mercoledì 25 dicembre 2019

Il cipresso di Pietro Manina - racconto

Care lettrici, cari lettori,
come dono natalizio condivido il racconto uscito sull'ultimo numero di Quaderni Vicentini. Buona lettura e Buone Feste!
MS

Il cipresso di Pietro Manina

Fu sul finire del secolo decimonono, sotto la cura d’anime di don Marchesini, che al paese invalse l’abitudine, poi divenuta usanza e infine tradizione, di piantare un cipresso per ogni nuovo prete che la comunità offriva alla Santa Madre Chiesa. Il curato disse dal pulpito che aveva avuto questo suggerimento in sogno: un bambino gli era apparso e con la mano aveva accennato ad un piccolo cipresso sopra un colle. “Per grazia ricevuta”, aveva detto il piccolo prima di svanire, improvviso e misterioso com’era apparso. La domenica in cui il curato raccontò il sogno era un giorno di maggio particolarmente luminoso e bello che a lungo le genti delle contrade avrebbero tramandato nei racconti, al pari di quello, due settimane più tardi, in cui cantò la sua prima Messa al paese il giovane Tarcisio Bertola, partito undici anni prima per il collegio dei Salesiani di C*** e ritornato lustro nella sua talare nera, col tricorno calcato sulla fronte ampia e la cotta lavorata dalle suore di un convento della città che pareva ricamata dalle mani di un Serafino, tanto era prezioso il punto. Il cipresso allora fu piantato al margine della piazza, a pochi passi dalla chiesa, ché l’albero - aveva detto don Marchesini - doveva vedersi bene e spingere a devozione e preghiera la comunità, giacché erano sedici anni che al paese non cantava Messa un nuovo prete.
Il cipressetto, in apparenza alquanto gracile, venne posto con solenne cerimonia dopo la Messa cantata, e Padre Tarcisio, con quella voce flebile e quel portamento nobile ma insieme semplice e spontaneo che ebbe sempre e che tanto piaceva alle vecchine che affollavano i primi banchi per ascoltare le sue prediche quando, sempre più di rado col procedere degli anni, tornava al paese, Padre Tarcisio, dicevo, spese parole tanto belle per ringraziare don Marchesini di quel gesto che di certo da Lassù ebbero a ricordarsi di esse negli anni a venire perché quel giorno solenne di devozione e di festa inaugurò un periodo florido di vocazioni al paese.
Nel novantanove cantò la sua Prima Messa il giovane Giovanni De Pretto, che fece poi una brillante carriera nella cancelleria vescovile e divenne prima arciprete di una delle più popolose parrocchie della diocesi e poi Monsignore a Roma, voluto da sua santità Pio undecimo in persona per collaborare alla revisione di certe parti del Diritto Canonico, ai tempi del concordato fra lo Stato e la Santa Sede; fu poi la volta di Padre Severino Marangoni, che sentiva sua la vocazione del missionario e che tante chiese avrebbe fondato nell’America del sud, fino a terminare i propri giorni in odore di santità in un uno sperduto villaggio della Patagonia divenuto presto meta di folle di pellegrini.
Poi venne la prima Messa di don Germano Tovo, consacrato nel novecentosei, poi di don Giuseppe Cocco, nel tredici, e infine di don Francesco Borgo, destinato purtroppo a fulgida quanto breve esistenza. Cappellano di un battaglione di bersaglieri nella Grande Guerra, sarebbe caduto nel novecentodiciassette sul fronte della Bainsizza nell’atto di recare gli estremi conforti a due feriti nella battaglia. Fu decorato con medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Intanto però, col nuovo secolo, era venuta meno alla curazia la guida sapiente e ferma di don Marchesini, chiamato a maggiori responsabilità da sua Eccellenza il Vescovo. Dopo i primi cipressi, piantati tutti al margine della piazza per volere del reverendo curato, i suoi successori decisero, forse anche per motivi di spazio, di disseminare gli alberi fra le contrade da cui provenivano i consacrati alla vita sacerdotale.
Fu così che per i tre decenni successivi si videro spuntare tanti cipressi ai crocicchi delle strade quanti erano i nuovi figli che la curazia donava alla Chiesa. Le madri additavano ai figli quelle piante e talvolta le più devote li facevano inginocchiare ai loro piedi. Un’Avemaria, un Gloriapatri, e chissà che il Signore un domani non avesse chiamato alla sua sequela il piccolo che adesso salmodiava col capo chino e le manine giunte al petto.
Ma la strada tortuosa, talora oscura, degli uomini tanto si discosta dalle speranze delle madri! Il nuovo secolo non portò soltanto al paese il benessere delle strade lastricate o quello, invero assai più ambiguo e gravido di rischi per i giovani della via ferrata la quale, attraversando la grande pianura, metteva in comunicazione la campagna con la città e le sue tentazioni, portò anche le idee del nuovo secolo che tanto male avrebbero recato alla nazione. Fu così che sul principiare del quindici vennero gli oratori dalla città a incitare i contadini alla guerra contro i todeschi, che nulla avevano mai fatto ai nostri e che anzi tanta devozione avevano ma che spiacevano ai politici che volevano la guerra ad ogni costo. E la fiumana, sebbene i contadini scuotessero la testa, inondò anche i cuori più freddi: così la guerra giunse infine a mietere le sue vittime fra i figli delle contrade.
Dopo il conflitto accadde anche di peggio, con la marea dei rossi che spargevano ovunque le loro idee contrarie alla religione e quella dei neri che con le loro violenze andavano ad assaltare le sedi dei rossi. Dopo tante violenze l’ordine ritornò, ma fu ordine senza pace finché un’altra guerra, più brutta e terribile della prima, avrebbe spazzato il vecchio mondo e portato via quanto restava dell’anima antica del paese.

Luciano e Pietro crebbero nella contrada Piana, una delle più distanti dal centro del paese. Gemelli, erano nati il giorno della prima messa di don Pietro Gecchele, pure originario di quella contrada, il 22 maggio 1921. Il paese, elevato a parrocchia da pochi mesi, era bardato a festa come pochi ricordavano, giacché la festa per il nuovo sacerdote andava sovrapponendosi con il sesto anniversario dell’entrata del Regno nella guerra vittoriosa per la civiltà. Queste le parole che il cav. Bellomo, sindaco per il partito popolare, aveva volute nel pubblico proclama. I lavori preparatori erano dunque stati solenni, benché il parrocco, don Alessio Bertacche, avesse fatto notare al primo cittadino in via confidenziale che non era bene confondere la festa del regno della terra con quella che la Chiesa celebrava per un suo figlio consacrato alla gloria dei cieli. Tutto si svolse comunque nel migliore dei modi e don Gecchele si commosse nel momento in cui, con la banda che suonava e le campane che accompagnavano a festa, egli fu chiamato a gettare, secondo la consuetudine, la prima manciata di terra sulle radici del cipresso. Nessuno tuttavia se ne accorse, dal momento che il giovane sacerdote seppe dissimulare la commozione fingendo che un granello di terra gli fosse entrato nell’occhio; allo stesso modo, grazie ai rintocchi delle campane e agli squilli della banda, nessuno sentì che a poche centinaia di metri la Rosina, moglie del Matìo detto Dei covoli, urlava per le doglie del parto. Grande fu la sorpresa dei presenti, dalla levatrice al marito, rimasto fuori a tormentarsi il cappello, nel vedere che due erano i bambini venuti alla luce. La Rosina aveva preparato il nome per il solo Luciano, per rinnovare quello del suocero; ma dal momento che le creature che il Signore le aveva dato erano due, da donna devota qual era, il secondo lo volle chiamare col nome di don Pietro. Chissà che non le portasse bene, che era suo desiderio profondo avere anche lei un giorno un figlio consacrato al Signore.
Il parroco don Alessio Bertacche venne il giorno seguente a battezzare i fanciulli, i quali, benché magri, apparivano di colorito roseo e di sana costituzione. Disse poi alla Rosina che aveva fatto bene a dare il nome di un sacerdote novello, che il Signore si sarebbe di certo ricordato di lei e del suo gesto di carità.

Quando i bambini cominciarono a muovere i primi passi, la madre li conduceva sovente al cipresso piantato per la prima Messa di don Gecchele. Raccontando la storia della tradizione di piantare quei tronchi pii e ricordando ai fanciulli il giorno in cui erano venuti al mondo, sperava di far nascere in uno di essi quel sentimento che è premessa, diceva don Alessio dal pulpito, alla chiamata del Signore. I bambini annuivano e poi si inginocchiavano per dire la preghiera a mani giunte. Fra loro si dicevano che erano come due metà della stessa persona e che il cipresso, venuto al mondo con loro, era un fratello silenzioso anche lui.
Passarono gli anni, Luciano e Pietro crescevano belli e tanto simili l’uno all’altro che per riconoscerli la Rosina aveva cucito una fascetta verde da legare al braccio del primo e una bleu per il secondo. Ma quando entrarono nella giovinezza e cominciarono a frequentare le compagnie di coetanei, i fratelli scherzavano sul fatto che più di una volta si erano scambiati la fascia per fare uno scherzo alla madre. Ridendo dicevano che nemmeno loro sapevano chi erano, ma tanto poco importava giacché erano uguali e che quanto a forza e intelligenza uno valeva l’altro.
Altre volte si rincorrevano per la strada, scambiandosi, fra allegri richiami, il nome e quando arrivavano al cipresso di don Gecchele, chiamavano anche lui dicendo che era per loro un terzo gemello. Se la Rosina a volte li rimproverava per quegli scherzi e perché c’era, diceva, da diventare matti con quei figli che si prendevano gioco di tutto, tanto si somigliavano come due grani di sorgo, il vecchio Matìo scuoteva la testa e diceva di lasciarli fare, purché crescessero sani e robusti per dare braccia in casa.
Allora non potevano sapere che di lì a pochi anni il destino avrebbe pensato a distinguerli nel modo più atroce. Fu durante la mietitura del Trentanove, l’ultima del mondo in pace prima della grande burrasca che avrebbe tempestato il mondo. Nessuno fra i presenti seppe mai dire come quella cinghia si fosse impigliata o come mai Pietro si fosse tanto avvicinato alla testa della trebbiatrice, fatto sta che in un attimo la macchina gli aveva divorato la mano sinistra fin quasi a metà del braccio. Lo salvarono per miracolo, giacché quel giorno al paese era presente il dottor Cinquetti, venuto a visitare il vecchio maestro Andrian Del Maso, colpito da spasmi, e prestò le prime cure conducendo in automobile il ferito all’ospedale. Là Pietro fu operato d’urgenza da un professore che aveva fama di luminare in chirurgia, avendo imparando il mestiere sui campi della guerra. E in effetti lo sottrasse alla morte, ma disse che nulla si poteva fare per salvare la mano al ragazzo. Conclusa la convalescenza di sei mesi Pietro si ritrovò menomato. Il professore però non demordeva: disse che la scienza faceva miracoli e che c’erano delle protesi in grado di riprodurre in tutto e per tutto i movimenti di una mano fatta di ossa e di carne. Pietro prima di accettare volle parlare con suo fratello. Si parlarono e solo allora l’infortunato accettò di indossare la mano meccanica. Quando ritornò al paese, i malevoli, che dappertutto ci sono, presero a chiamarlo Pietro Manina. Ma lo facevano di nascosto, che Luciano al solo sentire da distante quel nomignolo andava in bestia e una volta poco mancò che rompesse la faccia ad un coscritto che aveva voluto fare dell’ironia sul conto di Pietro.
Ma i mesi scorrevano rapidi e il mondo allora sembrava impazzito di nuova strage. La bufera scoppiò in Polonia ma in breve, come un incendio che dà fuoco prima alla stalla, poi al fienile e poi, inarrestabile, arriva a divorare le case attorno finché l’intera contrada brucia, si diffuse nei paesi, invocata a gran voce dai capi che comandavano nelle città del mondo. Così dopo l’oro, il rame e il ferro le famiglie si trovarono a donare i figli. Ma a differenza dell’altra guerra, nessuno, nemmeno chi partì per primo, lasciò il paese cantando. L’aria era pesante e la domenica le madri, andando in chiesa, voltavano la testa perché lo sguardo non cadesse sul monumento ai caduti. Al termine delle funzioni accendevano i ceri all’altare della Madonna del Carmine, a domandare la salvezza per i figliuoli o i mariti lontani.
Pietro, ormai menomato, fu scartato alla visita di leva e quando Luciano fu costretto ad indossare le giberne non riuscì ad accettare di veder partire il fratello. Avevano condiviso tutto da quando erano nati. Persino una volta, per scherzo, prima dell’incidente si erano scambiati le morose. Nessuna delle due si era accorta e avevano passato la serata passeggiando a braccetto e dicendosi le frasi d’amore.
Rimase a casa, ad aiutare, come poteva, il padre nei campi e a consolare la madre che per Luciano non si dava pace.

Dicono che fu nell’estate del quarantuno che Pietro fece il voto che poi lo portò alla pazzia: Luciano gli mancava sopra ogni cosa; persino alla morosa aveva detto che era meglio non vedersi fino a quando suo fratello non fosse ritornato dal fronte: non era giusto - disse - che lui a casa si godesse la vita mentre l’altra sua metà era in guerra a rischiare la pelle. La ragazza, che era di buon cuore, aveva capito e benché addolorata aveva rispettato la sua volontà. Ma questo a Pietro non bastava. Così un giorno si recò al cipresso davanti al quale tante volte aveva pregato col fratello e giurò che si sarebbe fatto frate il giorno in cui Luciano sarebbe ritornato dalla guerra. In ginocchio, giurò fra le lacrime e poi si fece tre volte il segno della croce per rendere più solenne il voto.
Chi mai fra i poveri diavoli che siamo può scrutare i pensieri di Colui che tutto governa? Certo, nessuno può indovinare le vie stabilite lassù, ma allora, perché l’uomo tanto pena senza capire? Forse è lecito pensare che non ci sia spiegazione alla sofferenza dei poveri che stanno quaggiù e tribolano e soffrono e muoiono per le parole vuote di chi sempre la guerra la vuole ma a farla poi manda gli altri?

Luciano non tornò mai dalla guerra verso cui era partito. Artigliere alpino della Julia, sopravvisse alle montagne dell’Albania per finire poi inghiottito dall’immensa steppa ucraina. Da laggiù scriveva alla famiglia e a Pietro cartoline piene di speranza per l’avvenire, e intanto chiedeva della semina, del raccolto, della vendemmia e del prezzo del fieno al quintale. A Pietro mandava i saluti e fra le righe, perché la censura non capisse, gli faceva capire che in fondo era meglio che la guerra fosse andato solo lui a farla. E scherzava dicendo che c’era tanta neve in Russia da fare settimane di villeggiatura per i ricchi della città. L’ultima cartolina giunse al paese datata 4 gennaio 1943. Poi fu il silenzio.

Pietro dal giorno dell’ultima cartolina non si dette pace. Nessuna notizia, nessuna parola, niente. La Rosina sentiva e pure taceva: lo vedeva cambiato, era come se qualcosa si fosse rotto dentro di lui. Divenne taciturno e schivava la compagnia. Lavorava nei campi con foga, per quanto la mano menomata gli consentiva, ma appena poteva se ne andava da tutti. Sovente correva al cipresso in fondo alla strada, vi girava intorno, si sedeva ai suoi piedi; qualcuno disse che ci parlava addirittura. Passò un altro anno, in paese arrivarono i tedeschi, e i fascisti rimasti si toglievano il cappello quando passavano le vetture in grigioverde degli alleati; inviperiti, davano la caccia nei casolari ai renitenti e ai figli delle contrade che erano passati con i partigiani. Pietro ormai pareva lontano da tutto questo: si guardava intorno e non capiva. Passava giornate intere ai piedi del suo cipresso, come aveva preso a chiamarlo. In paese si diceva che ormai la crepa che aveva dentro faceva da timone alla sua vita. Eppure una sera sul finire di maggio accettò senza titubanze la proposta del Rosso, che si diceva fosse il capo dei partigiani della zona, quando questi gli domandò di diventare portaordini.  Forse vide l’occasione per fare anche lui la sua guerra, forse lo convinsero i racconti di chi dalla Russia era tornato raccontando che i tedeschi urlavano contro gli italiani peggio che con le bestie da macello e che quando era arrivato l’ordine della ritirata li avevano abbandonati nella steppa sparando a chi tentava di salire sui loro autocarri. Nell’inverno del quarantaquattro il Pietro fece la spola innumerevoli volte fra le cascine della campagna, consegnando biglietti in codice che erano in realtà gli ordini alle pattuglie. Dai biglietti passò alle provviste, dalle provviste agli esplosivi e alle armi. Come nome di battaglia scelse di chiamarsi Luciano. Gli altri capirono e dissero che era il nome più bello che potesse scegliere.
Fu al ritorno da una di queste missioni che lo presero i fascisti. Addosso Pietro non aveva niente, ma tornava in pieno febbraio dai campi e a nulla valse la scusa della zia malata che gli avevano suggerito. Chi aveva fatto la spia disse che non aveva zie malate da andare a trovare. E così lo pestarono a sangue e lo buttarono in carcere, in città. Solo una volta finita la guerra vennero fuori i racconti di chi era stato arrestato, dissero delle torture e di tutto quello che i fascisti avevano fatto nelle carceri ai prigionieri. Molti avevano ceduto, ma Pietro-Luciano no, non aveva parlato. Lo liberarono i partigiani quando la città insorse e lo proposero a Roma per una medaglia. Ma a Pietro della medaglia non importava proprio niente. Con la cattura, le botte e il carcere, la crepa che aveva dentro si era allargata. Cominciò a non dormire più a casa la notte: vagava per i campi come una bestia che ha perduto l’orientamento e solo accanto al suo cipresso ritrovava la pace. Smise quasi del tutto di parlare: ripeteva soltanto il nome di Luciano e metteva insieme frasi sconnesse e senza senso. Diceva anche del voto, che doveva farsi frate. Quando? Presto, il tempo che tornasse Luciano dai campi e sarebbe partito. Ma le stagioni scorrevano e Luciano dai campi non tornava mai.
Passarono altri anni, il paese cambiò volto. Accanto alle case ora sorgevano le fabbriche, le distese di frumento cedevano il passo ai capannoni. La gente pareva diventata matta per il cemento: scansava la terra, la schifava. I giovani inseguivano il lavoro nelle fabbriche, ché là dentro davano soldi veri a fine mese e non bestemmie e vita da cani come in campagna.
E poi anche la famiglia di Pietro in parte si rinnovò in parte si disperse: fratelli e sorelle si sposarono e andarono altrove, i vecchi morivano. Il primo ad andarsene fu il Matìo, nel Sessantotto, per un colpo apoplettico, la Rosina invece resistette ancora lunghi anni. Diceva che non poteva morire in pace, con un figlio disperso in Russia e uno disperso a casa. Fece costruire una piccola tettoia accanto al cipresso in fondo alla strada e passava le giornate con Pietro in silenzio, lui ad inseguire i suoi pensieri e lei a lavorare ai ferri o a recitare sottovoce un rosario per i suoi figli perduti.
Ricordo che feci in tempo a conoscerla, ingobbita per il peso degli anni e quasi cieca. Se ne andò una mattina di maggio dell’Ottanta, mentre il mondo galoppava verso il progresso e ormai di quella guerra lontana quasi nessuno aveva voglia di ricordarsi. Pietro Manina invece fu uno dei personaggi della mia infanzia. Silenzioso, sempre seduto sotto la tettoia, la protesi appoggiata stancamente sulla gamba, ci guardava sfrecciare in bicicletta accanto al suo cipresso e le rare volte in cui accettava il saluto mio e dei miei amici non perdeva occasione per dirci che stava per partire. Sarebbe presto andato frate. E quando noi, con la malizia dei bambini, insistevamo e gli chiedevamo quanto presto lui alzava le spalle. Poi, gettata un’occhiata al cipresso, rispondeva:
- Presto, non appena torna Luciano dai campi.

Ora che tanto tempo è passato e anche Pietro non c’è più ripensare a quegli anni lontani mi reca la nostalgia che è propria di chi ha perduto qualcosa di caro. Vecchi che raccontano storie non ce ne sono più ormai, e nessuno più in paese pianta cipressi. Col dopoguerra e il calo dei preti, accanto al mondo di ieri, è scomparsa anche questa pratica: degli alberi piantati alcuni sono morti, schiantati dai temporali o stecchiti dal sole di queste estati sempre più calde, altri, quelli posti davanti alla chiesa, sono stati abbattuti quando il Comune ha deciso la riqualificazione urbanistica della piazza. Solo il cipresso di Pietro e di Luciano è ancora là. L’ultimo. È crollata la tettoia, il tempo ha lavato la memoria e forse domani qualcuno, in qualche ufficio di Roma o di Venezia, stabilirà che sul terreno in cui sorge l’albero piantato tanti anni fa per don Gecchele dovrà passare un’autostrada. Allora anche il quel cipresso, il cipresso di don Gecchele e di Pietro Manina, sarà abbattuto.
Per ora è là. Resiste. Una sera di queste magari porterò i miei figli a vederlo da vicino e racconterò loro la storia che ormai nessuno sa più. Poi diremo insieme un’Avemaria. Infine, accompagnati dal chiarore di queste sere di maggio, cammineremo per mano fino a casa.




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