domenica 25 gennaio 2015

Giorno della Memoria: due proposte per riflettere e capire

Dopodomani sarà il 27 gennaio, Giorno della Memoria, istituito <<al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati>>. Così la Legge n. 211 del 20 luglio 2000.

Quest'anno la celebrazione del Giorno della Memoria si carica di un significato più solenne, ricorrendo il settantesimo anniversario di quel 27 gennaio 1945 in cui i russi liberarono il campo di Auschwitz. E se già da qualche giorno i media hanno iniziato a parlare dell'argomento, ci attende una settimana senza dubbio ricca di riflessione e memoria. Giusto che sia così. Confido che si riesca davvero a riflettere, a farlo profondamente, in silenzio, nonostante il molto rumore che accompagna ogni ricorrenza.

Intravedo un duplice rischio quando la memoria diventa ufficiale, quando si fa istituzione: quello, comune a tutte le ricorrenze, di perdere il senso profondo di ciò che si fa, trasformando alla lunga la memoria in una cermonia ripetuta e stanca; l'altro rischio, più complesso ma non meno fuorviante, legato al ricordo delle grandi persecuzioni e stragi, è quello di lasciarsi troppo suggestionare dalle emozioni. Le emozoni contano, ma non possiamo comprendere a fondo la Shoah se, accanto al cuore, non poniamo anche la mente, se non ci sforziamo di capire, e di capire a fondo ciò che è avvenuto. È questo un insegnamento che ho appreso ascoltando di persona chi visse i fatti di settant'anni fa, ed è per questo che vorrei proporre, in occasione del Giorno della Memoria di quest'anno, due opere che, fra le tante che ci verranno proposte, possono aiutarci a riflettere e capire. Meglio, a riflettere per capire.

La prima opera è un film: Hannah Arendt. Uscito nel 2012 ma giunto in Italia solo lo scorso anno, è, come suggerisce il titolo, dedicato alla pensatrice omonima, una delle più importanti del Novecento. Non è una biografia di Arendt, bensì un film che indaga la genesi di una delle opere fondamentali da lei scritte, La banalità del male. Nel 1961, dopo essere stato catturato dai servizi segreti israeliani, Adolf Eichmann, ex tenente colonnello delle SS responsabile dei trasporti ferroviari che deportavano gli ebrei, fu tradotto a Gerusalemme e processato. Fu un evento mediatico senza precedenti oltre che il più importante processo ad un nazista dopo quello di Norimberga, e  Hannah Arendt vi assistette in qualità di inviato del settimanale statunitense "New Yorker". Dall'osservazione diretta di Eichmann e dalla lettura degli atti del processo, Arendt maturò una riflessione sul concetto del male che espose in un saggio destinato a fare storia. Il film, diretto da Margarethe Von Trotta, racconta con nitore e senza retorica la genesi dell'opera e le vivaci (in certi casi violente) reazioni che suscitò la tesi della pensatrice: il male non era qualcosa di mostruoso, di sadico, di sanguinario; esso, anzi, si celava dietro un funzionario ligio e scrupoloso, estremamente povero di idee, che in ottemperanza ad una legge perversa aveva rinunciato a pensare con la propria testa. Una tesi che, appunto, all'epoca suscitò non poche reazioni, ma che fu portata avanti e difesa con coraggio dalla pensatrice. Il film di Von Trotta, al pari della Hannah Arendt storica, si sforza di capire. Lo fa, dicevo, senza enfasi, spettacolarità e patetismi, restituendo un'immagine lucida e lasciando allo spettatore, alla fine, la possibilità giudicare.

La seconda opera che suggerisco è un libro, Dora Bruder, dello scrittore francese Patrick Modiano, premio Nobel per la Letteratura 2014. È la storia vera di una ragazza ebrea di Parigi, deportata ad Auschwitz e della quale Modiano tenta di inseguire le tracce. Tutto ha inizio con un annuncio che l'autore scopre in una rivista del 1941: <<Si cerca una ragazza di 15 anni, Dora Bruder, m 1,55, volto ovale, occhi castano-grigi, cappotto sportivo grigio, pullover bordeaux, gonna e cappello blu marina, scarpe sportive color marrone. Inviare eventuali informazioni ai coniugi Bruder, boulevard Ornano 41, Parigi>>. Con queste poche righe in mano, Modiano si getta in una ricerca silenziosa ma appassionata, inseguendo tracce flebili, scolorite, fra i pochi documenti disponibili e ripercorrendo le strade di una Parigi che trascende di continuo i limiti temporali, in cui i decenni sfumano e la topografia della città coeva all'autore si sovrappone, mescolandovisi, con quella della Parigi dei tempi dell'occupazione. È, quella di Modiano, una ricerca e insieme un cammino di riscoperta di un passato oscuro e a lungo rimosso, passato che si mescola a fatti autobiografici, a riflessioni sulla memoria, sui luoghi, sul rapporto fra essi e le persone che vi abitano. Soprattutto, se letto in prospettiva del Giorno della Memoria, è un libro che fa di essa, della memoria, un qualcosa di vivo e da riscoprire con l'urgenza di un fatto privato. Ecco la forza del libro: inseguendo Dora Bruder, Modiano insegue una storia personale, dà un volto a questa ragazza, una fra le tante. Lo fa con una lingua scarna ed essenziale, senza orpelli e senza retorica e che tuttavia si apre a momenti di assoluta poesia. E pare alla fine di averla conosciuta, Dora Bruder: non una cifra, non più un nome fra milioni. Lei sola, eppure tanto basta per comprendere.



domenica 18 gennaio 2015

Prima de parlar, tasi! Per difendersi dalla scrittura rumorosa

C'è nel dialetto veneto una formula breve ed efficace, una sententia direbbe Seneca, che dovrebbe regolare ogni conversazione, anzi, ogni forma di comunicazione parlata fra le persone; è una formula che quasi tutti dalle mie parti hanno appreso dalle mamme e dalle nonne: Prima de parlar, tasi! La traduco liberamente, cercando di tradurne il significato profondo: "Prima di parlare, stattene zitto, pensa, rifletti, onde evitare di fare figure magre o, come si dice sempre dalle mie parti, da ciòdi".

Prima de parlar, tasi! Questa formuletta mi ha accompagnato negli ultimi dieci giorni: saltava fuori all'improvviso, talora con leggerezza e talora con fare impertinente, ogni volta che, con mezzi diversi, mi giungevano notizie di quanto accadeva nel vasto mondo. Sono stati dieci giorni che non occorre descrivere: gli attentati di Parigi, le volontarie liberate, il viaggio del papa nelle Filippine, le notizie dal medio oriente...
Nulla di troppo nuovo in fondo, verrebbe da dire, se non, forse, per la drammatica successione degli eventi. Non è di questo, però, che vorrei scrivere oggi, bensì di una riflessione che ho maturato in questi giorni a seguito di questi fatti e, soprattutto, a seguito del tanto parlare sopra di essi cui abbiamo assistito. In dieci giorni ne abbiamo sentite di tutti i tipi, in tutti i toni, con tutte le sfumature possibili; si son visti nascere o rinascere esperti di questo o di quest'altro argomento, si sono scritti editoriali, articoli da prima o da (fu) terza pagina, lettere aperte, comunicati stampa, post di ogni genere prontamente decorati da pollici all'insù e altrettanto prontamente condivisi sui social.

Io ho pensato al mio paesello, alla corte di casa mia e alla mia nonna paterna che, agitando davanti al mio naso una mano talmente rigida da parere inamidata, mi diceva: Prima de parlar, tasi! 
Capisco la necessità di parlare - dicevo fra me in questi giorni - di esprimersi, di dire la propria e di cercare di farlo per mettere ordine in un caos che sempre più ha le dimensioni del pianeta, tuttavia quale incredibile profluvio di parole, parlate e scritte!  E se queste parole aggiungessero caos al caos?
Ho così ripescato un passo da Esattezza, una delle Lezioni americane di Italo Calvino, e l'ho trovata illuminante. Scriveva il buon Italo trent'anni fa:

«Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto».

Ecco, appunto. La differenza, fondamentale direi, fra parlato e scritto sta, o dovrebbe stare, nell'eliminare quel «modo approssimativo, casuale, sbadato». Qualcuno potrà obiettare che Calvino si riferiva alla scrittura con scopo artistico, quella scritta per diventare ciò che chiamiamo Letteratura, e che esistono scritture più immediate fatte per comunicare e basta: quella giornalistica o quella dei social, ad esempio. Corretto. Tuttavia anche chi obietta dovrebbe riconoscere che la scrittura possiede, per suo statuto, un filtro in più, se non altro per dover fisicamente uscire da noi attraverso un passaggio ulteriore rispetto alla volatile parola pronunciata. Ecco il centro della mia riflessione: la velocità del mondo e la facilità con cui le parole volano oggi mi pare abbiano allentato, e di molto, questo filtro. Non ce l'ho col fatto che tutti scrivano, non sia mai! Ce l'ho, se proprio devo dire così, col fatto che molti scrivono senza riflettere, sull'onda del caos, siano essi privati cittadini che postano in bacheca su facebook o giornalisti con fame di scoop. Parole, parole, parole... E parole che, per quanto scritte, hanno lo stesso tono e la stessa consistenza di quelle parlate o, non di rado, urlate. Non ci si documenta, non ci si premura nemmeno di riflettere, l'importante è battere il proprio tamburo un po' più forte degli altri.
In tutto questo vorticoso frastuono, mi sembra che sempre più la parola scritta si avvicini alla parola pronunciata, e non solo ad essa, ma anche alle immagini, come in quelle tabelle (come si chiamano?) che imperversano su facebook con una foto di un personaggio celebre e la loro bella citazione pronta all'uso e ai "mi piace". Un discorso complesso, lo riconosco, sul quale magari tornerò. 

Ora, invece, torno a studiare carte e a preparare lezioni; non prima, però, di aver fatto eco alle parole di mia nonna e di Calvino con quelle di un altro grande autore che mi aiuta a non perder del tutto le speranze nel frastuono quotidiano. Ancora una conferenza, scritta e pronunciata a Vicenza nel 1984 da Luigi Meneghello, intitolata L'esperienza e la scrittura e oggi contenuta in Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte (BUR). La dedico a me e a chi ha la pazienza di leggermi. Consideriamola una pastiglia contro l'"influenza" di questi tempi concitati:

«C’è ancora, almeno per me, una strana funzione dello scrivere: mi pare un ottimo mezzo per difendersi dall’eccesso delle comunicazioni specialmente parlate a cui si è esposti, la marea della pubblicità, il chiasso, il troppo e il vano nel quale ci troviamo immersi. Scrivendo ho l’impressione di usare un filtro, o forse si tratta di un altro tipo di aggeggio, che mi dà il senso di non dover gridare tra gente che grida. È così che scrivere, per me, è quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c’è, cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle che paiono un po’ meno sbagliate, un po’ meno goffe o vacue o sguaiate».

domenica 4 gennaio 2015

"Pride": un film che sa far piangere e ridere allo stesso tempo

Ieri sera, in compagnia di una cara amica, sono andato al cinema. Non in grandi sale né in "villaggi" che portano il nome di grandi marchi, sono andato in uno dei pochi cinema della mia provincia che proiettano una pellicola rimasta fuori dai grandi circuiti di distribuzione e che tuttavia ha goduto nel nostro paese di presentazioni di primo livello anche in televisione. Mi riferisco a Pride, film vincitore della Queer Palm al festival di Cannes del 2014 e lanciato in Italia nel più prestigioso tra i salotti culturali del piccolo schermo, "Che tempo che fa". Ma veniamo al film. Dopo aver letto recensioni, parlato con amici che già l'avevano visto, guardato il trailer e alcuni spezzoni, alta era l'aspettativa. E, finalmente, dopo mesi di film deludenti o soddisfacenti e basta, con Pride sono riuscito ad emozionarmi davvero.


Riassumo brevemente la vicenda, tratta, fra l'altro, da una storia vera. Siamo nella Gran Bretagna del 1984, in piena era Thatcher e in pieno sciopero dei minatori, quel lunghissimo, estenuante sciopero che fermò per mesi e mesi l'estrazione carbonifera per impedire la chiusura forzata di molte miniere voluta dalla Lady di ferro. Il clima e l'ambientazione mi hanno riportato subito ad altri film ambientati nello stesso periodo: al magico Billy Elliot, che vidi per la prima volta ai tempi delle medie, o al commovente e umoristico Brassed Off, in italiano Grazie, signora Thatcher, che ai temi sopra citati univa quello della musica bandistica come tentativo di riscatto dal desolante scenario imposto da una politica lontana dalle persone.

In Pride però, accanto al dramma dei minatori, si apre subito un altro tema: la discriminazione sessuale di gay e lesbiche nella Gran Bretagna di allora. Mentre si svolge infatti il pride di Londra del 1984 un attivista gay, Mark Ashton, propone di avviare una campagna di raccolta fondi per i minatori in sciopero, fondando l'iniziativa sull'assunto che entrambe le categorie, omosessuali e minatori, sono categorie emarginate dalla medesima società. Fra dubbi, defezioni e difficoltà, sei amici accettano infine di sostenere l'idea e nasce il comitato LGSM (Lesbiche e Gay Sostengono i Minatori). Si raccolgono le prime somme di denaro ma i problemi non cessano: quando infatti si tratta di devolvere il ricavato i sei trovano solo porte chiuse e cornette che sbattono. L'idea che infine sblocca la situazione è quella di contattare direttamente un piccolo paese del sud del Galles che vive di estrazione mineraria. 

Da qui inizia il bello, potremmo dire. Fra iniziale diffidenza e in certi casi aperto rifiuto, minatori da una parte e lesbiche e gay dall'altra cominciano a conoscersi e a capire che la loro è davvero una lotta contro lo stesso nemico. 



Ne risulta una storia che appassiona e commuove, che avvince e diverte, una storia di lotta comune, di amicizia, di crescita e nella quale prendono posto storie personali altrettanto commoventi e appassionanti: quella di Mark, attivista mai stracco di cambiare il mondo, quella di Joe Copper e del suo drammatico coming out in famiglia, quella di Zoe, che a lungo è, come dice lei stessa, l'unica 'L' del LGSM. Inoltre, come ho già detto, nel film si ride, a tratti a crepapelle. Complici umorismo british, stereotipi esibiti a tal punto da non apparire più tali e trovate fra le più diverse, Pride, in sé commedia drammatica, sa alternare con sapiente maestria il riso e il serio, proponendo al contempo temi e scenari che possono dire molto anche a noi. A trent'anni di distanza. Come spesso accade, riso e sorriso introducono alle più serie riflessioni. E Pride è un gioiello anche per questo.

- Si piange e si ride allo stesso tempo - abbiamo esclamato entrambi uscendo dalla sala.
Lascio a voi, amici lettori, scoprire il resto, assicurando che non ve ne pentirete.