domenica 30 marzo 2014

Dalla Fiera di Bologna

La scorsa settimana riflettevo sulla spettacolarizzazione sempre più marcata della scrittura in un mondo già ampiamente ridotto a spettacolo. A tal proposito citavo un testo di Giulio Ferroni, Scritture a perdere, riscoperto grazie al riordino degli armadi seguito alla laurea. Il testo di Ferroni (non l'ho scritto la scorsa settimana) si apre con la descrizione di una visita al Salone del libro di Torino, tra le più importanti fiere letterarie italiane. La manifestazione per lo studioso costituisce un valido esempio della tendenza alla spettacolarizzazione della letteratura di cui tratta poi ampiamente nel testo, spettacolarizzazione che si sovrappone alle sempre più pressanti esigenze del mercato. Condivido pienamente le osservazioni di Ferroni ed essendomi qualche volta trovato, mutatis mutandibus, nella stessa situazione posso confermare i sentimenti da lui descritti.

Ho ripensato alla cosa mercoledì pomeriggio, ritornando a casa da un'altra importante fiera letteraria italiana, la Bologna Children's Book Fair, appuntamento dedicato all'editoria per bambini e ragazzi con partecipanti da più paesi del mondo. Ero sceso, appunto, per presentare L'eco delle battaglie e dialogare con Christian Hill, autore a sua volta di un romanzo sulla Grande Guerra dedicato ai ragazzi, Il volo dell'asso di picche (Einaudi Ragazzi). 
Dopo una giornata trascorsa nel trambusto della fiera, dopo l'interessante dialogo con il collega autore, dopo gli incontri, le cose viste e vissute un pensiero alla riflessione di Ferroni è sorto spontaneo, non appena il chiasso ha lasciato spazio al lieve brusio delle carrozze di un treno interregionale. Mi sono chiesto: "Ma che ci sono venuto a fare a Bologna? Non ho contribuito anch'io alla costipazione e all'eccesso di libri e di comunicazione cui Ferroni fa riferimento?". Certamente sì, nonostante l'appuntamento di Bologna sia molto diverso da quello torinese, in primis perché si tratta di una fiera più per "addetti ai lavori" che per il grande pubblico. Inutile però girarci attorno: se si accetta di partecipare al gioco, si finisce inevitabilmente per correre secondo le regole imposte. Ho preso parte alla fiera, ho parlato, mi sono "mostrato", ho comunicato.
Avrò detto qualcosa di non inutile attraverso il cantilenante dialetto vicentino? Non spetta a me stabilirlo. Ma la responsabilità è grande e, si sa, un autore che regge un microfono è sempre pericoloso. Faccio autoammenda, suggerendo al contempo quanto a mia volta ho imparato da buoni maestri in questi anni: imparare a diffidare, a lasciare lavorare il sano dubbio, a mettere e mettersi continuamente in discussione. "La pulce è animale scientifico" soleva ripetere un mio vecchio professore che stimo molto nonostante i modi talora un po' brutali e le battute al vetriolo che non di rado pronunciava. Dunque, cari lettori, diffidate. Diffidiamo o, meglio, dubitiamo. Anche e soprattutto (lo dico a me stesso in primo luogo) da chi ama pontificare. Informiamoci, non lasciamoci irretire, ragioniamo, confrontiamo e meditiamo prima di trarre conclusioni. Si tratta dell'invito ad adoperare sempre un atteggiamento "filologico" che già qualche volta ho ripetuto.

Vorrei tuttavia, concludendo questa nota domenicale, spezzare anche una lancia a favore delle fiere. Come giovane desideroso di imparare e confrontarmi, le trovo una buona occasione per scambiare qualche parola con amici che pure si dedicano alla scrittura così come con qualche lettore attento: magari allontanandosi dalla ressa degli stand, magari sedendo in disparte, abbassando il tono della voce. Scriversi e sentirsi al telefono aiuta, ma fa bene anche condividere qualche gesto essenziale e semplice. Anche quest'anno ho potuto scambiare riflessioni e punti di vista con amici, collaboratori e colleghi e lettori. Il confronto, soprattutto, aiuta a sentirsi meno soli e a non perdere di vista che se la scrittura è davvero dialogo (sono convinto sia così) tutti, autori e lettori, abbiamo la possibilità di crescere attraverso di esso.

domenica 23 marzo 2014

Se la scrittura diventa spettacolo...

In questi giorni, riordinando libri, appunti, fogli volanti, quaderni e molto altro materiale accumulatosi negli armadi in cinque anni di studi universitari, ho ripreso in mano un agile testo letto e studiato qualche anno fa per un interessante corso di Teoria della letteratura. L'autore, Giulio Ferroni, è ordinario di Letteratura italiana all'Università La Sapienza nonché storico letterario e critico "militante". Il testo, pubblicato nel 2010, s'intitola Scritture a perdere e attua una sorta di diagnosi sulla letteratura italiana contemporanea; al contempo, all'analisi dei "mali", si accompagna una lunga serie di esempi negativi e qualche esempio positivo, nuove strade possibili per uscire da una situazione che sembrava all'autore (nel 2010) alquanto soffocante. A rileggerlo sono rimasto colpito: non solo gran poco mi pare cambiato rispetto all'analisi di Ferroni ma forse qualcosa è addirittura peggiorato...

Tra i concetti che sovente ritornano in Scritture a perdere, colpisce quello relativo all'eccesso di comunicazione a cui siamo continuamente esposti, eccesso che la sovrabbondanza di libri presenti sul mercato non contribuisce certo ad attenuare. Si parla troppo e si scrive troppo. Ma quale comunicazione si ha se quella esistente si riduce, per usare un'espressione di Ferroni, alla <<comunicazione del vuoto>>?
Altro fattore che Ferroni analizza è il nesso tra letteratura e, appunto, il mercato. E anche qui gli esempi si sprecano: dalle fiere, viste come segno di vitalità dai più e che invece si riducono spesso a mero accumulo di merce, ai festival, fino ai casi letterari studiati a tavolino da editor tanto abili quanto spregiudicati. Il tutto in un'orizzonte in cui la letteratura sempre più agisce in un mondo spettacolarizzato, in cui essa stessa diviene spettacolo. Si tratta di un fenomeno che ha investito in senso ampio la cultura italiana degli ultimi anni e che risulta ben noto anche a chi si occupa di letteratura contemporanea. Illusione di comunicazione quando invece a parlare è sempre un'unica, assordante voce. Scrive Ferroni: <<La cultura viene così ad essere parte della continuità del mondo dato, della comunicazione corrente, anche quando si pone con intento critico e dissacrante, e tanto più quando vuol essere esplicitamente e programmaticamente provocatoria, trasgressiva, alternativa. Non può dar luogo a esistazioni, a dubbi, a cura per il destino del mondo, ma si risolve in esibizione, compiacimento, spaccio di materiale consumabile>> (p. 28).

Consumo, mercato, esibizione, spettacolo: parole che abbiamo di certo già sentito, ma che l'acuta analisi di Ferroni e i suoi giudizi espressi senza giri di parole ripropongono fornendo anche qualche possibile via d'uscita. Tuttavia è sulla diagnosi che oggi vorrei ancora dire qualcosa, in particolare sull'invasione del reality e sulla fallace illusione di comunicazione che esso offre. Scrive ancora Ferroni: <<Tutto si esibisce e si mostra, tutto può essere oggetto di sguardi indiscreti, ognuno può ambire a trasformare la propria banale quotidianità in qualcosa di spettacolare>> (p. 20).

Non ho potuto non confrontare le parole dello studioso con una delle ultime trovate in fatto di reality/talent show, quel "simpatico" Masterpiece che mi è capitato qualche volta di scorgere in televisione. Chissà se Ferroni ci aveva pensato: un vero programma in cui scovare il futuro della letteratura! Quel poco che ho potuto vedere (mi annoiavo in fretta) mi ha lasciato perplesso e stranito. Compitini da eseguire in diretta, proclami intellettuali per l'avvenir, dichiarazioni di vita e arte, stroncature da parte di giudici supremi dallo sguardo accigliato e la testa pesante di pensieri... La scrittura (non mi sento di parlare di letteratura, della quale peraltro, per il poco che ho seguito, non mi sembra si sia parlato) è ridotta a puro spettacolo, con concorrenti più o meno disperati, più o meno casi umani, più o meno bravi a recitare di fronte alla telecamera e giudici sulla cui grandezza letteraria non è lecito nutrire dubbi. Ma se sono scrittori, non dovrebbero limitarsi a scrivere?

Perdonate lo sfogo, amici lettori, ma alla tristezza si unisce un moto di rabbia. Mi dispiace soprattutto che ci siano persone che si prestino, da una parte e dall'altra, a questa messinscena un po' pietosa, un po' tragica, un po' grottesca. Giocando sull'ambizione dei "dilettanti allo sbaraglio", chiedendo saggi di bravura in diretta, imbastendo discussioni sul senso dello scrivere come sulla vita e i suoi destini ultimi, giudicando tali prestazioni, dove si vuole arrivare? Si riduce, anche qui come in molti altri campi, la scrittura a gara, classifica, a eterna sfida per stupire, ammaliare e, quindi, arrivare primi. Senza parlare del fatto che ad ascoltare certi saggi ci si chiede dove le aspiranti promesse della letteratura abbiano imparato a scrivere, si perde di vista ciò che la scrittura è quando esercitata con onestà intellettuale: ricerca dell'essenziale, tempo di silenzio, scavo, riflessione sul generale e sul particolare. Riflessione, appunto. E perciò fatica, prima di tutto in colui che scrive.

Ritornare all'essenziale è una delle necessità che Ferroni sottolinea più volte, una soluzione ineludibile per uscire da questa <<comunicazione del vuoto>>. A ritrovarla, l'ho accostata ad una frase di Mario Rigoni Stern, che vorrei lasciare come saluto e augurio,  piccolo antidoto al "molto rumore per nulla" che ci circonda e che spesso, più o meno volontariamente, contribuiamo ad accrescere. Parlando di sé, Rigoni Stern una volta scrisse: <<Vivo ad Asiago, mio paese natale e terra degli avi, amo camminare per le mie montagne, sciare, coltivare l'orto; scrivo quando ho qualcosa da dire>>.


domenica 16 marzo 2014

Traguardi e nuove partenze

La settimana appena trascorsa è stata per me, amici lettori, una settimana di traguardo. Martedì scorso, infatti, ho discusso la tesi e sono diventato, come recita la formula di proclamazione, 'dottore magistrale in Lettere classiche e storia antica'. 
- E adesso? - mi ha chiesto in questi giorni più di qualcuno. 
- Adesso vedremo - ho risposto con un mezzo sorriso.
Qualche coetaneo uscito dagli stessi ambienti accademici mi ha invece dato una pacca sulle spalle e mi ha dato il benvenuto. In effetti, la "nave sanza nocchier", per citare Dante con un pizzico d'ironia, ora ha un passeggero in più...
Ma non vorrei trasformare questo spazio di dialogo in una lamentazione o in una pagina autobiografica. Gli spunti quotidiani, ormai lo sapete, sono utili per condividere qualche lettura, o pensiero, o entrambi. Riflettevo dunque in questi giorni sopra un fatto di certo banale ma che, per evidenti ragioni personali, tornava a farmi visita: la laurea, come anche altri avvenimenti della vita, rappresenta insieme un punto di arrivo e un punto di partenza. Un punto di confine, per utilizzare un termine caro a Michail Bachtin, il pensatore russo sul quale ho lavorato per la tesi e del quale magari vi parlerò prossimamente.
Oggi vorrei condividere un augurio di partenza tratto da un testo che ogni tanto mi piace tornare a rileggere, testo non facile della nostra letteratura, più spesso citato come opera "di culto", monumento di una generazione letteraria e del suo capostipite, piuttosto che letto e studiato.

Nel 1980 un venticinquenne scrittore emiliano esordiva con un testo destinato ad avere da subito un grande successo, specie tra i giovani, ma a subire anche pesanti critiche e accuse, finendo addirittura sotto sequestro da parte dell'autorità giudiziaria a causa dei contenuti giudicati immorali e osceni (tra l'altro, si parlava apertamente di amori omosessuali). Il libro s'intitolava Altri libertini e il suo autore Pier Vittorio Tondelli. 

Altri libertini è un libro di racconti, storie legate tra loro, con luoghi e personaggi che ritornano. La realtà narrata è quella di giovani (siamo negli anni Settanta) sradicati, confusi, disorientati e che, escludendo ogni forma di accettazione o compromesso con un mondo invivibile e soffocante, ne vagheggiano la fuga e, anzi, la tentano attraverso varie strade. Di un'umanità vera e struggente, i personaggi dipinti da Tondelli, veri e propri esclusi, si muovono nell'orizzonte ristretto di una provincia che diviene, direi, dimensione universale di un'esistenza che sfugge e dalla quale si vorrebbe eternamente fuggire.
Il linguaggio del libro pure restituisce la frammentazione della realtà, la sua stessa inconsistenza ma, al contempo, l'ansia di un altrove e la ricerca di un qualcosa. Un linguaggio che Bachtin non avrebbe esitato a definire dialogico, mescolante parlato, gergo giovanile, forme dialettali con linguaggio "alto", letterario e con altre forme attinte dal cinema, da riviste, fumetti. Il brano che condivido oggi, amici lettori, è la parte conclusiva dell'ultimo racconto. Un augurio per tutti coloro che" arrivano": perché ricordino che ogni traguardo è insieme una nuova partenza e non perdano mai l'ansia di "cercare il proprio odore", quello che comunque dà un senso al viaggio.

<<Solo questo vi voglio dire credete a me lettori cari. Bando a isterismi, depressioni scoglionature e smaronamenti. Cercatevi il vostro odore eppoi ci saran fortune e buoni fulmini sulla strada. Non ha importanza alcuna se sarà di sabbia del deserto o di montagne rocciose, fossanche quello dell'incenso giù nell'India o quello un po' più forte, tibetano o nepalese. No, sarà pure l'odore dell'arcobaleno e del pentolino pieno d'ori, degli aquiloni bimbi miei, degli uccelletti, dei boschi verdi con in mezzo ruscelletti gai e cinguettanti, delle giungle, sarà l'odore delle paludi, dei canneti, dei venti sui ghiacciai, saranno gli odori delle bettole di Marrakesh o delle fumerie di Istanbul, ah buoni davvero buoni odori in verità, ma saran pur sempre i vostri odori e allora via, alla faccia di tutti avanti! Col naso in aria fiutate il vento, strapazzate le nubi all'orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro all'avventuraaaaa!>> (Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli 1980, p. 195).




domenica 9 marzo 2014

Grande bellezza, piccole bellezze

Negli ultimi giorni, l'assegnazione (più che meritata) dell'Oscar a La grande bellezza ha suscitato un vivacissimo dibattito sulla realtà che la pellicola di Sorrentino descrive. Premesso che, imminente la discussione della tesi, non ho potuto seguire se non "di striscio" gli interventi, ho avuto tuttavia la percezione che non di rado i commentatori si siano soffermati con eccessiva enfasi sulla bruttezza presente nella storia: una società in decadenza, frivola, vacua, morente. Non voglio entrare nello specifico, ma credo che alla lunga guardare troppo a quell'aspetto risulti fuorviante. Certo, ne La grande bellezza la bruttezza imperversa, sovrana, volgare, impietosamente descritta, ma è proprio grazie ad essa che emergono sprazzi inaspettati di bellezza vera, pura: persino, direi, sovrumana. Ed è questa bellezza, inseguita con foga in gioventù, che il protagonista torna continuamente a rivederee che, nonostante tutto (o forse proprio a causa di tutto), egli decide di inseguire ancora una volta tornando alla fine a scrivere.

Come il silenzio si nota maggiormente se ci troviamo circondati dal rumore, la bellezza si nota in mezzo alla bruttezza. Di essa, anzi, sentiamo un bisogno quasi assoluto proprio in tali frangenti. Sarebbe facile a questo punto riprendere la frase pronunciata dal principe Miškin ne L'idiota di Dostoevskij. Sarebbe facile e banale. Così condivido con voi, amici lettori, una poesia di un autore meno noto e celebrato, una poesia che canta la bellezza delle cose piccole, insignificanti, e che di tale bellezza sottolinea la fagilità e insieme il carattere effimero.

Trilussa è stato un grande poeta di fine Ottocento-inizio Novecento: scrisse i suoi versi in romanesco, proseguendo la tradizione illustre di Giuseppe Gioacchino Belli. Osservatore disincantato e ironico della società del tempo e, com'è proprio degli autori satirici, moralista autentico, spesso utilizzò la forma fiabesca nelle sue composizioni. Più di qualcuno in effetti l'ha accostato ai moralisti antichi, al greco Esopo e al suo corrsipettivo latino, Fedro. La poesia che vi propongo può essere collocata tra le fiabe in versi. S'intitola Bolla di sapone ed è pubblicata in Libro n. 9.


BOLLA DI SAPONE

Lo sai ched'è la Bolla de Sapone?
l'astuccio trasparente d'un sospiro.
Uscita da la canna vola in giro,
sballottolata senza direzzione,
pe' fasse cunnalà come se sia
dall'aria stessa che la porta via.

Una farfalla bianca, un certo giorno,
ner vede quela palla cristallina
che rispecchiava come una vetrina
tutta la robba che ciaveva intorno,
j'agnede incontro e la chiamò: - Sorella,
fammete rimirà! Quanto sei bella!

Er celo, er mare, l'arberi, li fiori
pare che t'accompagnino ner volo:
e mentre rubbi, in un momento solo,
tutte le luci e tutti li colori,
te godi er monno e te ne vai tranquilla
ner sole che sbrilluccica e sfavilla.-

La bolla de Sapone je rispose:
- So' bella, sì, ma duro troppo poco.
La vita mia, che nasce per un gioco
come la maggior parte de le cose,
sta chiusa in una goccia... Tutto quanto
finisce in una lagrima de pianto.

domenica 2 marzo 2014

Sul fascino (e il potere) degli slogan

Alcuni giorni fa, grazie al clima primaverile e al sole comparso in cielo, sono tornato a passeggiare sul colle. Volevo distrarre un po' la mente, liberarmi dai pensieri e dalle preoccpuazioni del quotidiano, rilassarmi e muovermi all'aria aperta, gustata tanto poco in questi ultimi mesi. Sono salito sul colle, ad ascoltare il silenzio e i suoni di una primavera in anticipo sui tempi...
Tuttavia un pensiero tornava di continuo ad affacciarsi: frammenti di quotidianità ronzavano attorno ad un tema fisso, che vorrei condividere qui con voi riprendendo una riflessione esposta già nei miei ultimi post. L'altro giorno, passeggiando tra le viti appena potate e i prati ancora intrisi d'acqua, mi interrogavo sul potere e sul fascino che esercitano gli slogan sul nostro immaginario. Come sempre, non pretendo di fare qui trattazioni accademiche, non è questo lo spazio, bensì solo offrire qualche suggestione ponendo in dialogo parole scritte con parole udite, realtà letta con realtà vissuta

Ritrovo tra vecchi appunti la definizione etimologica di 'slogan' che dà Elias Canetti, scrittore di origine bulgara, premio Nobel per la letteratura nel 1981, nell'opera che lo impegnò per un quarantennio, Massa e potere. Scrive Canetti: <<Presso i Celti degli Highlands scozzesi l'esercito dei morti è designato da una parola particolare: sluagh, che si traduce in inglese con spirit, multitude, moltitudine di spiriti. [...] La parola ghairm significa urlo, grido, e sluagh-ghairm era il grido di battaglia dei morti. Ne è derivata più tardi la parola slogan: la denominazione del grido di guerra delle masse moderne deriva dall'esercito di morti degli Highlands>>. In poche parole, Canetti non solo fornisce la storia del termine 'slogan', ma lo collega con l'argomento che sta al centro del suo amplissimo studio, la massa. 

In effetti, non occorre gran fatica per associare lo slogan ad una massa, ad una moltitudine di persone. Lo slogan è parola efficace, concisa e rapidissima. Pochi tratti per designare una realtà o un messaggio netto, immediato e senza possibilità di essere lì per lì contraddetto. Come una freccia scoccata con precisione, uno slogan centra quasi sempre l'obiettivo, indirizza la mente e colpisce l'immaginario molto più di ragionamenti e disquisizioni. Uno slogan si fa così largo fra noi, in noi. Provate, amici lettori, a fare attenzione a quanti slogan quotidianamente sentiamo e utilizziamo. Rimarrete colpiti. Dalla politica al mondo della pubblicità sino alle nostre più personali e private parole, gli slogan che utilizziamo sono innumerevoli. In questo frangente, un atteggiamento filologico, un'attenzione cioè all'origine delle parole, ai loro legami e reciproci collegamenti, alla loro storia, può forse aiutarci a non diventare preda degli slogan.

Mi è accaduto più di qualche volta di assistere ad accese o, addirittura, infiammate discussioni nei modesti spazi dei social network. E credo non ci sia bisogno di dirlo: i social network sono tra i "luoghi" dove più impera la forza degli slogan. La complessità non si può affrontare in poche righe e la pratica di liquidare l'interlocutore (che non di rado diviene avversario o nemico) con una frase fatta impera, specie se dietro di essa si nasconde una povertà di valide ragioni. Nulla di nuovo: reazione inevitabile in un contesto che spinge a questo, potremmo dire. Ma se ciò si traduce anche fuori dallo spazio di internet? In un mondo in cui sempre più domina la semplificazione, la contrapposizione netta, quale effetto possono avere certi slogan che ripetiamo senza troppo pensare al loro significato o alla loro origine? <<Le frasi fatte si impadroniscono di noi>> scriveva Viktor Klemperer, filologo perseguitato dal nazismo e autore di LTI. La lingua del Terzo Reich. La lingua crea e pensa per noi. Così uno slogan può sedurre e impadronirsi di chi lo utilizza come di chi lo ascolta, finendo per allontanare dalla complessità del reale, sostituendo la riflessione e il dialogo con una definizione facile e di pronto utilizzo. 
D'obbilgo perciò ricordare che dietro uno slogan c'è sempre un'idea o, non di rado, un'ideologia. E il rischio di degenerare e lasciarsi trasportare, più o meno consapevolmente, rimane costante. Scrive Hannah Arendt ne La banalità del male che la lontananza dalla realtà, unita alla mancanza di idee <<possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo>>. Riflettiamo dunque, e coltiviamo un atteggiamento filologico di fronte alla realtà quotidiana.