sabato 26 ottobre 2013

Nella steppa di Anton Cechov


Tra gli autori a me cari, un posto particolare è riservato ad Anton Cechov. Nato nel 1866 e morto nemmeno quarantenne nel 1904 della malattia che l’aveva perseguitato lungo tutta la breve vita, la tubercolosi, Cechov rappresenta per me forse qualcosa di più che un autore amato. I suoi racconti, la parte della sua produzione che conosco meglio, sono davvero un giardino cui ritorno sempre volentieri e che serba fiori freschi ad ogni visita. Distillato di osservazione precisa e approfondita della realtà umana (Cechov era medico), narrati con partecipazione e insieme con ironia, sono ricchi di quella vividezza e umanità che mi piace ritrovare nella letteratura come nella vita. 
Così non ho riflettuto a lungo quando, qualche giorno fa, ad un mercatino di libri usati, mi è capitata tra le mani l’edizione di un racconto lungo di Cechov che non avevo mai letto, La steppa. Il testo, di formato tascabile ma con copertina rigida, era piuttosto rovinato: pagine ingiallite, sovraccoperta strappata in più punti, dorso provato dall’uso. Era un piccolo Vallecchi del 1949 che, una volta aperto, ha rivelato inaspettatamente  un font leggibilissimo e una traduzione (del 1940) forse un po’ fuori moda ma raffinata, come si usava una volta. Ciò mi ha spinto ancor più all’acquisto del volumetto, per un solo Euro. A distanza di un paio di settimane posso affermare che si è trattato di un buon investimento.


Il racconto mi ha stupito. È la storia del viaggio attraverso la steppa che il piccolo Iegorusca, un bambino di nove anni, fa a seguito dello zio e di un religioso suo amico per recarsi nella cittadina dove inizierà a frequentare il ginnasio. È un racconto di viaggio, quindi, di incontri e di lunghe appassionate descrizioni della steppa, forse l’unica vera protagonista di quanto accade, ben poco, quanto a plot. Ma la grande letteratura insegna che i colpi di scena e la trama non sono tutto. E attraverso gli occhi del piccolo Iegorusca ce ne rendiamo conto una volta di più. Vorrei riportare le splendide descrizioni del paesaggio, ma lo spazio è tiranno. Mi limito a condividere una descrizione di cielo stellato piuttosto inconsueta per noi, abituati, dalle stelle di Dante a quelle di Pascoli passando per Leopardi (per citare solo alcuni nomi), agli astri come fidati compagni di viaggio e confidenti degli umani pensieri. 


 «Quando a lungo, senza staccare l’occhio, tu guardi il cielo profondo, allora non si sa perché i pensieri e l’anima si confondono nel senso della solitudine. Tu incominci a sentirti irrimediabilmente solo e tutto ciò che prima hai considerato vicino e come tuo, diventa infinitamente lontano e senza alcun valore. Le stelle, che guardano dal cielo già da migliaia di anni, lo stesso cielo inesplicabilmente e la caligine, indifferenti verso la breve vita dell’uomo, allorché tu resti con loro a faccia a faccia e cerchi di indagarne il senso, ti opprimono l’anima col loro silenzio; e ti viene in mente quella solitudine che attende ognuno di noi nella tomba e l’essenza della vita si presenta disperante, terribile…» (pp. 174-175). 


Leggendo queste parole ho provato anch’io la sensazione descritta; subito dopo, però, ho desiderato vedere dal vivo la steppa. E, di pensiero in pensiero, mi è tornata in mente un’altra stella, una costellazione anzi, quel quadrato di Cassiopea «che mi stava sopra la testa tutte le notti». Riconosciuto da dove ho preso la citazione? Se sì (ma anche se no), la lettura de La steppa di Cechov potrà essere ottima compagnia per questo tempo d’autunno. 


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