mercoledì 11 luglio 2018

Riflessioni su fascismo e antifascismo nella scuola

Cari lettori,
scrivo una breve nota per informarvi che ho iniziato a collaborare con il sito laletteraturaenoi.it. Pochi giorni fa è uscita una mia riflessione su fascismo e antifascismo nella scuola. La potete leggere al seguente link: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/814-riflessioni-su-fascismo-e-antifascismo-nella-scuola.html


lunedì 9 luglio 2018

Commemorando i sette martiri di Valdagno, domenica 8 luglio 2018

Cari lettori,
riporto di seguito il testo dell'orazione che a nome dell'ANPI ho pronunciato ieri, nel corso della commemorazione dei sette martiri di Valdagno, fucilati dai nazifascisti il 3 luglio 1944.



Commemorazione dei sette martiri
Valdagno, domenica 8 luglio 2018


Signor vicesindaco, autorità civili e militari, cittadine e cittadini: porgo a voi il mio saluto personale e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, che ho l’onore di rappresentare. Ringrazio in particolare la sezione di Valdagno per l’invito offertomi a commemorare con voi i “sette martiri” di una città a cui sono molto legato, città che tanto ha dato alla Resistenza e che per la Resistenza è stata decorata di Medaglia d’Argento al V.M. Saluto anche con particolare affetto i famigliari dei martiri e la staffetta partigiana Teresa Peghin Wally.
Commemorare è una parola importante, significa fare memoria assieme. È un gesto profondamente umano e denso di significato, che ci unisce nella consapevolezza di quanto è qui accaduto settantaquattro anni fa per ricordare ma anche per attualizzarne il messaggio. Un’altra parola altrettanto importante che ci unisce oggi è ‘martire’, che in origine, nell’antica Grecia, significava ‘testimone’. Col Cristianesimo il suo significato si trasformò in parte, assumendo il significato di fedele che, consapevole di perdere la vita, non accetta tuttavia di rinnegare la propria fede. Diviene perciò testimone per gli altri di ciò in cui crede. Con questo significato la parola ‘martire’ è giunta fino a noi, abbracciando ancora l’ambito civile oltre che religioso, rappresentando chi lotta fino alle estreme conseguenze per un ideale umano, di libertà, di giustizia, di democrazia e di pace. Per questo siamo qui oggi a fare memoria insieme, a commemorare, appunto, questi sette uomini, fucilati dai nazifascisti il 3 luglio 1944.

Essi erano Ferruccio Baù, valdagnese, classe 1908, di professione commerciante, noto come antifascista dal 25 luglio 1943, quando aveva gettato dal balcone del municipio la foto di Mussolini, deposto e arrestato poche ore prima;
Virgilio Cenzi, classe 1896, militante comunista e sostenitore del movimento partigiano, di professione falegname alla manifattura della Marzotto”;
Antonio Bietolini, classe 1900, meccanico, militante comunista di lungo corso. Arrestato più volte nel corso del ventennio, aveva trascorso sette anni di Confino alle isole Tremiti. Dal 13 febbraio 1944 era stato incaricato di dirigere la federazione vicentina del Pci in sostituzione dello scledense On. Domenico Marchioro e agiva sotto il falso nome di Bruno Morassuti;
Alfeo Guadagnin, classe 1899, socialista bassanese di lunga militanza, di professione noleggiatore d’auto, presente a Valdagno per incontrarsi con l’amico Ferruccio Baù;
Marino Ceccon, classe 1912, comunista, operaio agli stabilimenti “Marzotto”;
Francesco Rilievo, classe 1919, operaio alla “Marzotto”, privo di legami con l’attività clandestina, arrestato semplicemente perché cognato di Giovanni Zordan;
Pasquale Giovanni Zordan, “Nani Sette”, classe 1908, comunista, attivista nella fabbrica “Marzotto”.
Il loro arresto e la loro fucilazione avvennero in una fase drammatica della Guerra di Liberazione per Valdagno e per l’intera vallata. Come hanno ormai chiarito studi recenti [mi riferisco in particolare ai saggi pubblicati sull’argomento dal prof. Maurizio Dal Lago] questi sette martiri, a cui doveva aggiungersi Raffaele Preto, di 24 anni, calzolaio, membro della Resistenza, che riuscì invece a scampare alla fucilazione attraverso una fortunosa fuga, furono uccisi perché antifascisti nel corso di una rappresaglia che aveva il duplice scopo di colpire l’attività clandestina e terrorizzare la popolazione.

Nessuno dei sette uomini fucilati il 3 luglio 1944 era coinvolto con l’attacco partigiano, avvenuto il 30 giugno precedente fra le località Canova e Ghisa di Montecchio Maggiore e costato la vita a due soldati tedeschi, che fu addotto dai nazifascisti a motivo della feroce rappresaglia. Fu per essi un’occasione per mostrare ancora una volta la forza e la brutalità a cui poteva giungere la repressione ad azioni della Resistenza, un’occasione che si sommava a quanto avvenuto poche settimane prima, l’11 giugno, in contrada Borga, quando, a fronte dell’uccisione di un soldato tedesco, diciassette uomini innocenti erano stati massacrati, le case bruciate, terrorizzata la popolazione.
Ma il terrore non si fermò nemmeno a seguito dell’uccisione dei sette martiri: proseguì nei giorni seguenti con un rastrellamento nella zona fra Castelvecchio e Marana che portò alla morte di diversi civili e alla distruzione di numerose contrade accusate di aver dato «alloggio, vitto e la possibilità di deposito per armi e munizioni ai Ribelli». La Valle del Chiampo sarebbe poi stata colpita da un nuovo rastrellamento dal 9 al 15 luglio e, dopo l’estate, rinnovata strage avrebbe colpito questa città, con il rastrellamento di Piana, costato la vita, nel solo giorno 9 settembre, a 61 uomini, 20 civili e 41 partigiani.

Ecco dunque il nostro fare memoria, un’azione profonda e viva, che si volge al passato per vivere con consapevolezza il presente, un’azione che oggi è più necessaria che mai. Viviamo infatti in un’epoca di grande confusione, che spesso sfocia nel pressappochismo, nella faciloneria condita da slogan e frasi fatte, quando non, addirittura, nell’ignoranza esibita e rivendicata. Quella che doveva essere l’epoca dell’informazione per tutti, attraverso internet, del superamento delle ideologie, si sta rivelando come l’epoca della paura, dell’intolleranza e del ritorno di mostri che si pensava di aver sconfitto: il nazionalismo, il razzismo, il nazifascismo. E tutto ciò si fa strada nell’ignoranza, nel vuoto delle relazioni e delle discussioni reali, nella mancata conoscenza dei fatti storici e nella mancata trasmissione della memoria.

Se pochi mesi fa si poteva ancora affermare che il fascismo stava rialzando la testa, oggi purtroppo dobbiamo constatare che esso è presente e vivo: non solo il fascismo nostalgico di chi, senza conoscere quanto è avvenuto, difende ed osanna il ventennio mussoliniano, iniziato nella violenza e nella violenza finito nel modo più tragico, ma anche, soprattutto, è presente un fascismo nuovo, fomentato dalla crisi economica e morale degli ultimi anni, cresciuto tanto con la cattiva politica quanto con il qualunquismo e con gli slogan, reso forte e dilagato attraverso la paura, spesso strumentalizzata ad arte, del diverso e dello straniero, attraverso il razzismo, l’insicurezza e, ancor più, la percezione di insicurezza, l’intolleranza, l’inasprimento del conflitto sociale. In un paese, l’Italia, in cui il fascismo storico è stato sconfitto militarmente ma mai culturalmente, in cui, come ha dichiarato Carlo Smuraglia, presidente nazionale emerito dell’ANPI, «è mancato un ragionamento rigoroso su cosa è stato il fascismo, cosa ha rappresentato e come è stato recepito dal popolo durante il ventennio», il nuovo fascismo si insinua e fa proseliti proponendo una politica forte, risoluta, “di un uomo solo al comando”, di “qualcuno che metta a posto le cose”. Utilizzando un lessico machista, gesti risoluti, distogliendo l’attenzione dai veri problemi per scatenarsi contro minoranze, il nuovo fascismo catalizza i sentimenti più oscuri e si radica nella perdita dei riferimenti storici e culturali più autentici.

A questo fascismo dobbiamo contrapporre l’interesse, la partecipazione, la conoscenza e la memoria. Nel frastuono dei social, delle frasi fatte urlate e facili da ripetere come automi è fondamentale conoscere, studiare, apprendere correttamente, accertare, documentarsi. Occorre studiare la storia della Resistenza, limpidamente, riconoscendo anche gli errori che possono essere stati commessi in singoli episodi o da singoli personaggi, ma riconoscendo al contempo l’impegno ideale che la animava e la contrapponeva radicalmente al nazifascismo. Da una parte, quella giusta, quella che scelsero i sette martiri, si combatteva infatti per la libertà, per la pace, per la giustizia; dall’altra si combatteva per un mondo di schiavi, un mondo fondato sul razzismo, sulla violenza come mezzo generalizzato di potere e di dominio, sull’eliminazione del diverso, dell’avversario politico, del nemico.

Tuttavia la sola storia può non bastare. Occorre infatti unire ad essa la memoria, la partecipazione emotiva e personale, attraverso le tante storie di chi allora disse “No” al nazifascismo, sia che abbia impugnato le armi, sia che abbia scelto altre forme di Resistenza, come la popolazione delle contrade, che aiutava e proteggeva i partigiani correndo rischi altissimi. Inoltre occorre accompagnare in questo i giovani, che più di altri sono oggi vulnerabili ai richiami allettanti del nuovo fascismo: dobbiamo tornare a fermarci davanti ai monumenti come quello in via Sette Martiri, tornare a leggere i nomi, riscoprire le storie di questi uomini e di queste donne che ebbero il coraggio di dire “No”. Non erano eroi, ma persone normali che tuttavia scelsero. E scelsero la parte giusta. Come ha detto Mario Rigoni Stern: «È molto più difficile dire no che sì». Da qui dobbiamo ripartire, cittadine e cittadini, per affermare oggi il nostro “no” al nuovo fascismo.

È una battaglia culturale che non possiamo permetterci di perdere. Riprendendo le parole di Smuraglia, occorre ribadire con fermezza che «il nostro è un Paese non solo democratico, ma anche antifascista». Lo afferma chiaramente la Costituzione repubblicana, dalla cui entrata in vigore ricorre quest’anno il settantesimo anniversario, negli articoli a tutela della libertà in tutte le sue forme, dell’uguaglianza, dei diritti fondamentali, della dignità, del diritto di asilo e di tutela dello straniero, tutto ciò che il fascismo aveva negato. Questo antifascismo della Costituzione, che dovrebbe permeare le istituzioni anche oggi, fu ribadito in sede di Assemblea Costituente da un giovane deputato, Aldo Moro, di cui abbiamo ricordato poche settimane fa il quarantesimo anniversario dalla tragica scomparsa. Disse Moro: «Non possiamo […] fare una costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro paese un movimento storico di importanza grandissima il quale nella sua negatività ha travolto per anni la coscienza e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale».

Cari cittadine e cittadini, i riferimenti storici e culturali non ci mancano. Consapevoli di quello che è stato, commemoriamo i nostri sette martiri e con essi tutti coloro che hanno lottato per darci oggi un’Italia libera, repubblicana, democratica, antifascista. Sentiamo in noi il compito di onorare la loro memoria con il nostro impegno oggi, sempre.
Viva la Resistenza, viva la Costituzione!

domenica 17 giugno 2018

Cari amici lettori,
rompo un lunghissimo silenzio per segnalarvi un mio racconto sulla distruzione dell'antica fontana di Valbona pubblicato sul sito https://casacibernetica.wordpress.com. Spero che il mio scritto aiuti a riflettere e a rompere l'indifferenza verso lo scempio del nostro territorio. 

domenica 14 gennaio 2018

Commemorando Dino Carta, partigiano ventenne, ucciso dai fascisti il 12 gennaio 1945

Cari lettori,
riporto di seguito il testo dell'orazione che a nome dell'ANPI di Vicenza ho pronunciato ieri, nel corso della commemorazione del partigiano Dino Carta, ucciso dai fascisti il 12 gennaio 1945.



Commemorazione del partigiano Dino Carta
Vicenza, sabato 13/01/2018

Signori rappresentanti delle Istituzioni, delle associazioni combattentistiche, cittadine e cittadini, colleghi insegnanti ma soprattutto parenti di Dino Carta e ragazze e ragazzi delle scuole, dell’Istituto “Boscardin”, del “Farina”, del “Pigafetta” e del “Rossi”: saluto tutti voi con affetto e porto i saluti dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, che qui rappresento e che ringrazio per l’opportunità offertami di parlare oggi a voi tutti.
Non è senza emozione che vi parlo. Ho infatti ancora viva nella memoria la cerimonia dello scorso anno, alla quale presenziai assieme agli allievi della mia terza media. Proprio allora, alcuni di essi, avvicinatisi alla lapide che ricorda Dino, caduto in questo luogo il 12 gennaio 1945, mi chiesero di spiegare loro cosa significassero certe espressioni che si trovano scritte. Rileggiamo insieme la lapide:
QUI
RABBIA DEI FRATELLI
ASSOLDATI DALL’INVASORE TEUTONICO
SPEZZÒ LA GIOVINEZZA DI 
DINO CARTA
VENTENNE.
I COMPAGNI DI LOTTA
VOLLERO ETERNATO L’EROICO MARTIRIO
PER L’IDEALE SUBLIME DELLA LIBERTÀ
N. 7-11-1924                      M. 12-1-1945

Colpiscono alcune parole, che allora potei illustrare solo in parte ai miei ragazzi e che ora vorrei riprendere: la «rabbia dei fratelli assoldati dall’invasore», l’aggettivo «teutonico», l’altro aggettivo, «ventenne», la parola «martirio», l’espressione «ideale sublime della libertà». Non le riprendo per fare una lezione di etimologia, bensì per ricordare, a me e a voi, quanto i segni di ciò che avvenne dal settembre 1943 al maggio 1945 siano ancora visibili nella nostra terra, nelle nostre città, per le strade e in angoli talora purtroppo dimenticati. Sono dei moniti che dovrebbero ricordarci di continuo il prezzo pagato per conquistare la libertà, la democrazia, la pace, la giustizia. E invece nelle nostre vite spesso distratte non ce ne accorgiamo, intenti come siamo a fissare lo sguardo sugli schermi dei nostri smartphone o ad inseguire le incombenze quotidiane.

Oggi dunque ricordiamo un ragazzo di vent’anni, cresciuto a Vicenza sotto la dittatura fascista e morto per mano degli sgherri di quella dittatura, un regime che, dopo aver preso il potere con la forza, nel 1922, aveva oppresso la libertà per oltre vent’anni. Una dittatura che, servendosi dell’intimidazione e della violenza, aveva messo a tacere gli oppositori, molti dei quali avevano pagato con la vita. Penso a Giacomo Matteotti, a cui pure sono intitolate vie, strade e, qui a Vicenza, una piazza; penso ad Antonio Gramsci, ai fratelli Rosselli, a Piero Gobetti, a Giovanni Amendola e a molti altri uccisi fra gli anni Venti e Trenta, noti e meno noti. Uccisi perché volevano essere liberi di seguire i loro ideali.

Il fascismo, invece, aveva messo a tacere l’opposizione, aveva vietato la manifestazione libera delle idee, soppressi gli altri partiti e la libertà di stampa e costruito il consenso degli italiani attraverso un’organizzazione capillare. Ogni momento della vita degli italiani era controllato e organizzato affinché non germogliasse la minima idea contraria a quella dominante, affinché tutti seguissero ciecamente il “credere, obbedire, combattere” voluto dal duce, lo stesso duce che nel 1935 portò l’Italia ad aggredire l’Etiopia, paese in cui i nostri soldati si macchiarono di crimini di guerra atroci; lo stesso duce che, con l’avvallo del re Vittorio Emanuele III, le cui spoglie sono rientrare da poco in Italia, fece promulgare nel 1938 – quest’anno saranno ottant’anni – le leggi razziali, una macchia indelebile nel nostro paese.

Ecco, ogni volta che mi trovo a ricordare ragazzi come Dino Carta, penso al “miracolo” che rappresentò la loro ribellione al fascismo. E non a caso uso la parola “miracolo”. Dino, come del resto moltissimi altri, cresciuto sotto il pensiero oppressivo, unico e dominante dell’ideologia fascista, senza avere la possibilità, come noi oggi invece abbiamo, di connettersi a internet per avere in un attimo qualsiasi tipo di informazione, fece tuttavia la propria scelta. Scelse la strada della libertà, che allora voleva dire Resistenza.
Si trattava di una scelta difficilissima, avvenuta quando l’Italia, dopo tre anni di guerra disastrosa a fianco della Germania nazista, l’8 settembre 1943 si era ritrovata divisa, abbandonata dal re e dalla classe politica, occupata a nord dai tedeschi - l’«invasore teutonico» di cui parla la lapide -  e al sud dagli anglo-americani che faticosamente avanzavano per liberarla. Ma la divisione e la guerra erano anche civili, interne all’Italia, tra «fratelli», come recita la lapide: da una parte chi aveva deciso di combattere dalla parte giusta, come Dino Carta, e dall’altra chi invece ancora voleva perpetuare l’odio, la violenza, la disuguaglianza sociale ed etnica, il razzismo, la schiavitù dell’uomo sull’uomo, fino all’eliminazione fisica di chiunque non fosse ritenuto degno di vivere nel “mondo nuovo” dall’ideologia nazifascista.

Dino poteva sembrare un ragazzo come tanti. Studente prima del Patronato “Leone XIII” e poi dell’Istituto “Rossi”, viene descritto da chi lo conobbe come un ragazzo pieno di vita. Appassionato calciatore, era uno dei portieri del Vicenza nel campionato regionale del ’43-’44. Ma Dino non era solo questo. Arruolatosi nella polizia ausiliaria fascista, dopo aver preso contatti con i partigiani della brigata “Argiuna”, aveva iniziato la missione pericolosissima della collaborazione con la Resistenza, passando informazioni preziose ai partigiani. Sospettato dai fascisti, sorvegliato, venne scoperto e il 12 gennaio arrestato e portato a poche centinaia di metri da qui, a Villa Girardi, in via Fratelli Albanese, la cosiddetta “Villa Triste”, per essere interrogato e torturato, come da prassi nazifascista. Da lì riuscì a scappare giungendo fino a via Calderari dove venne raggiunto e ucciso.
Dino, dicevo poco fa, poteva sembrare un ragazzo come tanti, ma quella sua scelta, pagata con la vita, lo rese diverso: diverso da molti che combatterono, in buona o in cattiva fede, dalla parte sbagliata come da coloro che scelsero di non combattere. Questa sua scelta, pagata con la vita, lo rese uomo libero e «martire», parola che significa “testimone”, usata nell’antica Grecia in ambito giuridico e passata poi al Cristianesimo per rappresentare il fedele che, consapevole di perdere la vita, non accetta di rinnegare la propria fede. Quale fosse la fede di Dino ce lo dice l’ultima espressione della lapide che ho voluto segnalare, quell’«ideale sublime della libertà» per cui Dino diede la vita. A vent’anni.

Noi oggi spesso dimentichiamo il valore della libertà o, addirittura, ne travisiamo il significato, arrivando a ritenere che essa equivalga a fare ciò che si vuole, pensando a noi stessi, al nostro piacere o tornaconto, paghi di un vestito di marca, dell’ultimo modello di smartphone, del lavoro, della carriera, di una bella macchina, e degli altri “chi se ne frega!”. Attenzione, ragazze e ragazzi, perché sotto questa falsa idea di libertà, deformata da un sistema economico perverso come quello in cui ci troviamo oggi e che a noi mostra solo le sue luci allettanti, si annida di nuovo il fascismo, a partire proprio da quell’espressione, “fregarsene”, che riecheggia il motto delle squadracce fasciste “me ne frego”.

Al “me ne frego” fascista rispose nel dopoguerra un grande educatore: don Lorenzo Milani. All’ingresso della scuola di Barbiana ancora oggi è visibile il motto, “I care”, “m’importa, mi sta a cuore”. Ecco, Dino ebbe a cuore la libertà, non solo per se stesso ma per gli altri, rischiò la vita e con la vita pagò di persona per conquistare qualcosa che lui, cresciuto sotto il fascismo, non aveva conosciuto. Dino andava cercando la libertà, la quale, ci ricorda Dante all’inizio del Purgatorio, «è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta». E oggi c’è ancora bisogno di ragazzi come Dino, ragazzi come voi, di venti, diciannove, diciotto anni, l’età che avevano moltissimi partigiani, ragazzi che abbiano a cuore «l’ideale sublime della libertà». Come ha scritto Mario Rigoni Stern, oggi «non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza».
Anche oggi la libertà non è scontata. Mi tornano in mente le parole di Piero Calamandrei, padre costituente: «La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai».

Ma come si difende oggi la libertà? Voi, ragazze e ragazzi, la difendete innanzitutto interessandovi agli altri, alla società, alla vita politica. Non credete a chi vi dice che è tutto marcio e corrotto, che non vale la pena battersi. Chi dice così ha già perso e diventa complice di quanti vorrebbero scardinare le conquiste della Resistenza, sancite dalla nostra Costituzione. Interessatevi, battetevi per una maggiore giustizia sociale, per la pace, per una libertà vera e consapevole. La strada è difficile ma, a differenza dei tempi in cui visse Dino Carta, è già tracciata, e in modo luminoso, dalla nostra Costituzione, che proprio quest’anno festeggia i settant’anni dall’entrata in vigore, il primo gennaio 1948. La Costituzione è il frutto della collaborazione fra tutti i partiti antifascisti che avevano preso parte alla Resistenza. È un documento importantissimo, un patrimonio comune che tutti dovremmo conoscere, amare, difendere e cercare di applicare ogni giorno, specie i suoi primi dodici fondamentali articoli.

La libertà si difende dunque, prima di tutto, con l’impegno per gli altri. Ma occorrono anche la conoscenza, la preparazione e lo studio, personale e a scuola, di tutte le discipline e in particolare della storia. Sì, ragazze e ragazzi, cittadine e cittadini, occorre conoscere, perché fare memoria è importante, è fondamentale, ma se non si conosce non si può ricordare con consapevolezza. A noi tutti spetta il compito di conoscere con onestà ciò che è stata la Resistenza, senza mitizzarla, senza dimenticare anche gli errori che possono essere stati commessi in singoli episodi o da singoli personaggi, ma riconoscendo l’impegno ideale che la animava e la contrapponeva al nazifascismo. Impegno che Dino assunse consapevolmente e con coraggio.

Attenzione, ragazze e ragazzi, perché stiamo assistendo giorno dopo giorno ad una vera e propria involuzione sociale, politica e culturale: la crisi economica, il neoliberismo esasperato, i flussi di persone in fuga dalla miseria o dalle guerre, guerre spesso finanziate o segretamente appoggiate dai paesi più prosperi, ma anche la scarsa conoscenza del passato e l’indifferenza, tutti questi fattori stanno mettendo in crisi la fiducia nella democrazia. Lo vediamo in Europa, dove le estreme destre xenofobe e razziste sono in crescita; lo vediamo in Italia, dove partiti che si ispirano al nazifascismo aumentano sempre più i loro adepti; lo abbiamo visto anche a Vicenza, all’istituto “Rossi”, dove, il 13 aprile scorso, giovani vicini a movimenti di estrema destra, si sono permessi di affiggere uno striscione contro una presunta insegnante trans, nascondendosi dietro la difesa di valori a loro avviso tradizionali. Lo abbiamo visto, infine, nei giorni scorsi, dietro l’iniziativa della “befana tricolore” portata avanti da un partito di estrema destra richiamando la “befana fascista” che portava i doni ai bambini. Eppure in rete molti si sono scandalizzati non contro i neofascisti, che aiutano i bisognosi, purché naturalmente italiani e bianchi, ma contro l’ANPI, accusata di intolleranza: una follia! È un mondo alla rovescia quello che sta venendo avanti…

Vediamo sempre di più persone dichiararsi pubblicamente fasciste senza che nessuno obietti nulla, diffondere sui social foto e contenuti inneggianti al duce o alla dittatura, sostenere che dopotutto “il fascismo ha fatto anche cose buone”, che non era una dittatura rigida. E a seguire una lista di luoghi comuni, errori, palesi falsità e inesattezze, che però si insinuano nella mente di chi non ha la conoscenza di quanto è avvenuto. Ecco perché è importante leggere, studiare, documentarsi. Ragazze e ragazzi, leggete Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu per capire quali erano i metodi del fascismo, leggete le Lettere dei condannati a morte della Resistenza per capire gli ideali si oppose al fascismo e al nazismo, leggete i libri di Primo Levi, di Elie Wiesel, di Boris Pahor, di Mario Rigoni Stern, per citare solo alcuni nomi di sopravvissuti alla barbarie nazifascista.

Interesse, dunque, e conoscenza. Così potremo affermare senza paura che il fascismo non è un’opinione, è un reato, non fu un governo che aveva a cura gli italiani ma un regime violento e oppressivo, non fu e non è nemmeno politica, ma rappresenta la negazione stessa della politica, la quale, ci insegna Aristotele, è dialogo e confronto, attraverso la parola, di opinioni e pensieri diversi.  
Dunque, oggi che, per citare Primo Levi, viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, oggi che siamo circondati da visi amici e che viviamo in pace, dobbiamo vigilare affinché istrioni e fomentatori d’odio non riemergano, palesi o mascherati dietro parole più o meno innocenti. A chi torna a proporre vecchi e ben noti slogan o utilizza, spesso deformandole, parole o espressioni come “tradizioni”, “nazione”, “sangue”, “razza”, “prima noi”, “prima gli italiani”, “invasione” riferita ai flussi migratori, “patria” rispondiamo che non questa patria noi vogliamo, ma quella patria onesta, giusta, in pace, libera e accogliente per la quale centinaia di migliaia di giovani come Dino hanno combattuto, molti fino a dare la vita: una patria italiana ma senza barriere, una patria all’interno di una più grande patria che sono l’Europa e il mondo.
“Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà” cantavano i partigiani sulle nostre montagne. Questo allora il compito nostro e vostro, ragazze e ragazzi, in particolare, per onorare davvero, con la nostra vita, quanti, come Dino Carta, hanno dato la loro per la nostra libertà.
Onore al partigiano Dino Carta, evviva la Resistenza, evviva la Costituzione!


Michele Santuliana