mercoledì 25 dicembre 2019

Il cipresso di Pietro Manina - racconto

Care lettrici, cari lettori,
come dono natalizio condivido il racconto uscito sull'ultimo numero di Quaderni Vicentini. Buona lettura e Buone Feste!
MS

Il cipresso di Pietro Manina

Fu sul finire del secolo decimonono, sotto la cura d’anime di don Marchesini, che al paese invalse l’abitudine, poi divenuta usanza e infine tradizione, di piantare un cipresso per ogni nuovo prete che la comunità offriva alla Santa Madre Chiesa. Il curato disse dal pulpito che aveva avuto questo suggerimento in sogno: un bambino gli era apparso e con la mano aveva accennato ad un piccolo cipresso sopra un colle. “Per grazia ricevuta”, aveva detto il piccolo prima di svanire, improvviso e misterioso com’era apparso. La domenica in cui il curato raccontò il sogno era un giorno di maggio particolarmente luminoso e bello che a lungo le genti delle contrade avrebbero tramandato nei racconti, al pari di quello, due settimane più tardi, in cui cantò la sua prima Messa al paese il giovane Tarcisio Bertola, partito undici anni prima per il collegio dei Salesiani di C*** e ritornato lustro nella sua talare nera, col tricorno calcato sulla fronte ampia e la cotta lavorata dalle suore di un convento della città che pareva ricamata dalle mani di un Serafino, tanto era prezioso il punto. Il cipresso allora fu piantato al margine della piazza, a pochi passi dalla chiesa, ché l’albero - aveva detto don Marchesini - doveva vedersi bene e spingere a devozione e preghiera la comunità, giacché erano sedici anni che al paese non cantava Messa un nuovo prete.
Il cipressetto, in apparenza alquanto gracile, venne posto con solenne cerimonia dopo la Messa cantata, e Padre Tarcisio, con quella voce flebile e quel portamento nobile ma insieme semplice e spontaneo che ebbe sempre e che tanto piaceva alle vecchine che affollavano i primi banchi per ascoltare le sue prediche quando, sempre più di rado col procedere degli anni, tornava al paese, Padre Tarcisio, dicevo, spese parole tanto belle per ringraziare don Marchesini di quel gesto che di certo da Lassù ebbero a ricordarsi di esse negli anni a venire perché quel giorno solenne di devozione e di festa inaugurò un periodo florido di vocazioni al paese.
Nel novantanove cantò la sua Prima Messa il giovane Giovanni De Pretto, che fece poi una brillante carriera nella cancelleria vescovile e divenne prima arciprete di una delle più popolose parrocchie della diocesi e poi Monsignore a Roma, voluto da sua santità Pio undecimo in persona per collaborare alla revisione di certe parti del Diritto Canonico, ai tempi del concordato fra lo Stato e la Santa Sede; fu poi la volta di Padre Severino Marangoni, che sentiva sua la vocazione del missionario e che tante chiese avrebbe fondato nell’America del sud, fino a terminare i propri giorni in odore di santità in un uno sperduto villaggio della Patagonia divenuto presto meta di folle di pellegrini.
Poi venne la prima Messa di don Germano Tovo, consacrato nel novecentosei, poi di don Giuseppe Cocco, nel tredici, e infine di don Francesco Borgo, destinato purtroppo a fulgida quanto breve esistenza. Cappellano di un battaglione di bersaglieri nella Grande Guerra, sarebbe caduto nel novecentodiciassette sul fronte della Bainsizza nell’atto di recare gli estremi conforti a due feriti nella battaglia. Fu decorato con medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Intanto però, col nuovo secolo, era venuta meno alla curazia la guida sapiente e ferma di don Marchesini, chiamato a maggiori responsabilità da sua Eccellenza il Vescovo. Dopo i primi cipressi, piantati tutti al margine della piazza per volere del reverendo curato, i suoi successori decisero, forse anche per motivi di spazio, di disseminare gli alberi fra le contrade da cui provenivano i consacrati alla vita sacerdotale.
Fu così che per i tre decenni successivi si videro spuntare tanti cipressi ai crocicchi delle strade quanti erano i nuovi figli che la curazia donava alla Chiesa. Le madri additavano ai figli quelle piante e talvolta le più devote li facevano inginocchiare ai loro piedi. Un’Avemaria, un Gloriapatri, e chissà che il Signore un domani non avesse chiamato alla sua sequela il piccolo che adesso salmodiava col capo chino e le manine giunte al petto.
Ma la strada tortuosa, talora oscura, degli uomini tanto si discosta dalle speranze delle madri! Il nuovo secolo non portò soltanto al paese il benessere delle strade lastricate o quello, invero assai più ambiguo e gravido di rischi per i giovani della via ferrata la quale, attraversando la grande pianura, metteva in comunicazione la campagna con la città e le sue tentazioni, portò anche le idee del nuovo secolo che tanto male avrebbero recato alla nazione. Fu così che sul principiare del quindici vennero gli oratori dalla città a incitare i contadini alla guerra contro i todeschi, che nulla avevano mai fatto ai nostri e che anzi tanta devozione avevano ma che spiacevano ai politici che volevano la guerra ad ogni costo. E la fiumana, sebbene i contadini scuotessero la testa, inondò anche i cuori più freddi: così la guerra giunse infine a mietere le sue vittime fra i figli delle contrade.
Dopo il conflitto accadde anche di peggio, con la marea dei rossi che spargevano ovunque le loro idee contrarie alla religione e quella dei neri che con le loro violenze andavano ad assaltare le sedi dei rossi. Dopo tante violenze l’ordine ritornò, ma fu ordine senza pace finché un’altra guerra, più brutta e terribile della prima, avrebbe spazzato il vecchio mondo e portato via quanto restava dell’anima antica del paese.

Luciano e Pietro crebbero nella contrada Piana, una delle più distanti dal centro del paese. Gemelli, erano nati il giorno della prima messa di don Pietro Gecchele, pure originario di quella contrada, il 22 maggio 1921. Il paese, elevato a parrocchia da pochi mesi, era bardato a festa come pochi ricordavano, giacché la festa per il nuovo sacerdote andava sovrapponendosi con il sesto anniversario dell’entrata del Regno nella guerra vittoriosa per la civiltà. Queste le parole che il cav. Bellomo, sindaco per il partito popolare, aveva volute nel pubblico proclama. I lavori preparatori erano dunque stati solenni, benché il parrocco, don Alessio Bertacche, avesse fatto notare al primo cittadino in via confidenziale che non era bene confondere la festa del regno della terra con quella che la Chiesa celebrava per un suo figlio consacrato alla gloria dei cieli. Tutto si svolse comunque nel migliore dei modi e don Gecchele si commosse nel momento in cui, con la banda che suonava e le campane che accompagnavano a festa, egli fu chiamato a gettare, secondo la consuetudine, la prima manciata di terra sulle radici del cipresso. Nessuno tuttavia se ne accorse, dal momento che il giovane sacerdote seppe dissimulare la commozione fingendo che un granello di terra gli fosse entrato nell’occhio; allo stesso modo, grazie ai rintocchi delle campane e agli squilli della banda, nessuno sentì che a poche centinaia di metri la Rosina, moglie del Matìo detto Dei covoli, urlava per le doglie del parto. Grande fu la sorpresa dei presenti, dalla levatrice al marito, rimasto fuori a tormentarsi il cappello, nel vedere che due erano i bambini venuti alla luce. La Rosina aveva preparato il nome per il solo Luciano, per rinnovare quello del suocero; ma dal momento che le creature che il Signore le aveva dato erano due, da donna devota qual era, il secondo lo volle chiamare col nome di don Pietro. Chissà che non le portasse bene, che era suo desiderio profondo avere anche lei un giorno un figlio consacrato al Signore.
Il parroco don Alessio Bertacche venne il giorno seguente a battezzare i fanciulli, i quali, benché magri, apparivano di colorito roseo e di sana costituzione. Disse poi alla Rosina che aveva fatto bene a dare il nome di un sacerdote novello, che il Signore si sarebbe di certo ricordato di lei e del suo gesto di carità.

Quando i bambini cominciarono a muovere i primi passi, la madre li conduceva sovente al cipresso piantato per la prima Messa di don Gecchele. Raccontando la storia della tradizione di piantare quei tronchi pii e ricordando ai fanciulli il giorno in cui erano venuti al mondo, sperava di far nascere in uno di essi quel sentimento che è premessa, diceva don Alessio dal pulpito, alla chiamata del Signore. I bambini annuivano e poi si inginocchiavano per dire la preghiera a mani giunte. Fra loro si dicevano che erano come due metà della stessa persona e che il cipresso, venuto al mondo con loro, era un fratello silenzioso anche lui.
Passarono gli anni, Luciano e Pietro crescevano belli e tanto simili l’uno all’altro che per riconoscerli la Rosina aveva cucito una fascetta verde da legare al braccio del primo e una bleu per il secondo. Ma quando entrarono nella giovinezza e cominciarono a frequentare le compagnie di coetanei, i fratelli scherzavano sul fatto che più di una volta si erano scambiati la fascia per fare uno scherzo alla madre. Ridendo dicevano che nemmeno loro sapevano chi erano, ma tanto poco importava giacché erano uguali e che quanto a forza e intelligenza uno valeva l’altro.
Altre volte si rincorrevano per la strada, scambiandosi, fra allegri richiami, il nome e quando arrivavano al cipresso di don Gecchele, chiamavano anche lui dicendo che era per loro un terzo gemello. Se la Rosina a volte li rimproverava per quegli scherzi e perché c’era, diceva, da diventare matti con quei figli che si prendevano gioco di tutto, tanto si somigliavano come due grani di sorgo, il vecchio Matìo scuoteva la testa e diceva di lasciarli fare, purché crescessero sani e robusti per dare braccia in casa.
Allora non potevano sapere che di lì a pochi anni il destino avrebbe pensato a distinguerli nel modo più atroce. Fu durante la mietitura del Trentanove, l’ultima del mondo in pace prima della grande burrasca che avrebbe tempestato il mondo. Nessuno fra i presenti seppe mai dire come quella cinghia si fosse impigliata o come mai Pietro si fosse tanto avvicinato alla testa della trebbiatrice, fatto sta che in un attimo la macchina gli aveva divorato la mano sinistra fin quasi a metà del braccio. Lo salvarono per miracolo, giacché quel giorno al paese era presente il dottor Cinquetti, venuto a visitare il vecchio maestro Andrian Del Maso, colpito da spasmi, e prestò le prime cure conducendo in automobile il ferito all’ospedale. Là Pietro fu operato d’urgenza da un professore che aveva fama di luminare in chirurgia, avendo imparando il mestiere sui campi della guerra. E in effetti lo sottrasse alla morte, ma disse che nulla si poteva fare per salvare la mano al ragazzo. Conclusa la convalescenza di sei mesi Pietro si ritrovò menomato. Il professore però non demordeva: disse che la scienza faceva miracoli e che c’erano delle protesi in grado di riprodurre in tutto e per tutto i movimenti di una mano fatta di ossa e di carne. Pietro prima di accettare volle parlare con suo fratello. Si parlarono e solo allora l’infortunato accettò di indossare la mano meccanica. Quando ritornò al paese, i malevoli, che dappertutto ci sono, presero a chiamarlo Pietro Manina. Ma lo facevano di nascosto, che Luciano al solo sentire da distante quel nomignolo andava in bestia e una volta poco mancò che rompesse la faccia ad un coscritto che aveva voluto fare dell’ironia sul conto di Pietro.
Ma i mesi scorrevano rapidi e il mondo allora sembrava impazzito di nuova strage. La bufera scoppiò in Polonia ma in breve, come un incendio che dà fuoco prima alla stalla, poi al fienile e poi, inarrestabile, arriva a divorare le case attorno finché l’intera contrada brucia, si diffuse nei paesi, invocata a gran voce dai capi che comandavano nelle città del mondo. Così dopo l’oro, il rame e il ferro le famiglie si trovarono a donare i figli. Ma a differenza dell’altra guerra, nessuno, nemmeno chi partì per primo, lasciò il paese cantando. L’aria era pesante e la domenica le madri, andando in chiesa, voltavano la testa perché lo sguardo non cadesse sul monumento ai caduti. Al termine delle funzioni accendevano i ceri all’altare della Madonna del Carmine, a domandare la salvezza per i figliuoli o i mariti lontani.
Pietro, ormai menomato, fu scartato alla visita di leva e quando Luciano fu costretto ad indossare le giberne non riuscì ad accettare di veder partire il fratello. Avevano condiviso tutto da quando erano nati. Persino una volta, per scherzo, prima dell’incidente si erano scambiati le morose. Nessuna delle due si era accorta e avevano passato la serata passeggiando a braccetto e dicendosi le frasi d’amore.
Rimase a casa, ad aiutare, come poteva, il padre nei campi e a consolare la madre che per Luciano non si dava pace.

Dicono che fu nell’estate del quarantuno che Pietro fece il voto che poi lo portò alla pazzia: Luciano gli mancava sopra ogni cosa; persino alla morosa aveva detto che era meglio non vedersi fino a quando suo fratello non fosse ritornato dal fronte: non era giusto - disse - che lui a casa si godesse la vita mentre l’altra sua metà era in guerra a rischiare la pelle. La ragazza, che era di buon cuore, aveva capito e benché addolorata aveva rispettato la sua volontà. Ma questo a Pietro non bastava. Così un giorno si recò al cipresso davanti al quale tante volte aveva pregato col fratello e giurò che si sarebbe fatto frate il giorno in cui Luciano sarebbe ritornato dalla guerra. In ginocchio, giurò fra le lacrime e poi si fece tre volte il segno della croce per rendere più solenne il voto.
Chi mai fra i poveri diavoli che siamo può scrutare i pensieri di Colui che tutto governa? Certo, nessuno può indovinare le vie stabilite lassù, ma allora, perché l’uomo tanto pena senza capire? Forse è lecito pensare che non ci sia spiegazione alla sofferenza dei poveri che stanno quaggiù e tribolano e soffrono e muoiono per le parole vuote di chi sempre la guerra la vuole ma a farla poi manda gli altri?

Luciano non tornò mai dalla guerra verso cui era partito. Artigliere alpino della Julia, sopravvisse alle montagne dell’Albania per finire poi inghiottito dall’immensa steppa ucraina. Da laggiù scriveva alla famiglia e a Pietro cartoline piene di speranza per l’avvenire, e intanto chiedeva della semina, del raccolto, della vendemmia e del prezzo del fieno al quintale. A Pietro mandava i saluti e fra le righe, perché la censura non capisse, gli faceva capire che in fondo era meglio che la guerra fosse andato solo lui a farla. E scherzava dicendo che c’era tanta neve in Russia da fare settimane di villeggiatura per i ricchi della città. L’ultima cartolina giunse al paese datata 4 gennaio 1943. Poi fu il silenzio.

Pietro dal giorno dell’ultima cartolina non si dette pace. Nessuna notizia, nessuna parola, niente. La Rosina sentiva e pure taceva: lo vedeva cambiato, era come se qualcosa si fosse rotto dentro di lui. Divenne taciturno e schivava la compagnia. Lavorava nei campi con foga, per quanto la mano menomata gli consentiva, ma appena poteva se ne andava da tutti. Sovente correva al cipresso in fondo alla strada, vi girava intorno, si sedeva ai suoi piedi; qualcuno disse che ci parlava addirittura. Passò un altro anno, in paese arrivarono i tedeschi, e i fascisti rimasti si toglievano il cappello quando passavano le vetture in grigioverde degli alleati; inviperiti, davano la caccia nei casolari ai renitenti e ai figli delle contrade che erano passati con i partigiani. Pietro ormai pareva lontano da tutto questo: si guardava intorno e non capiva. Passava giornate intere ai piedi del suo cipresso, come aveva preso a chiamarlo. In paese si diceva che ormai la crepa che aveva dentro faceva da timone alla sua vita. Eppure una sera sul finire di maggio accettò senza titubanze la proposta del Rosso, che si diceva fosse il capo dei partigiani della zona, quando questi gli domandò di diventare portaordini.  Forse vide l’occasione per fare anche lui la sua guerra, forse lo convinsero i racconti di chi dalla Russia era tornato raccontando che i tedeschi urlavano contro gli italiani peggio che con le bestie da macello e che quando era arrivato l’ordine della ritirata li avevano abbandonati nella steppa sparando a chi tentava di salire sui loro autocarri. Nell’inverno del quarantaquattro il Pietro fece la spola innumerevoli volte fra le cascine della campagna, consegnando biglietti in codice che erano in realtà gli ordini alle pattuglie. Dai biglietti passò alle provviste, dalle provviste agli esplosivi e alle armi. Come nome di battaglia scelse di chiamarsi Luciano. Gli altri capirono e dissero che era il nome più bello che potesse scegliere.
Fu al ritorno da una di queste missioni che lo presero i fascisti. Addosso Pietro non aveva niente, ma tornava in pieno febbraio dai campi e a nulla valse la scusa della zia malata che gli avevano suggerito. Chi aveva fatto la spia disse che non aveva zie malate da andare a trovare. E così lo pestarono a sangue e lo buttarono in carcere, in città. Solo una volta finita la guerra vennero fuori i racconti di chi era stato arrestato, dissero delle torture e di tutto quello che i fascisti avevano fatto nelle carceri ai prigionieri. Molti avevano ceduto, ma Pietro-Luciano no, non aveva parlato. Lo liberarono i partigiani quando la città insorse e lo proposero a Roma per una medaglia. Ma a Pietro della medaglia non importava proprio niente. Con la cattura, le botte e il carcere, la crepa che aveva dentro si era allargata. Cominciò a non dormire più a casa la notte: vagava per i campi come una bestia che ha perduto l’orientamento e solo accanto al suo cipresso ritrovava la pace. Smise quasi del tutto di parlare: ripeteva soltanto il nome di Luciano e metteva insieme frasi sconnesse e senza senso. Diceva anche del voto, che doveva farsi frate. Quando? Presto, il tempo che tornasse Luciano dai campi e sarebbe partito. Ma le stagioni scorrevano e Luciano dai campi non tornava mai.
Passarono altri anni, il paese cambiò volto. Accanto alle case ora sorgevano le fabbriche, le distese di frumento cedevano il passo ai capannoni. La gente pareva diventata matta per il cemento: scansava la terra, la schifava. I giovani inseguivano il lavoro nelle fabbriche, ché là dentro davano soldi veri a fine mese e non bestemmie e vita da cani come in campagna.
E poi anche la famiglia di Pietro in parte si rinnovò in parte si disperse: fratelli e sorelle si sposarono e andarono altrove, i vecchi morivano. Il primo ad andarsene fu il Matìo, nel Sessantotto, per un colpo apoplettico, la Rosina invece resistette ancora lunghi anni. Diceva che non poteva morire in pace, con un figlio disperso in Russia e uno disperso a casa. Fece costruire una piccola tettoia accanto al cipresso in fondo alla strada e passava le giornate con Pietro in silenzio, lui ad inseguire i suoi pensieri e lei a lavorare ai ferri o a recitare sottovoce un rosario per i suoi figli perduti.
Ricordo che feci in tempo a conoscerla, ingobbita per il peso degli anni e quasi cieca. Se ne andò una mattina di maggio dell’Ottanta, mentre il mondo galoppava verso il progresso e ormai di quella guerra lontana quasi nessuno aveva voglia di ricordarsi. Pietro Manina invece fu uno dei personaggi della mia infanzia. Silenzioso, sempre seduto sotto la tettoia, la protesi appoggiata stancamente sulla gamba, ci guardava sfrecciare in bicicletta accanto al suo cipresso e le rare volte in cui accettava il saluto mio e dei miei amici non perdeva occasione per dirci che stava per partire. Sarebbe presto andato frate. E quando noi, con la malizia dei bambini, insistevamo e gli chiedevamo quanto presto lui alzava le spalle. Poi, gettata un’occhiata al cipresso, rispondeva:
- Presto, non appena torna Luciano dai campi.

Ora che tanto tempo è passato e anche Pietro non c’è più ripensare a quegli anni lontani mi reca la nostalgia che è propria di chi ha perduto qualcosa di caro. Vecchi che raccontano storie non ce ne sono più ormai, e nessuno più in paese pianta cipressi. Col dopoguerra e il calo dei preti, accanto al mondo di ieri, è scomparsa anche questa pratica: degli alberi piantati alcuni sono morti, schiantati dai temporali o stecchiti dal sole di queste estati sempre più calde, altri, quelli posti davanti alla chiesa, sono stati abbattuti quando il Comune ha deciso la riqualificazione urbanistica della piazza. Solo il cipresso di Pietro e di Luciano è ancora là. L’ultimo. È crollata la tettoia, il tempo ha lavato la memoria e forse domani qualcuno, in qualche ufficio di Roma o di Venezia, stabilirà che sul terreno in cui sorge l’albero piantato tanti anni fa per don Gecchele dovrà passare un’autostrada. Allora anche il quel cipresso, il cipresso di don Gecchele e di Pietro Manina, sarà abbattuto.
Per ora è là. Resiste. Una sera di queste magari porterò i miei figli a vederlo da vicino e racconterò loro la storia che ormai nessuno sa più. Poi diremo insieme un’Avemaria. Infine, accompagnati dal chiarore di queste sere di maggio, cammineremo per mano fino a casa.




domenica 13 ottobre 2019

Fontane perdute, fontane ritrovate


Pubblico di seguito un breve articolo uscito sul fascicolo della Sagra di S. Eurosia di S. Urbano.


«Il primo che venne ad abitare quassù pare sia stato un certo Biasio Massignan, il quale proveniente da Marsiglia, dapprima si fermò a Novale di Valdagno, pascolando le pecore, dipoi passò a S. Urbano, dove, trovata l’acqua necessaria per il bestiame, pose sede». Così Agostino Agosti descriveva, all’inizio del Novecento, le origini dell’abitato di S. Urbano nel suo Memorie storiche di Montecchio Maggiore (Arzignano, Tip. Dal Molin 1909). Se oggi gli studi storici e le scoperte archeologiche hanno posto ben più indietro nel tempo i primi insediamenti di quello che sarebbe in seguito divenuto S. Urbano, su un dato l’Agosti aveva ragione: quell’acqua che il pastore Biasio trovò per le sue pecore è da sempre una ricchezza che ha consentito la vita sui nostri colli, favorendo la pratica dell’agricoltura e lo sviluppo delle contrade.

Oggi che le memorie vanno svanendo, soffocate dalla fretta, dalla distrazione e dagli interessi economici per essere spesso sostituite da storie che poco hanno a che vedere con la civiltà contadina, a testimoniare il rapporto antico fra uomo e acqua restano le nostre fontane, ben tre quelle dell’abitato principale – la fontana del prete, del prà de Bepo, del Lavello – e quelle sparse per le contrade del colle e della pianura. Così l’escursionista domenicale che, partendo dal centro del paese, voglia raggiungere i Bernuffi costeggiando l’antico confine fra Montecchio e Sovizzo sul monte Sarolo percorre appunto il sentiero “delle fontane”; e qualora volesse proseguire altre ne troverebbe, tanto proseguendo verso i Bernuffi quanto scendendo verso la Valbona lungo l’antica Strada degli asini, ripulita, come altri sentieri, dal “Gruppo trodi M. Pellizzari”.

E qui giova riflettere un istante sui toponimi. Valbona, la valle buona, la valle dai campi fertili, è nome che rivela ancora una volta l’importanza dell’acqua per la vita nel nostro territorio, nome attestato, per quanto sappiamo, sin dal 1206. Da un documento conservato presso l’archivio diocesano si apprende infatti che l'allora titolare della Chiesa di Vicenza, il vescovo Uberto, al fine estinguere un cospicuo debito in cui versava l’episcopato, ottenne dal patriarca di Aquileia, suo superiore, di vendere ai canonici della cattedrale alcune proprietà vescovili, tra cui un feudo che, comprendendo i territori di Montemezzo, Monteviale e Gambugliano, proseguiva attraverso la valle e i colli «sino alla Valle Bona […] e dalla stessa Valle Bona risalendo per il Turrino sino a Bocca delle Mole» (A. Morsoletto, Signori e popolo nelle prime valli del Retrone nell’Età di Mezzo, in Sovizzo e le sue genti. Storia di un villaggio rurale alle sorgenti del Retrone, a cura di A. Dani, Edizione del Comune di Sovizzo 1994). Altro nome per la contrada, tramandato dalle memorie orali, è Valbruna, probabilmente dall’antico germanico *Brunno, cioè “sorgente” (Luciano Chilese, Toponomastica di Montecchio Maggiore, Francisci Editore, 1988). La valle buona, la valle della sorgente. Ecco cos’era la Valbona, prima che l’acqua si accompagnasse negli ultimi anni al pensiero dell’inquinamento, delle falde compromesse, dei PFAS…

La fontana perduta...
Giunto infine in Valbona, il nostro escursionista potrebbe oggi godere di una piacevole scoperta e, al contempo, soffrire la scomparsa di un altro capitolo della nostra storia. Due erano infatti le fontane di Valbona conosciute: due almeno fino allo scorso anno. Di una, più in alto, si erano in realtà da tempo perse le tracce, dal momento che un canneto, cresciuto fin troppo rigoglioso, aveva soffocato l’antico sito; l’altra era invece visibile dalla strada che conduceva alla contrada, seppur negli ultimi tempi coperta dall’erba alta e da qualche russa spuntata attorno. A pochi passi da quest’ultimo manufatto sorgeva la lapide, oggi spostata sull’altro lato della carreggiata, che ricorda Marziano Salvato e Sereno Patalfi, caduti il 26 aprile 1945 combattendo per la libertà contro il nazifascismo. La fontana era lì. Era, appunto, fino al 26 aprile 2018. Triste ironia della sorte, settantatré anni dopo lo scontro che portò alla morte i due giovani la fontana è stata distrutta dal sopravanzante cantiere della Superstrada (a pagamento) Pedemontana Veneta. Quasi nessuno se n’è accorto, a parte gli abitanti della contrada, che su quella fontana avevano costruito la loro storia, e qualche altro, appassionato o non del tutto distratto dal rumore di un mondo troppo preso da altro che dalle tracce di un passato ormai lontano. E pensare a quante fatiche, quanto lavoro, quante storie di vita si sono accumulate fra quei sassi, fra quel lento silenzioso scorrere di acque…

... e la fontana ritrovata
E tuttavia non vogliamo lasciarci con il pensiero di ciò che non è più, perché, come dicevamo, in quelle stesse settimane è stata riportata alla luce da alcuni volontari la fontana più alta della contrada. La struttura è quella tipica delle fonti del nostro territorio: un piano superiore per raccogliere l’acqua e un lavatoio inferiore, realizzato nel Novecento, a sfruttarne il corso per consentire il lavaggio dei panni. Attualmente l’acqua non scorre, ma un piccolo intervento alla conduttura – ha commentato un paesano del posto – la potrebbe senza troppa fatica far rivivere. Ci affidiamo a questa speranza, perché anche l’acqua, come le memorie della nostra terra, torni a scorrere. E magari, scorrendo, possa far riflettere l’escursionista domenicale, e noi con lui, su un mondo che non è più ma che avrebbe, forse, ancora qualcosa da insegnare.






venerdì 4 ottobre 2019

Articolo "Fuga da Lipari"

Lipari, sabato 27 luglio 1929. La sera sta calando sull’isoletta siciliana divenuta la principale colonia di confino del regime fascista. All’imboccatura del porto alcuni carabinieri di guardia notano un motoscafo. Non danno tuttavia l’allarme: si tratta di certo di uno dei mezzi del servizio di sorveglianza, magari preso in prestito da qualche papavero dell’isola per un giretto serale in dolce compagnia.

Il motoscafo ha il motore spento. A bordo, però, nessun gerarca, niente militi o carabinieri. Tre antifascisti: il capitano Italo Oxilia, già responsabile della fuga di Filippo Turati in Francia nel 1926 al timone, ai motori Paul Vonin e a prua, a scrutare l’orizzonte, Gioacchino Dolci, ex confinato proprio a Lipari. I minuti passano. Interminabili...


Cari amici lettori,
sul sito www.laletteraturaenoi.it da oggi trovate un mio articolo (di cui sopra ho proposto l'incipit) in merito all'incredibile fuga di Emilio Lussu, Fausto Nitti e Carlo Rosselli dal carcere a cielo aperto di Lipari avvenuta sabato 27 luglio 1929. 

Una versione più ampia dell'articolo si può invece trovare sull'ultimo numero della rivista Quaderni Vicentini, reperibile nelle migliori edicole e librerie della provincia di Vicenza. 


lunedì 1 luglio 2019

"L'isola del labirinto" in uscita a settembre 2019


Care lettrici e cari lettori,
annuncio con gioia che da settembre sarà disponibile, per i tipi di Raffaello Editrice, la mia ultima fatica: L'isola del labirinto. La storia è ambientata a Creta nel corso della seconda fase della civiltà minoica (1500 ca a. C.) e ha come protagonista Maia, una bambina che, seguendo il nonno pittore, si reca a Cnosso per decorare il celebre palazzo. Proprio in concomitanza con l'arrivo dei due, però, ha inizio una serie di furti che metterà a dura prova gli abitanti di Cnosso. Fra coloro che indagano ci sarà anche Maia: avrà inizio così una serie di incontri e scoperte, fino ad un incontro un po'... particolare!
Estote paratae/i!





domenica 9 giugno 2019

Commemorazione dei Sette martiri di Grancona - 9 giugno 2019

Cari amici,
condivido di seguito il testo del mio intervento questa mattina a Grancona.



Commemorazione dei sette martiri di Grancona
9 giugno 2019


Un saluto cordiale ai rappresentanti delle Istituzioni, al sindaco di Val Liona e agli amici di Prato e di Pessano con Bornago in particolare, alle rappresentanze delle associazioni partigiane e combattentistiche, alle cittadine e ai cittadini presenti. Con emozione e con senso di responsabilità prendo la parola per commemorare con voi i sette martiri di Grancona.
Commemorare – letteralmente fare memoria assieme – è parola e pratica antica, profondamente umana, eppure, al contempo, è un’azione che proietta l’uomo oltre la finitezza della sua natura di singolo, in una dimensione di comunità e di continuità fra le generazioni, oltre il luogo e il tempo.
Oggi, dunque, siamo a fare memoria, di un evento tragico, ma soprattutto, di sette giovani, i “sette martiri” di Grancona, morti per la violenza nazifascista la sera dell’8 giugno 1944. Anche ‘martire’, che in origine, nell’antica Grecia, significava ‘testimone’, è parola antica. Entrata nella nostra lingua con il cristianesimo, ad identificare il fedele che, consapevole di perdere la vita, non accetta tuttavia di rinnegare la propria fede divenendo perciò testimone per gli altri di ciò in cui crede, la parola ha abbracciato l’ambito politico e civile, definendo la condizione di chi lotta fino alla vita per un ideale. E nella nostra provincia vicentina quanti sono i martiri della libertà nella lotta al nazifascismo!
Ripetiamo allora ancora una volta i nomi dei “sette martiri” di Grancona: Raffaele Bertesina, classe 1917, sposato e padre di una bambina; Silvio Bertoldo, classe 1920; Attilio Mattiello, classe 1920; Guerrino Rossi, classe 1919; Ermenegildo Sartori, classe 1918; Mario Spoladore, classe 1922; Ernesto Zanellato, classe 1917.
Figli di queste valli, operai, artigiani o contadini, andarono ignari incontro alla morte in questo luogo di preghiera e di devozione immerso nella natura, che tutto ci sembra rivelare fuorché inganno, violenza, orrore e morte.
Come ha raccontato il compianto Giuseppe Sartori, fratello di Ermenegildo, scampato quasi per caso all’eccidio, e come appurato dalle ricerche, i sette caddero per mano di un gruppo di sedicenti partigiani, in realtà militi della Repubblica Sociale Italiana, nel tentativo, operato dai fascisti, di sgominare i primi nuclei di Resistenza operanti nei colli Berici a partire dalla primavera del 1944.
Il movimento partigiano è in questo periodo in fase di strutturazione. I fascisti, subdolamente, tendono la loro trappola; stabiliscono la riunione coi giovani del luogo – una trentina in tutto – per la sera dell'8 giugno, festa del Corpus Domini: hanno promesso armi, equipaggiamenti e il trasferimento dei giovani dei Berici sulle montagne vicentine, dove già operano le formazioni partigiane.
Poche ore prima dell’agguato, però, si diffonde la voce che si tratti di una trappola. Un civile, Alberto Peruffo “Usche”, ascolta per caso in treno la conversazione di un gruppo di fascisti che si vantano per quello che stanno per compiere; sceso, corre in paese ad avvertire che si tratta di un tranello, ma ci riesce solo in parte. Saranno in sette a presentarsi: i nostri sette martiri. Caduti nella trappola, dapprima sono costretti a giurare la loro fede partigiana, poi, all’interno dell’oratorio, vengono torturati per oltre un’ora. Infine, alle 23 circa, sono trascinati oltre la strada, dove vengono finiti a raffiche di mitra. Fra essi resta vivo Silvio Bertoldo, che, trasportato all’ospedale di Montecchio Maggiore, morirà il giorno seguente.
La notizia dell’accaduto si sparge in un baleno: accorrono i famigliari, i parenti, gli amici. Il dolore è indicibile e ad esso si aggiunge la paura di nuove rappresaglie. Questo accadeva settantacinque anni fa.

Ma oggi che cosa ci dicono queste sette vite troncate? Qual è il significato del nostro fare memoria? Torniamo per un momento a riflettere su chi erano i sette martiri. A differenza dei loro aguzzini fascisti, inquadrati in compagnie e battaglioni della morte, che sfoggiavano orgogliosamente teschi, pugnali e altri simboli di violenza, i sette erano giovani con la vita nel cuore, desiderosi di vivere in pace, senza più guerre o dittature. Questo li aveva portati, dopo l’8 settembre, prima a nascondersi ai bandi di arruolamento della Repubblica Sociale e poi ad organizzarsi per dare il loro contributo alla causa della libertà. Insieme avevano eletto il più esperto fra loro di questioni militari, Raffaele Bertesina, ex combattente nei Balcani, quale comandante della nascente formazione. Nessuno di loro aveva compiuto studi di alto livello, nessuno di loro aveva mai vissuto una vita in democrazia, erano cresciuti tutti sotto il pensiero unico fascista, quel “credere, obbedire e combattere” che aveva imposto per vent’anni il culto del capo, della volontà ferrea, del nazionalismo esasperato, del militarismo, della violenza.
Per questo, ogni volta che rifletto sulla scelta di chi, dopo l’8 settembre 1943, scelse di stare dalla parte giusta, quella della libertà, non riesco a non stupirmi. C’era stata la guerra, è vero, ad aprire gli occhi agli italiani sulla vera natura del fascismo, una guerra che, come ebbe a dire Mario Rigoni Stern, era sempre «di aggressione» e di «offesa agli altri» e prima, durante la dittatura, c’erano stati tanti piccoli gesti di resistenza; c’era nel vicentino l’opera di un vescovo., Mons. Rodolfi, che in più occasioni aveva apertamente osteggiato il regime. E tuttavia ciò non è sufficiente a spiegare la scelta del tutto controcorrente di questi giovani.
Questo dovrebbe dirci molto oggi, in cui sentiamo sempre più spesso riaffiorare urla e slogan che pretendono di collocare alcuni “prima di altri”: “prima gli Stati Uniti” si urla oltre oceano, “prima i polacchi” urlava un gruppo di nazionalisti davanti ai cancelli di Auschwitz lo scorso 27 gennaio, dimenticando che furono decine e decine di migliaia i polacchi che persero la vita all’interno del campo. Anche in Italia questo slogan risuona sempre più spesso: ma cosa significa esso alla fine, se non “prima io”? Prima i miei diritti, i miei interessi, dopo gli altri!
Cosa direbbero i sette martiri a sentirci ripetere queste parole oggi? Loro che decisero di rischiare la vita per salvare, assieme alla propria, quella degli altri, cosa risponderebbero?
Dicevo all’inizio che il commemorare proietta l’uomo oltre la finitezza della sua natura di singolo, in una dimensione di comunità e di continuità fra le generazioni, oltre il luogo e il tempo. È questo allora il senso profondo del nostro ritrovarci oggi. Perché, consapevoli di cosa è stato, della scelta dei sette martiri, all’oggi deve essere rivolto il nostro sguardo.
Il nazifascismo è stato sconfitto militarmente nel 1945, lo sappiamo; ma i semi dell’odio, dell’intolleranza, del nazionalismo, del razzismo, di chi pretende di creare e fomentare le disuguaglianze fra i cittadini sono purtroppo sempre presenti e oggi, complici l’insicurezza e la paura, reali o percepite, la crisi economica, la globalizzazione, trovano terreno in cui attecchire. Scriveva Primo Levi nel 1986:

«La violenza […] è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato […]. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non sostenute da buone ragioni».

Possiamo chiederci come fare ad «affinare i nostri sensi», per onorare davvero i combattenti della libertà. Non ci sono risposte univoche ma, credo, un modo è proprio quello di ritrovarci insieme per fare memoria, visitando i luoghi della Resistenza, portando, come fa l’ANPI di Grancona, i ragazzi e i giovani in questo e in altri luoghi che conservano la nostra storia, il cammino segnato di sofferenze e lutti che ci ha condotto alla libertà e alla pace, alla Repubblica e alla Costituzione.
Un secondo modo è quello di tornare, anche attraverso i luoghi, a studiare la storia, a non fermarci al sentito dire, ad approfondire le questioni. Più si allontana da noi il tempo dei fatti, più si assottigliano i testimoni diretti e più abbiamo la necessità, come cittadini e come uomini, di tornare a comprendere, attraverso lo studio, quanto avvenuto nel secolo da poco concluso.  Sono rimasto colpito da un episodio accadutomi pochi mesi fa, al termine di una lezione sulla Shoah ad un gruppo di adulti. Un signore anziano mi ha atteso al termine dell’incontro chiedendomi informazioni sul fascismo, dicendo: “Sa, io ho vissuto la dittatura, ero balilla, ma a parte le sfilate e la paura dei bombardamenti mi ricordo poco. Ora mi dicono alla televisione che il fascismo ha fatto anche tante cose buone”.
A questo siamo giunti! Non solo si tenta di parificare chi combatteva per perpetuare la dittatura con chi rischiava la vita per la libertà, ma, complice l’ignoranza di politici e pubblici intrattenitori, si diffondono errori, inesattezze, confusione quando non, addirittura, falsità e discredito. Studiare, dunque, senza timore, anche riportando alla luce errori che possono essere stati commessi da singoli partigiani o in singoli fatti. Perché nessun singolo episodio potrà mai confondere una verità inequivocabile: che da una parte si combatteva per un ideale umano, di libertà, di giustizia, di democrazia, di solidarietà e di pace; dall’altra si voleva perpetuare un mondo fondato sulla disuguaglianza, sulla violenza, sull’odio e sull’eliminazione dell’avversario o, semplicemente, del diverso, di chi, come ha ribadito più volte la senatrice a vita Liliana Segre, aveva come unica colpa quella di essere nato.
Il fascismo, ispiratore del nazismo, non fu affatto un regime bonario, fu una dittatura e, prima ancora, un movimento politico basato sulla violenza come arma per imporsi sugli avversari. 
Scriveva nel 1954 il padre costituente Piero Calamandrei:

«Ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è […] il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo, l’umiliazione brutale, ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa. […] Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti ai sovversivi o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. […] Il ventennio fascista – conclude Calamandrei – non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile».

Dobbiamo pertanto ripartire da qui, tornando a studiare la storia del fascismo e, soprattutto, di chi, come i sette martiri, vi si oppose. E solo nel vicentino quanti esempi! Le loro storie devono diventare le nostre storie, quelle dei ragazzi e dei giovani, i quali, come disse il grande presidente Sandro Pertini, «non hanno bisogno di sermoni, […] hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo».
Dalla Resistenza al nazifascismo sono nel dopoguerra nati frutti preziosi, che ci hanno dato settantaquattro anni di pace: la Repubblica, la Costituzione, che, frutto di tutti i partiti che avevano lottato contro il nazifascismo, è profondamente antifascista; ma anche, a livello europeo, l’idea di un continente unito, in pace. Oggi più che mai studiare, approfondire è dunque necessario se vogliamo tornare all’idea che sta alla base dell’Italia e dell’Europa.
Mi sembra di scorgere, infine, un ultimo modo di onorare con la nostra vita quotidiana il gesto di quanti, come i sette martiri, diedero la vita per la nostra libertà: tornando, cioè, al senso della misura, soppesando i gesti quotidiani e soprattutto le parole. Spesso dimentichiamo che i totalitarismi del Novecento si imposero anche, se non soprattutto, attraverso la parola: agivano sulle parole, censurando quelle proibite e sovente violentando il significato di quelle concesse. Tutti ricorderemo che l’eliminazione degli ebrei non veniva chiamata col suo nome dai nazifascisti, ma indicata sotto la generica, vaga espressione di «Soluzione finale». E così per parole come ‘onore’, patria’, ‘fede’, ‘libertà’, infangate e snaturate dal nazifascismo.
Oggi vediamo riaffiorare nazionalismi, intolleranza, odio anche attraverso parole che incitano allo scontro continuo, attraverso un’ironia che non fa ridere ma vuole offendere e denigrare, attraverso gesti ed espressioni che ci ricordano tempi bui che non vogliamo far ritornare.

«Va ricordato che, in ogni ambito, libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate fra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo»

ha ribadito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo scorso 2 giugno. Alle sue parole, monito per l’oggi, vorrei associare le parole di una celebre canzone scritta da Italo Calvino, partigiano in Piemonte. Essa ci rivela tutta la speranza che animava i nostri partigiani, uomini e donne:

Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevamo l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore. […]
La speranza era nostra compagna
ad assaltar caposaldi nemici
conquistandoci l'armi in battaglia
scalzi e laceri eppure felici.

Raffaele, Silvio, Attilio, Guerrino, Ermenegildo, Mario, Ernesto e con loro tutti i partigiani e le partigiane, i patrioti e le patriote volevano una vita in pace, un mondo bello, felice, inclusivo e accogliente, e combattevano perché nessuno dovesse più riprendere in mano le armi, per donare la libertà a se stessi e a noi. Ricordiamocene e onoriamoli oggi e ogni giorno, con la nostra vita, i nostri gesti, le nostre scelte.
Viva l’Italia libera, Viva la Costituzione, Viva La Resistenza!

Michele Santuliana



domenica 26 maggio 2019

Incontro a Novale - 20 maggio 2019

Cari amici lettori,
riprendo la parola dopo un lungo silenzio per ringraziare di cuore i bambini e i ragazzi della scuola primaria di Novale (Vi) assieme alle loro bravissime insegnanti. Sono stato loro ospite lunedì scorso, in occasione dell'iniziativa "Valdagno che legge", per presentare L'eco delle battaglie e sono rimasto davvero colpito dall'attenzione e dalla partecipazione delle mie lettrici e dei miei lettori. 
Di seguito condivido alcune foto dell'incontro e del bellissimo lavoro sul libro realizzato dalla 4a A. Grazie di cuore!












domenica 6 gennaio 2019

Giovani e dialetto: un articolo per la rivista "Figure"

Cari amici lettori,
condivido l'incipit di un mio articolo pubblicato per la rivista "Figure". Al link che segue troverete l'articolo completo.

Anno scolastico 2017-2018. Una mattina come tante in un istituto professionale del vicentino. Mentre mi dirigo verso la sala insegnanti, incrocio uno studente di quinta dell’indirizzo meccanico. È un ragazzotto alto, atletico; tatuaggio sul collo, orecchino che penzola all’orecchio sinistro e addosso un maglione aderente che lascia intravedere i muscoli. Lo saluto guardandolo negli occhi e lui risponde prontamente.
- Be’? - gli chiedo poi - come mai non siamo in classe?
Abbozza un sorriso di sfida.
- Son ’ndà in bagno, desso vo in classe.
Io pure rispondo con un sorriso. Poi gli domando:
- Perché mi hai risposto in dialetto?
Lui sostiene il mio sguardo, è sveglio e capisce al volo l’intenzione del prof che ha davanti. E subito mi risponde per le rime.
- Come parché? Parché la zè la me lengua.

Parché la zè la me lengua. Ecco, vorrei partire da qui. Perché è vero: nella mia regione il dialetto è ancora la lingua ufficiale delle comunicazioni quotidiane. I dati dell’ultimo rapporto ISTAT (dicembre 2017) confermano che il Veneto rimane, tra le regioni del nord, quella in cui il dialetto è più utilizzato in famiglia (62%). Ma non solo: il dialetto è fondamentale nelle situazioni più comuni, dal dialogo con il negoziante di quartiere a quello con il benzinaio fino ad arrivare alle ciàcole tra colleghi in sala insegnanti, non solo con i veneti, anche con i foresti.
Qui vorrei però riflettere non sull’uso quotidiano di una categoria indistinta di parlanti, bensì su quello che ne fanno i giovani e sulla loro percezione del dialetto, in particolare i giovani che l’anno scorso, nel mio anno di prova, ho avuto modo di osservare e ascoltare in un istituto professionale dell’ovest vicentino. La risposta del nostro studente dà infatti, a mio avviso, significativi indizi su un fenomeno che coinvolge una parte dei giovani della mia regione.