domenica 13 ottobre 2013

Pensieri autunnali


Ieri, nel primo pomeriggio, sono uscito per una breve passeggiata sul colle: itinerario consueto, tra le viti e gli ulivi prima e attraverso il limitare del bosco poi. Dopo le ultime settimane, trascorse per la maggior parte a Padova, sentivo il bisogno di immergermi nella quiete e di far visita al "mio" colle. Il clima invitava al silenzio e all'osservazione. La temperatura era ottimale, l'aria mossa appena; illuminava l'erba e le piante un sole vigoroso, spuntato senza preavviso in tarda mattinata; l'autunno iniziava a dipingere coi suoi colori i campi e il bosco. Dopo il grigiore dei giorni passati ogni cosa brillava vivida. Mi è tornato in mente il Leopardi de La quiete dopo la tempesta:

...Ecco il sereno rompe
là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.

E, poco più avanti,

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. [...]

L'immagine della vita rinnovata che riprende il suo corso è per Leopardi soprattutto uno 'strumento', essa serve al poeta per esprimere, qualche verso dopo, l'idea del «piacer figlio d'affanno». Tuttavia, pur dietro la lente letteraria, le figure leopardiane si muovono, tra allegre grida, canti e laborioso daffare, con la grazia di un presepio. Dietro di esse il paesaggio pure sembra muoversi, danzare quasi: le ultime nubi si allontanano, sospinte e quasi incalzate da un sole operoso, personaggio tra gli altri. Un piccolo universo che procede all'insegna del sereno ritrovato.

Camminavo e pensavo a quanta vita è passata tra i sentieri e i piccoli appezzamenti che costellano il piccolo altopiano del monte Costi, a suo modo ermo colle a me caro. 
Quindi ho imboccato la via che conduce verso la Valbona. Basta scollinare e il silenzio cede il posto al brusio dei mezzi che sfrecciano in fondo alla valle. Lo spazio, come in un teatro, si apre improvviso, le quinte della scena rappresentate dalle Piccole Dolomiti spruzzate dalla prima neve. In basso il paesaggio è più cupo, ingombro di case, strade, rotatorie e capannoni vecchi e nuovi. Pazienza ormai per i vecchi, costruiti in tempi di vacche grasse in cui si inseguiva il sogno di un benessere percepito come a portata di mano. Una domanda (e solo quella?) sorge invece scrutando i loro simili costruiti in anni più che recenti, frutto di bieche speculazioni di moderni feudatari della zona.

Non ho potuto fare altro, come sempre, che annotare. Dovevo dare ragione al Franco Fortini di Traducendo Brecht: «La poesia non muta nulla». Poi, ritornando con lo sguardo alle montagne, altri versi si sono fatti strada, d'un tratto ma, forse, non dal nulla. Complice probabilmente un bel reading teatrale al quale avevo assistito qualche giorno prima a Padova, ho ripensato al Congedo che chiude Pomo pero di Luigi Mengehello. 

Chi conosce Libera nos sa (o dovrebbe sapere) che Pomo pero non sono solo paralipomeni al precendente testo, come recita il sottotitolo, è anche un libro che registra l'inevitabile tramonto del mondo precedentemente narrato. Non è un caso che i versi posti a conclusione del testo siano intitolati proprio Congedo.
Vi lascio dunque con questi versi poco noti ai più, piccolo sunto di un sentire autunnale.

Il piano inferiore del mondo
ha un orlo di monti celesti
ed è colmo di paesi.

Nei broli annerisce l'uva 
che nessuno vuole raccogliere,
ne prendono qualche graspo
gli operai dell'officina,
uno ne piluccano uno ne gettano,
giacciono i gioielli neri
sotto le viti tra l'erbacce.
Smurata è la mura dell'orto,
dilaniato il core,
mucchi di strame ingombrano
la corte, coppi caduti,
rotti rametti, pali fradici.

Intorno si vede sorgere
un mondo di cose nuove,
questa roba si spazza via,
trionfa un rigoglio 
banale e potente.
Non è più una parodia,
è vero uso moderno,
i geometri se ne intendono
delle cose e dei loro nomi,
mio piccolo popolo
forzato da un ramo villano
di storia italiana,
è una foto ricordo - sorridi.

Va libretto mio, va a rocolare.
(da Pomo pero, Rizzoli, Milano 1974).



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