sportivo alle Olimpiadi invernali di Innsbruck, si manifestarono i primi segni di una malattia psichica, diagnosticata poco dopo come disturbo bipolare, che condurrà a termine la sua carriera giornalistica e lo costringerà a frequenti ricoveri. Sarà questo però anche il periodo più fecondo a livello letterario. Pavel (aveva cambiato nome nel 1955), morirà nel 1973 per un attacco cardiaco. È sepolto presso il Nuovo cimitero ebraico di Praga, accanto al padre, commesso viaggiatore e indefesso sognatore, protagonista de La morte dei caprioli belli

Nove racconti vanno a comporre un romanzo vivo, pieno di affetto e di ironia, che si snoda fra gli anni Trenta e il secondo dopoguerra. Ci troveremo le storie di affari e fallimenti, di aspirapolvere e acchiappamosche, di beffe ai danni dei tedeschi e di speranze infrante. E di carpe! Storie vere nel significato più profondo. 

Fra tanti libri che passano e scompaiono, magari ben costruiti ma vuoti e freddi come una casa senza vita, ci sono libri piccoli e vivi, che fanno ridere e piangere, sperare e riflettere, palpitare e scrollare la testa al pensiero di com’è la vita. Libri belli e onesti. Ecco, oggi posso dire di averne letto uno più, di questi libri.


lunedì 18 luglio 2022

Libri da leggere: I compagni sconosciuti di Franco Lucentini

Quando sentiamo il nome di Franco Lucentini (1920-2002) il pensiero corre al sodalizio letterario e di amicizia che lo unì a Carlo Fruttero (1926-1912), eppure nel 1951 un giovane Lucentini inaugurava con un racconto lungo "I gettoni" einaudiani diretti da Elio Vittorini.

Ambientato in una Vienna appena uscita dalla Seconda guerra mondiale, fra edifici in macerie e persone che tentano di riprendere a vivere nonostante la bufera che ha travolto ogni cosa, I compagni sconosciuti ci presenta un personaggio che ha deciso di farla finita ma che, proprio sul ponte da cui sta per gettarsi, viene salvato da un soldato russo di guardia. Inizia così, fra compagni sconosciuti, un percorso di relazioni: pochi giorni, ma che hanno l'intensità di una vita intera.

Un libro duro, un racconto quasi senza speranza eppure pervaso di dolcezza e di malinconia narrato con una lingua innovativa, spuria, plurale. 

«Posò il lavoro accanto a sé, sulla cassa del carbone, e si aggiustava la veste sulle ginocchia. Poi si alzò, stava in piedi vicino al letto.
— Nc znaiu, — ripeté. Non lo sapeva. No ja chatiela b… pamòtch... — Ma avrebbe voluto aiutarmi...
— I kak? — E come?
— N... ne znaiu —. Non lo sapeva.
— Ne znaiesc, a? — Ah, non lo sapeva?
— N… net. Ne znaiu... ne znaiu...
Stavo supino sul letto e la guardavo, nella luce che già finiva. Guardavo i capelli scoloriti, la faccia nell'ombra. Poi guardavo la vecchia giacca che portava, i bottoni arrugginiti alla cintola, la veste pesante che cadeva diritta sulle ginocchia. Volevo parlare, ma non potevo parlare. Mossi una mano sulla coperta e stesi piano il braccio, le toccai l'orlo della veste, le ginocchia. Lei stava ferma, non si muoveva, sentivo con la mano le gambe che tremavano. Di sotto era vestita anche pili povera, pure io tremavo e tenevo gli occhi chiusi. Quando li aprii vidi che piangeva, le lagrime le rotolavano sulla faccia.
La mano mi ricadde e le tenevo solo l'orlo della veste; poi lasciai pure quello, mi voltai contro il muro. La sentii che si sedeva di nuovo sulla cassa e piangeva.
Pianse piano, piano, per un pezzo, poi non so se ancora piangeva, si sentiva solo respirare. Io guardavo la parete scrostata, vicino al cuscino, e ogni tanto muovevo un dito, premevo con l'unghia sul calcinaccio che veniva via».

Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, Einaudi, Torino 1951, p. 58.




sabato 2 luglio 2022

Libri da leggere: i diari di Emanuele Artom

«Siamo figli della nostra generazione: riusciremo a rinnovarci senza invecchiare? (p.148)».

I diari di Emanuele Artom (1915-1944), partigiano ebreo piemontese, sono un testo che tutti dovremmo leggere. E non soltanto per il già di per sé straordinario il percorso spirituale di Artom, intellettuale antifascista e poi partigiano col ruolo di commissario politico per il P.d'A. in Val Pellice e in Val Germanasca; li dovremmo leggere per l'onestà con cui, a partire dalla propria esperienza, Artom racconta prima l'evoluzione di una generazione e quindi la Resistenza, una Resistenza per niente mitizzata ma da lui vissuta con altissimo senso morale.

I diari si compongono di due parti: la prima dal gennaio 1940 al settembre 1943, la seconda dal novembre del 1943 al 23 febbraio 1944. Ne emerge il progressivo percorso intellettuale e morale dell'autore, fino alla scelta di aderire alla Resistenza. Vi si trovano fatti ed episodi della vita quotidiana ma anche profonde riflessioni sul significato profondo che l'antifascismo prima e la lotta partigiana poi rappresentano per Artom: uno scontro etico fra un mondo di sopraffazione e la possibilità, attraverso la Resistenza, di costruire una società nuova, fondata su presupposti morali totalmente diversi rispetto al fascismo. 

Catturato nel marzo del 1944, Artom morì a seguito delle torture subite; il suo corpo non è mai stato ritrovato.

lunedì 27 giugno 2022

Intervento commemorativo per i Sette Martiri di Valdagno - 26 giugno 2022

Signora Assessore, parenti delle vittime, autorità civili e militari, amici del complesso strumentale,
cittadine e cittadini e in particolare ragazze ragazzi presenti: a tutte e tutti voi il mio saluto personale e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Invitato dalla sezione di Valdagno, torno dopo pochi anni dalla prima volta, nel 2018, a fare memoria con voi dei nostri “Sette Martiri”. E dico nostri non soltanto per il legame che mi unisce a Valdagno, città medaglia d’argento per la Resistenza e città in cui lavoro; nostri perché quello che i Sette Martiri hanno lasciato è un lascito che travalica i confini e che tuttavia spinge una comunità a riunirsi per ricordarli e per fare proprio il loro messaggio, nel presente e nel futuro da costruire insieme. È questo – non mi stanco mai di ripeterlo – il significato del commemorare; non una cerimonia che si ripete ma un’occasione per ribadirci gli uni con gli altri la direzione da prendere, una direzione orientata da chi, 78 anni fa, affermò con la propria vita la parte della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e della solidarietà.

Oggi vorrei rivolgermi in particolare ai giovani presenti, immaginandoli come gli adolescenti di cui ogni mattina, da settembre a giugno, incontro gli sguardi, ascolto le voci e scruto i gesti. A voi, ragazze e ragazzi, vorrei rivolgere le riflessioni a partire dal ricordo dei sette che oggi commemoriamo e che sono divenuti testimoni – questo il significato della parola ‘martire’. Sette uomini che furono fucilati dai nazifascisti il 3 luglio 1944 a pochi passi dal monumento davanti al quale è iniziata la nostra cerimonia.

Ferruccio Baù, di Valdagno, classe 1908, era un commerciante. Si era fatto notare come antifascista nel luglio 1943, quando aveva gettato dal balcone del municipio la foto di Mussolini, deposto e arrestato pochi giorni prima;

Virgilio Cenzi, classe 1896, era un militante del PCI e sostenitore del movimento partigiano: faceva il falegname alla manifattura della Marzotto;

Antonio Bietolini, classe 1900, era meccanico; politicamente era un militante comunista di lungo corso, arrestato più volte nel corso del ventennio e costretto a scontare sette anni di Confino alle isole Tremiti. Dal febbraio 1944 dirigeva la federazione vicentina del PCI;

Alfeo Guadagnin, classe 1899, era un socialista bassanese di lunga militanza, di professione noleggiatore d’auto, animatore della Resistenza nel Bassanese. L’arresto lo colse mentre si trovava a Valdagno per incontrarsi con l’amico Ferruccio Baù;

Marino Ceccon, classe 1912, comunista, era operaio agli stabilimenti “Marzotto”;

Pasquale Giovanni Zordan, valdagnese, soprannominato “Nani Sette”, classe 1908, era anche lui comunista, attivista nella fabbrica “Marzotto”;

Francesco Rilievo, classe 1919, operaio alla “Marzotto”, non aveva legami con l’attività politica clandestina né con la Resistenza, fu arrestato semplicemente perché cognato di Giovanni Zordan.

A questi sette uomini, come sappiamo, doveva aggiungersi Raffaele Preto, di 24 anni, di professione calzolaio, membro della Resistenza, che riuscì invece a scampare alla fucilazione attraverso una fortunosa fuga e fu poi partigiano. Gli altri furono uccisi perché antifascisti nel corso di una rappresaglia che aveva il duplice scopo di colpire l’attività clandestina e terrorizzare la popolazione. Nessuno di loro aveva a che fare con lo scontro fra tedeschi e partigiani avvenuto il 30 giugno precedente e che fu addotto a motivazione della rappresaglia. Ma questa era la prassi dei nazifascisti: la rappresaglia serviva a terrorizzare la popolazione e a spingerla a rifiutare l’appoggio che essa dava ai partigiani.

Ma fermiamoci a riflettere un istante sulle parole: nazifascisti, partigiani, antifascisti, rappresaglia sono infatti parole che ci suonano strane oggi, così distanti dal nostro eterno presente. Allora cerchiamo di fare insieme un passo indietro per tornare alla Valdagno di 78 anni fa.

Perché, ragazze ragazzi, 78 anni fa qui come nel resto del nord Italia, non c’era la libertà di cui oggi noi godiamo i frutti, spesso dimenticandoci di chi la conquistò; 78 anni fa anche solo uscire di casa per comperare quel poco che il razionamento dei viveri consentiva era un’azione che poteva costare la vita. Valdagno pullulava di soldati e poliziotti della RSI, lo stato fantoccio che dopo l’8 settembre 1943 era stato costituito da Mussolini per continuare la guerra a fianco della Germania nazista. E tutto ciò avveniva dopo vent’anni di dittatura fascista: una dittatura che aveva abolito la libertà di parola, di stampa, di riunione, che aveva sciolto tutti i partiti tranne quello fascista così come i sindacati, che aveva educato un’intera generazione non a pensare con la propria testa e a sentire col cuore ma a “credere, obbedire e combattere” praticando l’insulto sistematico dell’avversario, propugnando il nazionalismo e il razzismo e affermandosi grazie alla violenza e all’uccisione degli avversari. Nomi che ancora una volta ci sembrano lontani, benché essi siano spesso presenti sui cartelli delle vie nelle nostre città: Piero Gobetti, Antonio Gramsci, don Giovanni Minzoni, Giacomo Matteotti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, per citarne solo alcuni.

Eppure, nonostante la violenza che il regime fascista aveva elevato a sistema di potere ci fu chi si oppose. Sei di coloro che furono fucilati, come avete sentito, partecipavano alla vita politica clandestina. Si erano interessati, avevano vinto l’indifferenza per cercare di fare qualcosa. E non soltanto per loro, ma anche per gli altri. Questa, ragazze e ragazzi, è una grandissima lezione. La libertà per quanti aderirono alla Resistenza non era soltanto, come spesso oggi la intendiamo, di libertà di fare e di essere, ma era molto più complessa. I partigiani e le partigiane combattevano anzitutto per una libertà da: dal fascismo e dall’occupante tedesco; ma anche una libertà di: cioè di essere, fare, creare, in pace; infine, e mi preme ricordarlo, la Resistenza propugnava una libertà con: cioè con gli altri, da vivere e condividere partecipando alla vita della società, attraverso diritti ma anche doveri, cercando di costruire un mondo, come recita una celebre canzone scritta da Italo Calvino, più umano, e più giusto, più libero e lieto. Sì, anche più lieto, intendendo ancora una volta la felicità come traguardo collettivo, non soltanto individuale.

E dall’altra parte invece? Per cosa combattevano i nazifascisti? Vi rispondo ancora con le parole di Calvino, questa volta tratte dal suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno. Le pronuncia Kim, un comandante partigiano:

C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro […] va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti; degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.

Questo slancio, questo desiderio di cambiare il mondo è proprio di ogni nuova generazione di giovani, ma nella generazione che aderì alla Resistenza ha dato frutti che non temo di definire eccezionali. Ma ci pensate? Erano cresciuti con una sola idea, spesso non avevano fatto che poche classi a scuola, eppure scelsero, e rischiando la vita. Erano, utilizzando un’espressione di un grande scrittore vicentino (e partigiano), Luigi Meneghello, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita, «apprendisti italiani».

E noi? Oggi spesso dimentichiamo che la libertà, come la democrazia, non è una conquista definitiva. Essa va costantemente alimentata. Come? Attraverso l’interesse, lo studio, la cura, la partecipazione alla vita sociale e politica. Lo so che è difficile, tanto più oggi. Veniamo infatti da oltre due anni di pandemia, da una crisi economica che dal 2008 non è mai passata; e ora persino una guerra alle porte dell’Europa. Sembra davvero difficile sperare e trovare la forza per contribuire a costruire un mondo migliore. E invece è proprio adesso che dobbiamo più darci da fare! Ciascuno nel proprio campo, nei contesti della propria vita: in famiglia, a scuola, nei vari gruppi che frequentiamo.

Sapete, mi ha molto colpito un dialogo che tempo fa ho avuto con una mia studentessa: una brava ragazza, impegnata, attiva, solare. Eppure mi diceva che non sentiva la scuola come vera vita, questa per lei era soltanto fuori, e quindi a poco valeva impegnarsi. Le sue parole mi sono rimaste dentro. Certo, possono esserci momenti di sconforto, ma non possiamo lasciare che le difficoltà ci abbattano. 78 anni fa esse erano infinitamente più grandi, eppure chi scelse di combattere per la libertà, la giustizia, la democrazia, la pace, lo fece pensando proprio a noi, al mondo che sarebbe venuto.

Vorrei davvero che avessimo più tempo, a scuola e altrove, per leggere gli scritti di quanti, uomini e donne, fecero parte della Resistenza. Torniamo a leggere, per citarne solo alcuni, il diario di Ada Prospero Gobetti o di Emanuele Artom, i libri di Calvino, di Primo Levi, di Rigoni Stern, di Beppe Fenoglio, di cui pure ricorrono i cento anni dalla nascita, di Luigi Meneghello, o ancora Il manifesto di Ventotene, scritto nel 1941, nel pieno della Seconda guerra mondiale, da alcuni intellettuali antifascisti confinati nel carcere di Ventotene; infine torniamo a leggere le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea così come la nostra Costituzione, frutto della Resistenza. Allo stesso modo dovremmo tornare sui luoghi, sostare, meditare di fronte alle lapidi, ai nomi, ai monumenti – pensiamo all’ultima lapide posta sulla facciata delle scuole elementari, dove sono ancora presenti le celle in cui i Sette Martiri furono imprigionati. E questo non per restare inerti a contemplare il passato come una reliquia, ma per trovare motivazione e coraggio per agire oggi. Perché violenza, guerra, cancellazione dei diritti, oppressione dei più deboli e altre ingiustizie sono ancora ben presenti nella società. Lo abbiamo visto, lo vediamo guardandoci intorno come scorrendo i social, lontano e vicino: pensiamo che solo alcuni giorni fa a Vicenza è stata imbrattata la sede della CGIL, un sindacato, con metodi simili a quelli che usavano le squadracce fasciste. E poi ci sono le nuove sfide, prima fra tutti la difesa dell’ambiente e la costruzione di un futuro ecosostenibile e in cui le risorse siano distribuite con maggiore equità e con solidarietà.

Insomma, dobbiamo, dovete, ragazze e ragazzi, darvi da fare. Scriveva Antonio Gramsci nel lontano 1919: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».

Così faremo vera memoria dei Sette Martiri come di tutte e tutti coloro che diedero la vita per la causa della Libertà. E voglio allora salutarvi con le parole di un ragazzo di diciannove anni, Giacomo Ulivi, partigiano fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Scriveva Ulivi nella sua ultima lettera:

Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto.

Responsabilità è la nostra, la vostra sfida: della memoria viva, che agisca nell’oggi. Ecco il significato del nostro essere qui, a commemorare i nostri Sette Martiri. Buon lavoro a tutte e tutti noi. Viva la Resistenza!

martedì 21 giugno 2022

La lodola mattiniera, capolavoro da riscoprire di Romano Pascutto

«Fiorenzo portò fuori i due piccoli a vedere la terra appena arata, ancora in zolle rovesciate come grosse fette di pane scuro, che l'erpice avrebbe poi spianato per la semina. Amava i bambini, fossero suoi o degli altri. Amava la terra indipendentemente dal frutto che ne ricavava. Era felice di vivere perché amava, pensava, lavorava, lottava. Gli amici, compreso Santo, dicevano di lui che era «un poco matto»; e lui pensava che i matti erano loro perché, vivendo, non riuscivano ad afferrare tutto il gusto che aveva la vita. Certe volte stentavano a capirlo. Nemmeno lui in certi momenti aveva chiara coscienza di ciò che gli accadeva nell'intimo. Pensava che talvolta gli uomini diventavano malvagi perché smarrivano se stessi. Come il padre di Piero, Come Tonello. Voleva portarlo nella sua amministrazione. Certo, avrebbe sudato di meno e guadagnato di più; ma sarebbe stato come strappare una radice dal terreno proprio per trapiantarla in un terreno sconosciuto, dove avrebbe potuto inaridire. Un albero secco e inutile, buono per il fuoco. I due ciliegi, invece, con tanti frutti rossi sopra il tesoro nascosto.
A questi pensieri, strinse a sé i due bambini, il figlio proprio e quello di Evelina, sentendoli caldi e teneri come due pulcini. «Che importa soffrire» si disse «se questi, quando saranno grandi, non saranno costretti a rifare la nostra vita, a scappare, nascondersi, odiare, sparare, uccidere?».

Romano Pascutto,
La lodola mattiniera, in Opere complete II (a cura di Saveria Chemotti), Marsilio, Venezia 1996.

La lodola mattiniera è un capolavoro dimenticato di un autore altrettanto (ingiustamente) dimenticato o ritenuto a torto locale. Nato a San Stino di Livenza nel 1909, Pascutto fu sfollato a Firenze con la famiglia dopo la rotta di Caporetto.  
Antifascista, nel 1930 fu costretto a emigrare in Libia assieme al fratello, dove restò, come funzionario di Compagnie di Navigazione, fino al rientro coatto in Italia nel 1943. Partecipò attivamente alla Resistenza. Nel dopoguerra lavorò per la compagnia "Tirrenia" a Venezia. Iscritto al PCI, fu sindaco nel di San Stino dal 1975 al 1980. Morì a Treviso nel 1982. Fu poeta (in italiano e in veneto) e scrittore di prosa, giornalista e dirigente politico.

La lodola mattiniera è il romanzo di una generazione e di un territorio, la grande pianura trevisana, in cui la grande storia incontra le storie quotidiane delle persone. Due vite in particolare si confrontano in primo piano: da una parte Tonello, prima fattore e poi grosso proprietario terriero tutto preso dall'accumulare la sua roba, dall'altra Fiorenzo, detto Fiore, contadino che lotta per i diritti della sua gente. Fra le loro, tante altre storie di vita, in un mondo pervaso dalla fatica del vivere. 
Romano Pascutto, da https://www.sanstino.it/
La vicenda si snoda dagli anni Venti a quelli del secondo dopoguerra, in un'atmosfera da grande epopea contadina. Scorrendo le pagine del romanzo ho pensato spesso a Novecento di Bertolucci: molte situazioni avvicinano le due opere, ma l'atroce violenza del film di Bertolucci è assente nel libro di Pascutto, temperata non da vicende meno dolorose ma, oltre che dalla tipicità dell'ambientazione, da una scrittura delicata, precisa, piena di amore per la materia narrata, una scrittura limpida e onesta, che accompagna il lettore dipingendo paesaggi, vicende e personaggi di un mondo che è stato.
Trovare oggi La lodola mattiniera non è facile: il libro, edito per la prima volta per i tipi di Rebellato nel 1977, è stato ripubblicato nel 1996 da Marsilio ed è oggi piuttosto difficile da reperire. Ma, fidatevi, è un'impresa che vi ripagherà. Più ancora però pagherà la lettura di questo classico che non può mancare in chi ama la letteratura del Novecento, e quella veneta in particolare. Perché qui l'anima della letteratura veneta, fatta di amore per la propria terra, di lotta, di paesaggio e di vita vissuta, di parole e soprattutto di silenzi, emerge in tutta la sua potenza.








venerdì 3 giugno 2022

Il meraviglioso incipit di "Gente di mare" di Giovanni Comisso

Frutto di un viaggio compiuto nel 1922 a bordo di un veliero, Gente di mare è un capolavoro oggi poco conosciuto del grande scrittore veneto Giovanni Comisso. Con sguardo attento e capacità rara di penetrare il senso profondo di luoghi e persone, l'autore ci accompagna, attraverso i suoi racconti, fra le genti delle diverse sponde dell'Adriatico: vite legate al mare e alla terra, vite continuamente segnate dalla fatica di ogni nuova partenza e da ogni nuovo sospirato approdo.
Al libro, pubblicato nel 1928, fu assegnato l'anno seguente il premio Bagutta. 
Ne riporto l'incipit con la speranza di far nascere il desiderio di scoprirlo o di riscoprirlo. 

«Si arriva per prati d'acqua, dopo avere rasentato paesi costruiti come scene di teatro di altri tempi e panorami di alberi con terreni erbosi di un verde prepotente sul precipizio azzurro del mare. 
Il vaporino attracca al molo arioso e subito ci accolgono i più vivaci sorrisi accresciuti dalla luce. La città è un aspro guscio d'ostrica dove tra riflessi di madreperla la vita fermenta. Sui gradini del primo ponte, vecchi pescatori curvi e frettolosi raggiustano le reti bruciate dal salso, tenendole tese con le dita dei piedi. Più avanti ci s'accorge del temperamento isolano della gente, insistente a guardarci e a commentare sulla stoffa del nostro pastrano. Altri vecchi, puntigliosi e pettegoli, seduti su piccole sedie rattoppano una vela e tra le grosse pieghe spuntano i loro piedi con lucide ciabatte da donna. La calle rasenta il canale fitto di barche. Forti ragazzi camminano abbracciati e sorridono. Botteghe di verdura e di frutta sembrano vuotarsi sul selciato sconnesso. Tutti parlano a voce alta con la stessa intonazione come fossero a bordo dei loro velieri tra il vento che disperda i comandi. Spesso l'aria viene lacerata da grida astiose che risentono della lotta con il mare. Le donne sembrano create dopo un fortunale di scirocco che abbia allenato all'amore le braccia dei marinai: tanto ànno di ventoso nel capo e di patito nel corpo. Ma le giovinette incantano per meraviglia. Rinchiuse nelle piccole case, la noia le accende negli occhi verdastri, il collo su dalla centina delle spalle à tutto il desiderio di un mozzo che voglia scoprire la terra per primo e l'agilità a ogni mossa di vertebra non si nega, pure camminando sui duri zoccoli sbattuti per il dispetto di essere prigioniere nella città isolata. Sgusciano e sfuggono. Nell'ombra dei portici altre chinano i loro pensieri su di un lavoro di bianchi merletti come sopra alla muta apparizione del corpo amato. Sono state raccontate iniziative fantastiche di perdimento concesse in favore del ricco forestiero e siamo tentati a credere dallo sguardo penetrante e di agguato di certe vecchie nascoste dietro all'imposte socchiuse.
Seduti per terra, luridi di sole e di polvere, i bambini sono innumerevoli, quasi si pestano, sono come cuccioli che non riescano a spostarsi con le zampe non ancora congiunte da muscoli, ma dai ponti scendono e dalle barche attraccate spiccano salti i ragazzi già compatti nel corpo da arcieri. Ànno una turgidezza africana nel petto, il capo rotondo si volge libero sul collo brunito e nel camminare con i larghi piedi scalzi imitano tutta l'eleganza delle onde. I vecchi dagli occhi lustri strisciano rasente ai muri, foschi di fermento e di rabbia come per essere dovunque respinti».



domenica 29 maggio 2022

Presentazione dello Specchio delle Muse presso il DISLL di Padova: il video

 Care lettrici e cari lettori,

al link che segue è possibile vedere o rivedere la presentazione dello Specchio delle Muse avvenuta presso il DISLL dell'Università di Padova lo scorso venerdì.

Per accedere al video cliccate qui.

lunedì 23 maggio 2022

Incontri della settimana

Care lettrici e cari lettori,
altra settimana ricca di occasioni per incontrarci:


- lunedì 23 maggio, ore 17.30, presso l'antica pieve di San Bortolo ad Arzignano, terrò una lezione sui canti della Grande Guerra: da una parte le canzoni ufficiali e dall'altra i canti nati fra le persone che vissero e/o subirono il primo conflitto del Novecento. Ingresso libero nel rispetto delle norme anticovid.














- giovedì 26 maggio, ore 20.30, presso la sala conferenze del comune di Sovizzo (via Cavalieri di Vittorio Veneto): presentazione dei Monti celesti. Ingresso libero nel rispetto delle norme anticovid.













- venerdì 27 maggio, ore 17.30, presso l'aula 1 del polo Beato Pellegrino (DISLL) di Padova: presentazione della collana Destini incrociati e de Lo specchio delle Muse, nuovo libro di cui sono coautore assieme a Marta Scaccia e Paola Valente. Ingresso libero. L'evento sarà trasmesso anche sulla pagina Facebook del DISLL e si potrà seguire tramite zoom.


domenica 22 maggio 2022

Vallese-Tibet. Icona dei contadini di montagna di Maurice Chappaz

«Sono spariti. Erano le radici dei grandi alberi che erano i paesi. E i paesi cambiano faccia, costumi, frutti, persone. Così in fretta nello spazio di una vita, che c’è lo stupore di una morte sulla strada». Con queste parole si apre un piccolo gioiello di poesia e di cultura alpina: Vallese-Tibet. Icona dei contadini di montagna di Maurice Chappaz (Tararà, 2000, con testo a fronte).

Scrittore e poeta svizzero, nato nel 1916 e morto nel 2009, Chappaz è quasi sconosciuto al pubblico italiano anche a causa della scarsità di opere tradotte. Io stesso ho scoperto questo suo libro rumando a mercatini. Cresciuto nel Vallese, Chappaz in questo piccolo gioiello di poesia ci accompagna fra le pieghe di un mondo scomparso, durissimo per chi lo abitava eppure pervaso di aspra bellezza. Chappaz si sente osservatore- cantore privilegiato, e così guida anche noi, grazie al suo “essere sulla soglia”, né dentro né fuori quel mondo. Scrive: «Ho la sensazione di aver conosciuto un miracolo, e forse non avrei potuto vederlo questo miracolo se la sua scomparsa non ne facesse parte. Lo rendeva visibile e per darne testimonianza bisognava essere un passante, non del tutto dentro e gettato fuori allo stesso tempo. Come è successo a me» (pp. 39-41). E se quel mondo è finito, tuttavia, «il passato impregna il presente» (p. 19). 

Un libro da assaporare lentamente, vagando sulla pagina, senza fretta, come percorrendo un sentiero fra antiche contrade, come fa l’autore guidandoci fra le montagne della sua Svizzera come fra quelle del lontano Tibet: due mondi solo all’apparenza diversi.

Arricchisce il libro una prefazione di Mario Rigoni Stern, che si conclude con un ammonimento: «Maurice Chappaz […] con amore e tanta attenzione legge le tracce lasciate dai montanari sulla Terra, insegue i suoi ricordi e crea poesia. Da un millennio di vissuta umanità ci riporta a ridosso di un altro millennio ancora da riempire. Ma di cosa riempire, ora che l’eco delle invocazioni si perde nel vuoto della montagna e dalle città non si vedono più le stelle?». 



lunedì 9 maggio 2022

Incontri di questa settimana

Care lettrici e cari lettori,
vi invito a questi due appuntamenti.

Venerdì sera avrò l'onore e la responsabilità di raccontare un grande uomo. Persona di fede, partigiano (fu vice di Gino Soldà al comando del batt. Valdagno), aiuto per i perseguitati, deportato, insigne psichiatra ma anche marito, padre e nonno, persona retta: Luigi (Gino) Massignan.
Se è vero, come ha scritto il mistico San Giovanni della Croce, che <<alla sera della vita saremo giudicati sull'amore>>, Gino è una persona che, senza tema di retorica, ha fatto dell'amore per gli altri un scelta di vita.
Ringrazio per l'opportunità l'A.C. di Montecchio e la Comunità Pastorale.





Domenica prossima, 15 maggio, alle 17.00, dialogherò attorno ai Monti celesti presso il chiosco "Parké no!?", presso il parco di via A. Volta ad Alte Ceccato. Sarà un modo per parlare di temi a me cari e di scrittura a qualche mese dall'uscita del libro.



venerdì 6 maggio 2022

Uscita del nuovo libro Lo specchio delle Muse e prima presentazione

Care lettrici e cari lettori,
con gioia vi annuncio che sta per arrivare in libreria Lo specchio delle Muse, un libro e insieme un'appassionante avventura iniziata grazie all'entusiasmo, alla competenza e alla passione di Saveria Chemotti e di Davide Susanetti e proseguita con due co-autrici altrettanto competenti e appassionate, Marta Scaccia e Paola Valente.

Si tratta di una raccolta di racconti che rivisitano alcune coppie del mito classico: uomini, donne e divinità che hanno incrociato il loro destino e che abbiamo voluto raccontare fornendo voce anche a chi nella antiche favole rimane nell'ombra, in un confronto di voci, di vicende, di storie.

Lo presenteremo per la prima volta venerdì 27 maggio 2022, alle ore 17.30 presso l'Aula 1 del Complesso Beato Pellegrino, a Padova,  assieme agli altri titoli della collana "Destini incrociati", diretta da Saveria Chemotti.

Darò presto ulteriori informazioni.
Vi aspettiamo!

sabato 30 aprile 2022

La cultura secondo Toni Giuriolo

Il testo che condivido di seguito è tratto dalle carte di Antonio Giuriolo (1912-1944), intellettuale antifascista vicentino, esponente del Partito d'Azione, comandante partigiano, caduto a Lizzano in Belvedere il 12 dicembre 1944, medaglia d'oro al valor militare.

Giuriolo a Tremosine sul Garda nel 1938.

«Il mondo è tutto travagliato dalle scosse di una crisi violenta; è una tempesta che non investe solo le vecchie istituzioni politiche e sociali, i rapporti internazionali e intercontinentali ma anche i costumi, le idee, le fedi e le tradizioni. La guerra se dall'esterno appare prima di tutto la febbre che brucia nel corpo malato della nostra civiltà, è sostanzialmente, guardata nell'intimo, l'espressione esasperata di un complesso dissidio morale e spirituale. Sembra che tutte le contraddizioni che si sono venute man mano accumulando nella storia dell'ultimo secolo si siano sviluppate in un modo sempre più inestricabile; perciò c'è ora bisogno della spada per tagliarlo; e i carri armati e le divisioni aeree sono il simbolo modernissimo di questa tragica fatalità a cui gli uomini sono ancora sottoposti, di dover straziare la carne viva per ricomporre gli squilibri profondi dello spirito. Di questa crisi veramente totalitaria la prima a soffrirne è la cultura; anzi si potrebbe dire che l'intimo disorientamento che ora la travaglia sia di questa crisi uno dei sintomi più gravi e più preoccupanti. Ed è naturale che sia così. La cultura non è un ornamento lussuoso e superfluo della vita; ma una sostanziale necessità: sorge da essa, perché in essa ritrova l'impulso a creare i suoi valori universali ma in essa poi questi valori fa rifluire, essa è la voce con cui la vita si esprime; l'anima con cui la vita prende coscienza di se stessa; lo spirito che rielabora e rinnova i motivi, gli ideali che servono di direttive alla vita, La cultura perciò sorge come un’esigenza vitale dalla vita stessa; ma con la vita non si confonde: crea valori spirituali che poi rifluiscono nella vita per fecondarla e dirigerla; ma in questa attività non si esaurisce tutta. Si cala continuamente nel gorgo della vita per poi elevarsi continuamente su di essa: come Anteo, ha bisogno di riprender forza dalla terra madre ma da questa se ne distacca per una sua ben definita funzione. La storia è appunto il continuo scomporsi e ricomporsi di questi squilibri che si aprono fra la cultura e la vita; e il ripresentarsi sotto nuove forme, di questo travaglio fondamentale che sempre più s'approfondisce».

Testo riportato in R. Camurri, Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo, Marsilio, Venezia 2016. pp. 483-484.

venerdì 29 aprile 2022

Lezioni ad Arzignano

 Care lettrici e cari lettori,

ad Arzignano (Vi) organizzano questa bella serie di incontri cui ho l'onore di partecipare. 



martedì 19 aprile 2022

Prossimi appuntamenti (fine aprile 2022)


Care lettrici, cari lettori, 
si preparano tempi di incontri. Ecco quelli di questa settimana:



- giovedì 21 aprile p.v. presenterò I monti celesti a Muzzolon, in dialogo con l'amico Paolo Baruffa;
















- venerdì 22 aprile p.v. dialogherò con l'amico Giuseppe Mendicino sul suo ultimo libro, Mario Rigoni Stern. Un ritratto (Laterza, 2021);

















- domenica 24 aprile p.v. sarò ospite della comunità di Castel Condino (Tn) per parlare di Primo Levi, dei suoi libri, della sua testimonianza.


mercoledì 2 marzo 2022

Forse, se dipendesse dall'uomo...

Fiore di mandorlo a Santurbàn (01.03.2022)
Forse, se dipendesse dall’uomo,

la Primavera non sarebbe più:

qualcuno, certo, la recinterebbe,

qualcun altro ne farebbe un’impresa;

qualcuno presto la inquinerebbe,

qualcuno forse la lottizzerebbe;

qualcuno ci pianterebbe sopra

un simboletto o una bandiera,

qualcun altro li toglierebbe subito

per mettercene altri, di diverso colore;

qualcuno la venderebbe a peso


qualcun altro all’ingrosso;

qualcuno la invaderebbe,

qualcun altro la bombarderebbe;

qualcuno la farebbe saltare in aria

per far rabbia a tutti gli altri;

qualcuno la farebbe affondare

perché non sia di nessun altro

se non può essere solo sua.

Per fortuna la Primavera esiste,

e non domanda che pace e silenzio,

un prato verde e un cielo blu

sotto cui fiorire.

lunedì 21 febbraio 2022

Per riscoprire Luigi Meneghello a cento anni dalla nascita

Care lettrici e cari lettori,

oggi su laletteraturaenoi è uscito un mio contributo su Luigi Meneghello. 
Rivolto in particolare alle/agli insegnanti offre alcuni spunti per affrontare nella scuola superiore l'opera di un grande scrittore del secondo Novecento.

Lo potete leggere cliccando qui.

domenica 13 febbraio 2022

Recensione "I monti celesti"

Care lettrici e cari lettori,
con un po' di ritardo condivido la bella recensione che Fabio Giaretta ha dedicato ai Monti celesti per il "Giornale di Vicenza" del 19 gennaio scorso.




martedì 4 gennaio 2022

Le fiabe venete: patrimonio da riscoprire e salvaguardare

Care lettrici e cari lettori,

condivido un mio contributo sulla fiaba, e in particolare sulla fiaba veneta, per il periodico dell'Istituto Rezzara di Vicenza: è possibile visualizzare e scaricare gratuitamente il testo cliccando qui.