domenica 24 gennaio 2016

Giorno della Memoria: la necessità di comprendere per continuare a vigilare

Mercoledì sarà il Giorno della Memoria, ricorrenza sancita in Italia dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000, <<al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati>>. 
Come sanno i miei lettori, si tratta di una ricorrenza sulla quale ho sempre speso qualche parola. Senza pretese, con il semplice desiderio di condividere alcune riflessioni su un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Negli ultimi anni nel nostro paese sono fiorite le iniziative legate al ricordo della Shoah: pubblicazioni di libri per adulti e ragazzi, proiezioni di film e documentari, approfondimenti di vario genere da parte delle emittenti televisive e degli altri mezzi di comunicazione. Col tempo, insomma, la data del 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa, è diventata istituzione riconosciuta e condivisa. Non voglio perciò affrontare questioni che saranno ampiamente trattate nei prossimi giorni, solo ribadire un paio di punti su cui sento la necessità di soffermarmi. 

Scrivevo l'anno scorso su questo blog (potete risalire all'articolo cliccando qui) che intravedo infatti alcuni rischi nel rendere la Memoria, dovere imprescindibile di tutti, un qualcosa di ufficiale: innanzitutto il rischio di perdere il senso profondo del ricordare, rendendo alla lunga il gesto qualcosa di ripetitivo e stanco, fatto più per dovere che per reale e radicata convinzione; in secondo luogo il fatto di lasciarsi eccessivamente suggestionare dalle emozioni, dalle immagini, dalle cifre, lasciando la mente lontana e limitandosi agli aspetti più sentimentali, quando non addirittura macabri o raccapriccianti, che inevitabilmente sono legati alla Shoah
Sia chiaro, non sto demonizzando le emozioni né dicendo che istituzionalizzare una ricorrenza come quella in questione sia sbagliato, occorre però mantenere vigile la mente, comprendere per giudicare e rendere vivo il ricordo affinché sia monito per il presente. Questo mi ha insegnato la frequentazione assidua degli scritti di Primo Levi e la conoscenza diretta di sopravvissuti ai campi di concentramento e alle vicissitudini della Seconda guerra mondiale. 

Nei prossimi giorni ci sarà un gran parlare di quanto accaduto poco più di settant'anni fa. Facciamo allora in modo che la Memoria non rimanga relegata ad un giorno o ad un'ora prefissati o ad un angolo della nostra interiorità; cerchiamo di approfondire, accogliamo qualche provocazione, usiamo la testa. Per quanto mi riguarda, cercherò di farlo coi miei studenti, ai quali proporrò alcune riflessioni dell'autore di Se questo è un uomo. Proprio ora tengo aperta accanto alla tastiera l'edizione scolastica del libro. Butto quindi l'occhio sulla Prefazione del 1972, redatta da Levi in occasione della prima edizione rivolta alle scuole. Le provocazioni sono numerose e spingono tutte sulla necessità di comprendere la <<meticolosità scientifica>> con cui venne condotta l'uccisione di milioni di persone, a vario titolo considerate diverse. 
Riflettiamo, ad esempio, sugli interessi che spinsero chi sapeva a restare in silenzio o, addirittura, ad assecondare, l'azione dei carnefici. I tempi sono maturi per farlo. Ancora, poniamo attenzione sui rapporti fra fascismo, cui il nazional-socialismo si ispirava, e Shoah. Scrive a tal proposito Levi: <<I campi non erano [...] un fenomeno marginale e accessorio [...]; erano una istituzione fondamentale dell'Europa fascistizzata>>.  
Di qui la necessità pressante di vigilare, oggi più che mai, perché, scrive ancora Levi, <<non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa metterne in dubbio la realtà. [...] Come Brecht ha scritto, "la matrice che ha partorito questo mostro è ancora feconda">>. 
Meditiamo dunque quanto è stato e rimaniamo vigili. Perché come ebbe a dire ancora Levi nell'intervista che propongo di seguito, <<al fascismo di oggi manca soltanto il potere per ridiventare quello che era>>.  










domenica 17 gennaio 2016

Per una scuola che sia giardino di parole: recensione a 'Parole di scuola' di Mariapia Veladiano


Amici lettori,
dopo un periodo di silenzio dovuto - ahimè - ai molti impegni, torno a voi per condividere una recensione del libro di Mariapia Veladiano Parole di scuola (Erikson, Trento 2014). Si tratta di uno scritto redatto durante i mesi di TFA e che è stato poi pubblicato sulla rivista "Rassegna CNOS", 2, 2015 (potete accedervi cliccando qui).
Auguro a tutti una serena continuazione dell'anno da poco iniziato.


 
La metafora del coltivare ricorre spesso quando si parla di scuola, forse perché essa è luogo per eccellenza di formazione, forse perché è legata profondamente alla trasmissione del sapere e di quella che si chiama cultura, parola di stirpe latina che affonda le radici nel colere, verbo deputato a designare l’attività di curare i campi perché portino frutto. Quella dei fiori, del giardino da coltivare è metafora non meno ricorrente, e non meno suggestiva. Un grande scrittore italiano la pose a titolo di un libro sull’educazione uscito nel lontano 1976 ma che molto avrebbe da dire anche ai cittadini del nostro tempo. Il grande scrittore è Luigi Meneghello e il libro sull’educazione s’intitola Fiori italiani. Scrive Meneghello:

«Alla fine si alzò tra l’uditorio un ragazzetto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori” disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”» (Luigi Meneghello, Fiori italiani, Rizzoli, Milano 1976, p. 10).

Non ho scelto a caso la citazione. Oltre trent’anni dopo il libro di Meneghello, saggio e “romanzo” che analizza la cattiva educazione ricevuta da una sorta di alter ego dell’autore sotto il regime fascista, un libro esile di pagine ma denso di contenuti torna a porre accanto alla scuola l’immagine del giardino, un giardino che in questo caso coinvolge soprattutto le parole.

Uscito nel febbraio 2014 per la trentina Erickson, casa editrice legata all’omonimo Centro studi, Parole di scuola di Mariapia Veladiano è un libro sulla scuola e sulle sue parole, un saggio che analizza alcune delle voci più frequenti del lessico scolastico ma che ci consegna al contempo le parole personali di un’autrice che, prima di diventare dirigente e, in seguito, apprezzata scrittrice, nella scuola ha insegnato per trent’anni. Il nucleo del libro è nato, come segnalato in esergo, da un intervento dal titolo “La qualità dell’integrazione scolastica e sociale” pronunciato nel 2013 in occasione di un convegno organizzato dal Centro studi Erickson.

Integrazione, appunto. È questa una delle parole chiave per Mariapia Veladiano, la prima ad essere analizzata dopo un divertente incipit in cui viene descritto Albus Silente, celebre insegnante della saga di Harry Potter, un docente alquanto atipico rispetto agli schemi comuni. Lo spunto ironico cede però abbastanza presto il passo ad una riflessione più seria e preoccupata sulla situazione della scuola italiana di oggi, una scuola che sta divenendo sempre più luogo dell’esclusione, a livello di discenti quanto di docenti. Scrive l’autrice: 

«Come accade che si stia dissipando un tesoro di fiducia di cui la scuola, secondo tutte le indagini, in Italia godeva? […] Dopo le esperienze di partecipazione e inclusione degli anni Settanta, si sta mettendo in discussione tutto» (pp. 10-11).

Dopo aver citato alcuni passi biblici in cui il Paradiso viene definito «Giardino di parole» (Veladiano è laureata in filosofia e teologia), l’autrice presenta l’idea di una scelta di parole ed espressioni importanti per la scuola, luogo che per proprio statuto è casa di parole. Lo fa da amante e studiosa della parola, sia essa quella sacra o quella più prettamente umana, e lo fa non col tono di un predicatore ex cathedra bensì con linguaggio pacato, sommesso, che si apre tuttavia a punte poetiche o più accorate.

Dopo integrazione, parola che l’autrice pone come essenziale nella scuola pubblica per resistere alle spinte disgregatrici, disintegratici della società, viene analizzata la parola paura, troppo spesso divenuta sentimento primo dell’insegnante, costretto in perenne difesa da un sistema pronto a prendersela con lui, e tuttavia chiamato per suo stesso statuto professionale ad andare «oltre tutto, assolutamente tutto quel che è suo stretto dovere professionale». Nonostante ciò, prosegue l’autrice, «la paura può essere alleata della scuola, chiamata a coltivare l’inquietudine verso quell’ottimismo frivolo e senza responsabilità che ci viene somministrato».

Fra le altre parole poste in esame, ciascuna in brevi quanto intensi capitoli, figurano identità, declinata dall’autrice al plurale in quanto molte sono le identità che possiede una stessa persona, timidezza, in cui troviamo la difesa di quei timidi che, fuori moda nella società, dall’insegnante meritano attenzione e «accanito rispetto», e poi libri, che devono essere accessibili davvero, equità, fondamentale in una società che sempre più crea disuguaglianze che la scuola non può permettersi di riprodurre a sua volta, empatia, elogiata perché alla base di un rapporto vero fra docente e discente e che tuttavia non deve scivolare nell’insidia della seduzione. Queste e altre parole (penso, fra gli altri, al bel capitolo sul verbo riparare tanto fuori moda oggi) sono presentate da Mariapia Veladiano allo scopo di uscire dalla triste logica di una scuola «pensata più per studenti che per persone» per arrivare invece ad una scuola che, nell’integrazione delle diversità diventi orto in cui coltivare la società di oggi e, ancor più, quella di domani. Ed ecco che il cerchio si chiude. Ribadendo la necessità di una scuola pubblica si torna all’altra voce, a quell’integrazione di cui, appunto, la scuola pubblica è «formidabile laboratorio».

Chi cerca facili risposte o tesi rivoluzionarie resterà deluso dalla lettura di Parole di scuola: non è qui che risiede la forza del libro. Le riflessioni personali non mancano e neppure mancano le proposte, anzi, ogni voce analizzata si presenta sorretta da profonde convinzioni, che a volte giungono alla sententia. Eppure Veladiano riesce a sostenere le proprie idee senza sposare quel tono volutamente polemico o, addirittura, aggressivo che non di rado caratterizza le discussioni intorno alla scuola e alla sua tanto invocata ma troppo spesso elusa riforma. Il tono del testo resta quello di una persona che ama le parole e la scuola, che coltiva entrambe e che sulla scuola si interroga con l’interesse sincero di chi l’ha vissuta e la vive dall’interno. Senza alzare la voce, con convinzione ma pacatamente, lasciando la forza alle parole, all’autorevolezza fondata sull’esperienza e guardando al contempo con speranza ai piccoli segni di bene che di tanto in tanto appaiono (si veda il capitolo conclusivo, una lettera “speciale” d’inizio anno scritta da un preside agli studenti). Lontano dal rumore e da tanti cicalecci, il lettore forse non troverà confortanti analisi o rassicuranti verità ma potrà porsi importanti domande. Non è questa una competenza che la scuola (quella buona) dovrebbe permettere di imparare?