Alcuni giorni fa, grazie al clima primaverile e al sole comparso in cielo, sono tornato a passeggiare sul colle. Volevo distrarre un po' la mente, liberarmi dai pensieri e dalle preoccpuazioni del quotidiano, rilassarmi e muovermi all'aria aperta, gustata tanto poco in questi ultimi mesi. Sono salito sul colle, ad ascoltare il silenzio e i suoni di una primavera in anticipo sui tempi...
Tuttavia un pensiero tornava di continuo ad affacciarsi: frammenti di quotidianità ronzavano attorno ad un tema fisso, che vorrei condividere qui con voi riprendendo una riflessione esposta già nei miei ultimi post. L'altro giorno, passeggiando tra le viti appena potate e i prati ancora intrisi d'acqua, mi interrogavo sul potere e sul fascino che esercitano gli slogan sul nostro immaginario. Come sempre, non pretendo di fare qui trattazioni accademiche, non è questo lo spazio, bensì solo offrire qualche suggestione ponendo in dialogo parole scritte con parole udite, realtà letta con realtà vissuta.
Ritrovo tra vecchi appunti la definizione etimologica di 'slogan' che dà Elias Canetti, scrittore di origine bulgara, premio Nobel per la letteratura nel 1981, nell'opera che lo impegnò per un quarantennio, Massa e potere. Scrive Canetti: <<Presso i Celti degli Highlands scozzesi l'esercito dei morti è designato da una parola particolare: sluagh, che si traduce in inglese con spirit, multitude, moltitudine di spiriti. [...] La parola ghairm significa urlo, grido, e sluagh-ghairm era il grido di battaglia dei morti. Ne è derivata più tardi la parola slogan: la denominazione del grido di guerra delle masse moderne deriva dall'esercito di morti degli Highlands>>. In poche parole, Canetti non solo fornisce la storia del termine 'slogan', ma lo collega con l'argomento che sta al centro del suo amplissimo studio, la massa.
In effetti, non occorre gran fatica per associare lo slogan ad una massa, ad una moltitudine di persone. Lo slogan è parola efficace, concisa e rapidissima. Pochi tratti per designare una realtà o un messaggio netto, immediato e senza possibilità di essere lì per lì contraddetto. Come una freccia scoccata con precisione, uno slogan centra quasi sempre l'obiettivo, indirizza la mente e colpisce l'immaginario molto più di ragionamenti e disquisizioni. Uno slogan si fa così largo fra noi, in noi. Provate, amici lettori, a fare attenzione a quanti slogan quotidianamente sentiamo e utilizziamo. Rimarrete colpiti. Dalla politica al mondo della pubblicità sino alle nostre più personali e private parole, gli slogan che utilizziamo sono innumerevoli. In questo frangente, un atteggiamento filologico, un'attenzione cioè all'origine delle parole, ai loro legami e reciproci collegamenti, alla loro storia, può forse aiutarci a non diventare preda degli slogan.
Mi è accaduto più di qualche volta di assistere ad accese o, addirittura, infiammate discussioni nei modesti spazi dei social network. E credo non ci sia bisogno di dirlo: i social network sono tra i "luoghi" dove più impera la forza degli slogan. La complessità non si può affrontare in poche righe e la pratica di liquidare l'interlocutore (che non di rado diviene avversario o nemico) con una frase fatta impera, specie se dietro di essa si nasconde una povertà di valide ragioni. Nulla di nuovo: reazione inevitabile in un contesto che spinge a questo, potremmo dire. Ma se ciò si traduce anche fuori dallo spazio di internet? In un mondo in cui sempre più domina la semplificazione, la contrapposizione netta, quale effetto possono avere certi slogan che ripetiamo senza troppo pensare al loro significato o alla loro origine? <<Le frasi fatte si impadroniscono di noi>> scriveva Viktor Klemperer, filologo perseguitato dal nazismo e autore di LTI. La lingua del Terzo Reich. La lingua crea e pensa per noi. Così uno slogan può sedurre e impadronirsi di chi lo utilizza come di chi lo ascolta, finendo per allontanare dalla complessità del reale, sostituendo la riflessione e il dialogo con una definizione facile e di pronto utilizzo.
D'obbilgo perciò ricordare che dietro uno slogan c'è sempre un'idea o, non di rado, un'ideologia. E il rischio di degenerare e lasciarsi trasportare, più o meno consapevolmente, rimane costante. Scrive Hannah Arendt ne La banalità del male che la lontananza dalla realtà, unita alla mancanza di idee <<possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo>>. Riflettiamo dunque, e coltiviamo un atteggiamento filologico di fronte alla realtà quotidiana.
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