domenica 20 ottobre 2013

Pensieri di un tesista in crisi

Come gli amici sanno, dall'inizio di ottobre vivo stabilmente a Padova, un trasferimento voluto per lavorare alla tesi a tempo pieno e in modo ottimale, a contatto coi polverosi ambienti che per i letterati rappresentano l'habitat naturale. 
Non avevo mai trascorso tante ore di seguito in biblioteca: negli anni passati accadeva al massimo di passarne alcune, tutt'al più si poteva finire col rimanervi per mattinate o pomeriggi, raramente giorni interi de mane usque ad vesperum. Perdonate il latinismo, viene dalla Vulgata del testo di Giobbe, un bel versetto (4, 20) in cui si parla di tarli, e non ho resistito alla tentazione di accostarli all'immagine della biblioteca. Insomma, qualcuno potrebbe asserire che finalmente ho intrapreso la via giusta per una vita (per quanto poco) accademica. Fortunatamente non sono solo e nel settore di greco, ove raramente si incontrano facce nuove (il terzo piano e le sei rampe di scale non sono per tutti), ci si conosce ormai bene. Si ha anzi la percezione concreta di sentirsi famiglia allargata (comunità di studio mi pare forse eccessivo), con tutti i pro e i contro del caso. 

Seduto al solito posto, nell'angolo tra uno dei due lati lunghi e il lato corto della tavolata a 'U' su cui sono strutturati i posti nella sala, pensavo qualche giorno fa alla tesi ormai imminente a partire. A partire concretamente s'intende, con tutti i crismi: portatile aperto su foglio word, note a piè di pagina pronte a scattare, giustificazione testo e, magari, qualche sparuta ma chiara idea da trasporre sullo schermo lattiginoso del computer. Mentre scartabellavo articoli, ricercavo testi, sfogliavo riviste fatte arrivare dai sotterranei depositi, mi aspettavo che il principio dello studio mi apparisse da sé, una sorta di visione. Senza dubbio influiva su questo il sentire altri, a poca distanza, scrivere con una certa insistenza e probabilmente con chiari concetti da esprimere al mondo, accademico e non. L'emulazione può giocare brutti scherzi, specie se, come nel mio caso, si sente di aver poco da dire e nessuna idea su come dirlo.

Mi è tornato così in mente il Calvino delle Lezioni americane. Nella lezione intitolata Esattezza, ad un dato punto il Nostro così si esprime: «Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m'accorgo che quello che m'interessa è un'altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell'argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un'ossessione divorante, distruttrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un'altra vertigine, quella del dettaglio, vengo risucchiato dall'infinitesimo, dall'infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell'infinitamente vasto» (Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, p. 77) Insomma, a quanto pare non se ne viene fuori. 

Questo passo ne ha richiamati altri, i quali ne hanno richiamati altri a loro volta. Poi, non so se consciamente o meno, sono approdato ad una ripa nota. Ecco all'improvviso apparire non la nebulosa dei concetti da esprimere diteggiando sulla tastiera, ma una visione dal passato: il Liviano degli anni Quaranta e lo studente S. Fonte della visione un libro che consiglio ad ogni pellegrino passato per le aule (e i banchi) di Gio Ponti nel palazzo del Liviano, mi riferisco a Fiori italiani di Luigi Meneghello. Il passo venutomi in mente e che vorrei citare è piuttosto lungo, per cui lo riduco; chi avesse impellenza potrà leggere il testo in proprio, e certo con vivace profitto. Protagonista del brano è lo stesso del libro, l'S. che rappresenta un po' uno studente tipo, un po' l'alter ego dell'autore.

«...tra la fine del '40 e la prima metà del '41 si trovò iscritto al corso di laurea in filosofia, e con una tesi sull'ultimo Fichte. Di nuovo non è chiaro come si fosse messo in testa di fare una tesi o qualunque altra cosa, uno strambotto, sull'ultimo Fichte: forse immaginava che una bella tesi non ha una vera relazione con l'argomento, e il sistema non era congegnato in modo da smentirlo. [...] Il caco dell'ultimo Fichte, forse il più mostruoso caco che il pensiero italiano abbia mai minacciato di fare, non cominciò nemmeno a maturarsi nel grembo di S. Del primo Fichte e di quello di mezzo sapeva poco, e dell'ultimo niente. Forse è la condizione ideale per scrivere una tesi non banale» (Luigi Meneghello Fiori italiani, Rizzoli, Milano 1976, pp. 123-124).
Ancora una volta, a quanto pare, non se ne esce. Ma almeno, a starsene dentro si rimane se non rasserenati, un po' meno soli.







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