domenica 21 dicembre 2014

Pensieri (e un augurio) sotto le stelle

Ieri sera, di ritorno da una serata di musica e festa, mentre rientravo in casa, mi sono accorto che in cielo brillavano le stelle: una magnifica volta stellata invernale, limpida e che invitava alla contemplazione. Non ho sbagliato verbo e non credo di esagerare. Per i Romani il verbo contemplo aveva in origine proprio il significato di scrutare con attenzione il cielo entro uno spazio sacro denominato, appunto, templum. Il contemplare, che anche per noi si lega alla sfera del sacro, era perciò legato al cielo, all'osservazione attenta e silenziosa. E ieri sera era silenzio, la temperatura vicina allo zero, l'aria ferma. Ricordavo, uscendo in cortile, l'attacco di una celebre canta natalizia, testo di Carlo Geminiani e musica di Bepi De Marzi:

Le stelle in cielo passan piano piano
e nelle case scure ancor se sogna...

Potete ascoltarla qui nella prima incisione realizzata dal M. De Marzi coi suoi Crodaioli. Certo, tornando indietro nel tempo della letteratura, altri testi si potrebbero citare. Proprio ora me ne torna in mente un altro:

Dolce e chiara è la notte e senza vento...

Inizia così anche La sera del dì di festa di Leopardi, poeta e filosofo che, paradossalmente, più di tanti "mistici" sapeva contemplare lo spettacolo della notte. 
Ieri sera, però, mentre mi distendevo sulla superficie scomoda di una panchina posta in cortile, in bocca la pipa e in testa un berretto di lana, non ho pensato a Leopardi ma a Dante. Osservavo le stelle, le più vicine e luminose e poi, dopo che lo sguardo si era abituato all'oscurità, anche le più distanti. Con la parola 'stelle', si sa, termina ogni cantica della Commedia dantesca. Ieri sera, contemplando il cielo, ripetendo come un bambino i versi finali dei tre canti trentatreesimi, ho capito il perché di questa scelta. Non chiedetemi di spiegarlo, non è stato un ragionamento razionale; piuttosto si è trattato di un'intuizione. Al di là di manuali, trattati, studi, saggi, al di là, e di gran lunga, da tutto questo fiume di parole, nel silenzio di una notte di inizio inverno ho capito la bellezza di quei versi. Erano come musica, e davano pace.

Nel frattempo avevo acceso la pipa, nuvolette di fumo si alzavano verso il cielo e si perdevano nell'aria silenziosa. Sono stati mesi impegnativi gli ultimi dodici. Un anno fa scrivevo come un pazzo la tesi di laurea, sei mesi fa studiavo per il TFA, gli "Hunger games nostrani", come li definisco, non penso del tutto a torto. Poi, da settembre, la scuola, le soddisfazioni, la ansie, le fatiche, le gioie, la responsabilità di un lavoro estremamente appassionante e, al contempo, di un ruolo estremamente impegnativo. A novembre, infine, le prove scritte e orali degli Hunger games. Mesi impegnativi e che, tuttavia, sotto il cielo stellato sfumavano in quel momento come le nuvolette biancastre che sbuffavo verso l'alto.
So di dire ovvietà, eppure davvero dovremmo tornare più spesso a contemplare il cielo. Fermarci, alzare la testa, cambiare direzione allo sguardo, specie in questo periodo di parossissmi luminosi a buon mercato. A cambiare prospettiva le cose riacquistano il giusto senso, la giusta misura. E senza bisogno di tante spiegazioni. Così, se prima di leggere Dante o Leopardi o qualsiasi altro autore ci immergessimo in tanta immensità, nessuno porrebbe più la ridicola assurda domanda: "A cosa serve studiare queste cose?". Perdonate la lieve vis polemica, mi giustifico dietro al fatto che faceva parte dei pensieri di ieri sera...

L'anno scorso auguravo un Natale di silenzio. Quest'anno a tutti voi, amici lettori, auguro un Natale di contemplazione. Non di luci al neon, di stelle che brillano a intermittenza o di luccichii accompagnati da musiche metalliche. Di ciò che veramente conta, magari passando attraverso la contemplazione reale di quel cielo stellato che da millenni scrutiamo alla ricerca di risposte e dal quale riceviamo, il più delle volte, soltanto nuove domande.

lunedì 8 dicembre 2014

"Hunger games": spunti per l'analisi di un successo

Ebbene sì, sono anch'io un fan di Hunger games, la celebre saga che spopola fra gli adolescenti e di cui è da poco uscito al cinema il primo episodio della terza parte. Un po' nascondendomi dietro la frase "I miei alunni lo guardano, devo guardarlo anch'io", un po' tacendo e dissimulando (verbo che mi riporta a certa trattatistica del Seicento, secolo sempre troppo bistrattato) mi sono da tempo visto le prime due parti e, qualche giorno fa, anche la terza. Non starò qui a raccontare emozioni o a fare analisi, anche perché il film è stato in effetti piuttosto noioso: distante l'azione e la suspanse dei primi due, speriamo che l'abbassamento di tensione sia funzionale, come mi ha suggerito un'amica, al gran finale.
La riflessione che vorrei condividere oggi verte piuttosto sul successo della saga, successo dovuto certamente ai giovani protagonisti, alle scene spettacolari, ai temi vicini alle giovani generazioni ma, forse, anche a qualcos'altro. Questo qualcos'altro mi interessa particolarmente. Premettendo che non ho letto i romanzi cui i film si ispirano e nemmeno ho voluto informarmi su come andrà a finire la storia, mi limiterò a presentare alcune considerazioni su alcuni dei temi presenti o su particolari aspetti della vicenda, a partire dal primo film e fino all'episodio da poco uscito, magari cercando - filologia docet -  qualche modello che spieghi o per lo meno indichi come mai la saga tanto piace ai giovani e non solo.  

Innanzitutto l'elemento distopico: la saga è ambientata in un futuro tetro e negativo che fa ripensare a 1984 di George Orwell o a Farenheit 451 di Ray Bradbury, per citare a memoria due romanzi che hanno fatto la storia letteraria del genere. In Hunger games un'unica città, Capitol City, tiene sottomessi dodici distretti e i loro abitanti, asserviti e costretti a produrre materie prime che vengono consumate da una ristrettissima minoranza. Non credo serva analizzare oltre: futuro distopico, certo, ma anche molto presente, molto mondo reale.

In secondo luogo vorrei focalizzare l'attenzione sugli elementi mitici. Chiunque abbia una buona conoscenza della mitologia greca non avrà faticato a riconoscere nell'orribile sacrificio che ogni anno Capitol City impone ai distretti un riferimento al mito di Teseo e del Minotauro. Una ripresa ibrida, che si mescola a pratiche di divertimento tipiche anche del mondo romano (si pensi fra tutte ai giochi gladiatori) e che si lega anche ad un altro aspetto: la spettacolarizzazione della morte tipica della nostra società. Dietro la barriera uniformante di uno schermo di computer o di un televisore tutto appare finzione e spettacolo. Così nel film la lotta che si consuma fra i giovani gettati nell'arena a uccidersi l'un l'altro diviene spettacolo e divertimento per gli abitanti di Capitol City. La morte in diretta, la morte spettacolo: se qualcuno volesse approfondire la questione rimando ad un'interessante analisi firmata qualche tempo fa da Emanuele Zinato per Le parole e le cose. La potete trovare cliccando qui.

Un quarto aspetto su cui ho riflettuto riguarda la dimensione omnipervasiva del reality. In Hunger games viene infatti portato alle estreme conseguenze il mondo descritto da Orwell e che, direi, è divenuto mutatis mutandis parte della nostra realtà quotidiana. Telecamere osservano, spiano, riferiscono al malvagio dittatore che governa Capitol City, il presidente Snow, unico detentore di un potere rappresentato con le fattezze delle dittaure novecentesche, nel suo modo di porsi e di rappresentarsi: scenografie grigie e lugubri che potrebbero esser state disegnate da Albert Speer si mescolano a scenari postmoderni fatti di giochi di luce e d'acqua. In un mondo tale, che unisce immaginario collettivo e fantasia, la dimensione privata non esiste più. Tutti possono essere spiati se il potere lo vuole. Anche qui, dove sono il fantasy, dove la realtà e dove l'immaginario e la memoria collettivi?

Altri elementi meriterebbero di essere analizzati: il fatto, anzitutto, che la protagonista sia una ragazza e una ragazza che non si conforma per nulla agli stereotipi di genere. In un mondo futuro che, oltre agli aspetti sopra descritti, serba anche caratteri del più favoloso medioevo (si pensi solamente agli scenari selvaggi o alle armi utilizzate dai combattenti) Katniss può divenire un vero e proprio cavaliere che, al pari di Orlando o di altre figure tipiche dei cantari di gesta medievali, difende i deboli e, addirittura, li guida alla rivolta. Un po' cavaliere e un po' vendicatrice (penso allo stupendo V per vendetta di qualche anno fa), la bella, impulsiva e irriverente Katniss rappresenta la ribellione ad un sistema ingiusto e tirannico, pronto a reprimere ogni sussulto di ribellione e che, soprattutto, non esista a sacrificare la vita umana alle leggi dell'economia e del potere. Fantasy, dunque, o realtà?

Direi che gli elementi presentati potrebbero fornire alcune chiavi di lettura per comprendere il successo meritato di una serie che mi sembra nel complesso ben costruita. Anzi, a mio avviso proprio la sapiente mescolanza degli aspetti evidenziati ha contribuito, e non poco, a determinare il successo di Hunger games, che - non lo dimentichiamo - si traduce come 'i giochi della fame'. Il mito riporta ad archetipi che non possono non incontrare, se ben presentati, il favore del pubblico, presentando nodi profondi dell'animo umano e della storia dell'uomo, nodi che i tragediografi greci hanno insegnato a sviscerare sulla scena; l'elemento fantasy, poi, colora e trasporta altrove per affermare cose che sono molto più vicine alla nostra realtà di quanto a prima vista non sembri.
Poi, certo, si rimane sempre nel consueto circolo vizioso: per quanto fautore e diffusore di idee e di immaginari alternativi, un film è e resta, come qualsiasi opera creativa, il prodotto di una determinata visione, di una determinata cultura, di una determinata economia. In quanto prodotto è finalizzato alla vendita. Non voglio riprendere riflessioni su cui si sono spesi fior fior di filosofi e pensatori da Marx in avanti. Tuttavia, in un panorama sempre più appiattito e in cui - mi riferisco in particolar modo al nostro paese - si legge sempre meno, qualche buona idea ci può anche venire dalla visione di un film o di una serie di film. Una serie che emoziona e coinvolge ma che, al contempo, se guardata con la testa, può offrire spunti per una riflessione più profonda.