domenica 29 giugno 2014

Giugno di memorie (2): Sarajevo 1914

Ci sono momenti nella storia che si imprimono nella memoria come sigilli sulla cera lacca, a livello collettivo e a livello personale. Momenti fatali, direbbe Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco costretto all'esilio dall'avvento delle orde hitleriane e morto suicida in una sperduta cittadina brasiliana in piena Seconda guerra mondiale. Zweig, eterno esiliato, sapeva bene cosa significassero le svolte epocali e da grande amante della storia ne diede ampio spazio nella sua opera. 
A partire dal tema delle memorie, riflettevo in questi giorni su come noi, cittadini globalizzati e tecnologici, viviamo questi momenti fatali, e concludevo che forse proprio grazie alle tecnologie ancora più di un tempo tali momenti si fissano nell'immaginario collettivo, che si tratti dell'orchestrina del Titanic che suona fino a quando l'acqua non lambisce i piedi dei musicisti, del ragazzo di piazza Tiennammen immobile davanti ai carri armati o degli aerei che centrano le Torri gemelle, l'11 settembre 2001. Ma anche a livello personale la faccenda non è diversa. E per quanto mi riguarda molti sono i momenti fatali che porto con me. Uno accadeva esattamente cento anni fa.

La storia di quanto accadde a Sarajevo il 28 giugno 1914 non è certo un mistero. Libri, interviste, documentari hanno descritto praticamente minuto per minuto quanto avvenne. Personalmente ho letto, guardato, ascoltato molto a riguardo, eppure, ogni volta che mi capita di entrare nell'argomento, provo un brivido, quasi leggessi il copione di un dramma. Rivedo davanti a me gli attori: da una parte Francesco Ferdinando stretto nella sua divisa azzurrina, una cascata di piume ricade a fontana sul copricapo militare, al suo fianco l'amata moglie Sofia, la autorità civili e militari, i kepì dei poliziotti e degli ufficiali; dall'altra gli attentatori, tratti balcanici, volti duri, dai lineamenti solo in apparenza distesi, l'occhio vigile, un unico pensiero in testa. Vi sono poi gli oggetti: le bombe a mano pronte ad esplodere, la pistola di Princip, la divisa di Francesco Ferdinando, l'automobile... Divisa e automobile sono oggi conservate a Vienna, l'ho scoperto leggendo Gli anelli di Saturno di Winfried Sebald. Precisione austriaca e culto delle reliquie, mi pare fosse il commento dello scrittore. 

C'è chi fra gli storici parla di complotti, chi addirittura vede dietro a tutto la mano dei tedeschi. Che ci fosse un'organizzazione segreta di matrice serba denominata "Mano nera" è ormai assodato. Ma il resto suscita ancora discussione e dibattiti. Torno ai fatti, torno là, a quel giorno. Seguo un testo che fin da ragazzo mi ha sempre molto impressionato, La grande storia della prima guerra mondiale, di Martin Gilbert. Vedo la bomba lanciata in quel mattino di sole: rimbalza, lascia illesi Francesco Ferdinando e la moglie e ferisce due ufficiali nella seconda auto del corteo. Dopo la visita in municipio l'erede al trono dell'impero austro-ungarico decide di andare a trovarli in ospedale. L'autista, com'è noto, sbaglia strada, infila un vicolo cieco. Mentre l'auto fa manovra uno degli attentatori, il dicicannovenne Gavrilo Princip, si trova per caso a passare di lì. Estrae la pistola, spara. 

Ad aiutarmi a figurare la scena concorre ora un'immagine che era presente nel mio sussidiario delle elementari, la celeberrima tavola di Achille Beltrame. E con me, ne sono sicuro, milioni di persone se la sono figurati e se la figurano così. A colori, a differenza delle foto scattate prima e dopo l'attentato. Il giovanissimo attentatore è di spalle, il gioco della prospettiva mi faceva pensare, da bambino, che stesse sparando in aria. Intorno, gli sguardi atterriti e impotenti degli uomini della scorta. A terra un fez abbandonato. Rosso, come rossa diverrà presto la giacca dell'arciduca. Sullo sfondo, un cavaliere che galoppa a sciabola sguainata. Pochi mesi dopo la Galizia diverrà l'ecatombe delle cavallerie dell'Ottocento. Ma ecco che il dramma si compie, l'attentato è già fatto. Ora ci sarà un mese di tempo prima che tutto abbia inizio, e la vecchia Europa abbia fine. La memoria corre ad altre letture, ad altri passi ed episodi. Un altro grande scrittore del Novecento, Joseph Roth, testimone, come Zweig, del tramonto della vecchia Austria e come Zweig destinato al tristo esilio, racconta nel suo capolavoro, La marcia di Radetsky, come fu accolta la notizia dell'attentato in una lontana guarnigione ai confini della Galizia. Si tratta di una scena di grande potenza narrativa, in cui la tragicità si mescola alla commedia, alla beffa, al grottesco, una scena, insomma, di grande impatto e assolutamente verosimlie. Lo spazio è tiranno: magari ne parlerò la settimana prossima, ma invito nel frattempo a riscoprirla. Tra un articolo e l'altro, tra le tanti voci che stiamo udendo e ancora udremo riguardo ai fatti di cento anni fa, nulla potrà eguagliare le voci di chi c'era e ha scritto. 

domenica 22 giugno 2014

Giugno di memorie (1): sulle tracce del Moretto

Ormai, amici lettori, lo sapete: la memoria è uno dei temi che più mi sono cari. Non semplice ricordo, la memoria è conoscenza del passato ma, ancor più, consapevolezza dei passi compiuti, a livello personale e collettivo; memoria è senso della storia e, come tale, non può divenire ancoraggio nostalgico al passato, ma deve essere sentita come vivo stimolo a comprendere l'uomo e a costruire con responsabilità e coerenza il futuro. Un anniversario, una data possono dunque offrirci molto se sappiamo leggerne in profondità i contenuti. A partire da una ricorrenza è possibile sviluppare una riflessione. E riflettere non è mai male, specie nell'oggi dei clic e dei "mi piace".
Per quanto mi riguarda, giugno è un mese ricco di memorie. Oggi vorrei in particolare soffermarmi su due figure, due uomini che hanno scritto libri <<non inutili>>, per usare un'espressione che Primo Levi dedicò ad uno di essi. Entrambi scrittori vicentini, seppur assai diversi per stile e contenuti delle loro opere, hanno lasciato un segno nella vita civile e nella letteratura italiana. Due autori che, senza retorica, considero maestri di vita e di scrittura: mi riferisco a Mario Rigoni Stern e Luigi Meneghello. 
Perché ricordarli assieme? Tanto l'uno quanto l'altro se ne sono andati un giorno di giugno, Meneghello il 26 giugno 2007, Rigoni Stern il 16 giugno del 2008. Pensando ad un testo che potesse in qualche modo accomunarli sono stato, per così dire, soccorso da un altro anniversario che proprio in questo mese si sta celebrando a Malo, paese natale di Meneghello, ovvero il cinquantesimo anno dalla pubblicazione de I piccoli maestri, il libro, con Libera nos a malo, per cui Meneghello è forse maggiormente conosciuto.
  
Testo discusso, che suscitò non poche polemiche al momento della pubblicazione, I piccoli maestri narra l'esperienza resistenziale dell'autore, secondo la sua visione e secondo il suo stile. Scrive a tal proposito Meneghello nella Nota introduttiva alla seconda edizione (1976): <<I piccoli maestri è stato scritto con un esplicito proposito civile e culturale: volevo esprimere un modo di vedere la Resistenza assai diverso da quello divulgato, e cioè in chiave anti-retorica e anti-eroica. Sono convinto che solo così si può rendere piena giustizia agli aspetti più originali e più interessanti di ciò che è accaduto in quegli anni>>.

Mentre dunque scorrevo il calendario degli eventi organizzati a Malo, gentilmente inviatomi da un amico (tra i vari siti che vi hanno dato spazio, potete farvi un'idea qui), mi è tornata in mente la figura del partigiano Moretto, personaggio che getta un ponte a livello storico e letterario fra Meneghello e Rigoni Stern. Se la morte del Moretto viene infatti accennata ne I piccoli maestri, in un suggestivo racconto di Rigoni Stern, Un ragazzo delle nostre contrade, contenuto in Ritorno sul Don (1973), troviamo una descrizione accurata della sua storia, compreso quanto accadde dopo la guerra.

Rinaldo Rigoni "Moretto" era originario di Asiago. Lavorava alla latteria sociale: <<suo mestiere - scrive Rigoni Stern all'inizio del suo racconto - era quello di passare a raccogliere il latte nelle stalle sparse per le contrade e portarlo al caseificio sociale>>. Renitente ai bandi di arruolamento della R.S.I, nella primavera del 1944 entrò a far parte dei "piccoli maestri" o "banda del Toni". La guidava Toni Giuriolo, il maestro di Meneghello. Come gli altri gruppi partigiani che operavano sull'Altopiano, anche quello di Giuriolo dovette affrontare l'imponente rastrellamento nazifascista del 5-8 giugno 1944. Fu durante gli scontri che il Moretto incontrò la morte, lo stesso 5 giugno 1944, precipitato dai Castelloni di San Marco, sul margine nord-orientale dell'altopiano.

Dopo la guerra, Rigoni Stern, rientrato dalla prigionia, fece parte del gruppo che recuperò il corpo del Moretto e di altri partigiani caduti come lui in quella località. Ed è da questo spunto autobiografico che il racconto Un ragazzo delle nostre contrade si snoda, fino a restituire un'immagine limpida, semplice, priva di fronzoli ma che sa al contempo aprirsi a suggestivi spunti lirici, com'è proprio dello stile di Rigoni Stern. Ne risulta il ritratto di un giovane come tanti, bello e vero. Il finale del racconto è poi commovente. In uno stile assai diverso da quello di Meneghello ma, in un certo senso, complementare ad esso, la figura del Moretto parla a noi oggi e fa rivivere, attraverso la scrittura, tutto il dramma della storia di settant'anni fa.

Un "romanzo" e un racconto, dunque, per conoscere o riscoprire una medesima figura; un modo, inoltre, per tornare a rileggere due autori che ancora oggi molto possono dirci.


domenica 15 giugno 2014

Appunti per un ritorno

Cari amici lettori,
sono ritornato. Vi avevo avvisato che non avrei scritto con assiduità da aprile in avanti, eppure non mi aspettavo di trovarmi costretto ad interrompere totalmente il dialogo con voi. Perdonatemi. In effetti il maggio appena trascorso è stato forse uno dei mesi più intensi di cui abbia ricordo: tra presentazioni, impegni politici (ero candidato per le elezioni amministrative nella mia cittadina), incontri, riunioni... tutto è stato come un vortice che ha finito per soffocare questo momento di riflessione condivisa. 
Tornando perciò ora a scrivere, mi viene spontaneo volgere indietro lo sguardo e cercare uno o più elementi comuni che possano racchiudere, se non tutte, almeno una parte delle molteplici esperienze vissute. Credo di averne individuati alcuni (oltre alla fretta!), che vorrei di seguito condividere. Nulla di eclatante, solo pochi pensieri in libertà, spero non troppo banali e scontati.

Il viaggio. Per non cadere nella tanto spesso abusata retorica del viaggio, mi limiterò ad una considerazione concreta. Nell'ultimo mese mi sono spostato parecchio, per presentare L'eco delle battaglie ma non solo. Viaggiando, spostandomi fisicamente da un luogo ad un altro, ho riscontrato quanto, specie dopo un periodo alquanto lungo di stasi, partire faccia bene, anche se solo per poco tempo, anche se per poche ore. Partendo si lascia, ci si stacca, si punta verso un qualcosa che è nuovo. E volgere lo sguardo altrove aiuta ad aprire gli orizzonti e a rivedere il quotidiano con occhio diverso.

L'incontro. In ogni mio spostamento, fosse per raccontare di Grande Guerra, per recarmi in un quartiere della mia cittadina ad ascoltare e parlare con le persone o per sfilare con gli Alpini a Pordenone (ebbene sì, amici lettori, pure questo ho fatto!), ho incontrato molte, moltissime persone. Con alcune ho intessuto amicizie che dureranno, con altre ho magari parlato solo per pochi minuti, dopo una presentazione o tra i padiglioni affollati della fiera di Torino. In ogni caso, molte cose mi porto a casa da questo mese.

Il confronto. Gli incontri avuti nell'ultimo mese non sono stati sterili, hanno anzi prodotto un continuo confronto. Il confronto con l'altro, con persone a vario titolo diverse, mi ha offerto notevole stimolo per la crescita individuale. Ho imparato, ho conosciuto persone e luoghi, ho consolidato idee, ho cambiato posizioni. Infine, ho osservato ogni realtà confrontandola con quella in cui vivo, ho respirato bellezza e bruttezza, aria fresca e smog. E se pochi sono gli appunti che ho potuto prendere, molti sono gli spunti impressi nella memoria e nei sentimenti. Speriamo fermentino nei prossimi mesi!

Il ritorno. Credo che gli incontri e le esperienze vissute siano realmente importanti se riescono a lasciarci qualcosa di duraturo. Per fare esperienza è necessario ritornare, stare in silenzio, ricordare, rivivere. Per questo, dopo l'intensità di relazioni intessute, dopo gli incontri e l'inevitabile stanchezza, dopo tante soddisfazioni e qualche delusione, da buon amante della carta stampata, sono lieto di ritornare al silenzio che regna tra i miei libri.
Sono lieto di farlo, tra l'altro, in buona compagnia. Mentre sedevo davanti allo schermo, circondato da fogli sparsi e letture in attesa di evasione, mi è tornato infatti in mente un breve testo, scritto oltre duemila anni fa. Allora, dopo un periodo per lui intensissimo (in questo caso di lotte politiche di primo piano), ritornava ai libri anche Marco Tullio Cicerone. E così scriveva in una delle sue lettere Ad familiares (la prima del nono libro) rivolgendosi all'amico Varrone: <<Scito enim me, posteaquam in urbem venerim, redisse cum veteribus amicis, id est cum libris nostris (Sappi infatti che io, dopo che sono giunto in città, sono ritornato coi vecchi amici, cioè coi libri nostri)>>.
Saluto dunque voi, amici lettori, e torno anch'io agli altri amici, silenziosi e discreti, che mi attendono qui accanto. A presto!