domenica 23 marzo 2014

Se la scrittura diventa spettacolo...

In questi giorni, riordinando libri, appunti, fogli volanti, quaderni e molto altro materiale accumulatosi negli armadi in cinque anni di studi universitari, ho ripreso in mano un agile testo letto e studiato qualche anno fa per un interessante corso di Teoria della letteratura. L'autore, Giulio Ferroni, è ordinario di Letteratura italiana all'Università La Sapienza nonché storico letterario e critico "militante". Il testo, pubblicato nel 2010, s'intitola Scritture a perdere e attua una sorta di diagnosi sulla letteratura italiana contemporanea; al contempo, all'analisi dei "mali", si accompagna una lunga serie di esempi negativi e qualche esempio positivo, nuove strade possibili per uscire da una situazione che sembrava all'autore (nel 2010) alquanto soffocante. A rileggerlo sono rimasto colpito: non solo gran poco mi pare cambiato rispetto all'analisi di Ferroni ma forse qualcosa è addirittura peggiorato...

Tra i concetti che sovente ritornano in Scritture a perdere, colpisce quello relativo all'eccesso di comunicazione a cui siamo continuamente esposti, eccesso che la sovrabbondanza di libri presenti sul mercato non contribuisce certo ad attenuare. Si parla troppo e si scrive troppo. Ma quale comunicazione si ha se quella esistente si riduce, per usare un'espressione di Ferroni, alla <<comunicazione del vuoto>>?
Altro fattore che Ferroni analizza è il nesso tra letteratura e, appunto, il mercato. E anche qui gli esempi si sprecano: dalle fiere, viste come segno di vitalità dai più e che invece si riducono spesso a mero accumulo di merce, ai festival, fino ai casi letterari studiati a tavolino da editor tanto abili quanto spregiudicati. Il tutto in un'orizzonte in cui la letteratura sempre più agisce in un mondo spettacolarizzato, in cui essa stessa diviene spettacolo. Si tratta di un fenomeno che ha investito in senso ampio la cultura italiana degli ultimi anni e che risulta ben noto anche a chi si occupa di letteratura contemporanea. Illusione di comunicazione quando invece a parlare è sempre un'unica, assordante voce. Scrive Ferroni: <<La cultura viene così ad essere parte della continuità del mondo dato, della comunicazione corrente, anche quando si pone con intento critico e dissacrante, e tanto più quando vuol essere esplicitamente e programmaticamente provocatoria, trasgressiva, alternativa. Non può dar luogo a esistazioni, a dubbi, a cura per il destino del mondo, ma si risolve in esibizione, compiacimento, spaccio di materiale consumabile>> (p. 28).

Consumo, mercato, esibizione, spettacolo: parole che abbiamo di certo già sentito, ma che l'acuta analisi di Ferroni e i suoi giudizi espressi senza giri di parole ripropongono fornendo anche qualche possibile via d'uscita. Tuttavia è sulla diagnosi che oggi vorrei ancora dire qualcosa, in particolare sull'invasione del reality e sulla fallace illusione di comunicazione che esso offre. Scrive ancora Ferroni: <<Tutto si esibisce e si mostra, tutto può essere oggetto di sguardi indiscreti, ognuno può ambire a trasformare la propria banale quotidianità in qualcosa di spettacolare>> (p. 20).

Non ho potuto non confrontare le parole dello studioso con una delle ultime trovate in fatto di reality/talent show, quel "simpatico" Masterpiece che mi è capitato qualche volta di scorgere in televisione. Chissà se Ferroni ci aveva pensato: un vero programma in cui scovare il futuro della letteratura! Quel poco che ho potuto vedere (mi annoiavo in fretta) mi ha lasciato perplesso e stranito. Compitini da eseguire in diretta, proclami intellettuali per l'avvenir, dichiarazioni di vita e arte, stroncature da parte di giudici supremi dallo sguardo accigliato e la testa pesante di pensieri... La scrittura (non mi sento di parlare di letteratura, della quale peraltro, per il poco che ho seguito, non mi sembra si sia parlato) è ridotta a puro spettacolo, con concorrenti più o meno disperati, più o meno casi umani, più o meno bravi a recitare di fronte alla telecamera e giudici sulla cui grandezza letteraria non è lecito nutrire dubbi. Ma se sono scrittori, non dovrebbero limitarsi a scrivere?

Perdonate lo sfogo, amici lettori, ma alla tristezza si unisce un moto di rabbia. Mi dispiace soprattutto che ci siano persone che si prestino, da una parte e dall'altra, a questa messinscena un po' pietosa, un po' tragica, un po' grottesca. Giocando sull'ambizione dei "dilettanti allo sbaraglio", chiedendo saggi di bravura in diretta, imbastendo discussioni sul senso dello scrivere come sulla vita e i suoi destini ultimi, giudicando tali prestazioni, dove si vuole arrivare? Si riduce, anche qui come in molti altri campi, la scrittura a gara, classifica, a eterna sfida per stupire, ammaliare e, quindi, arrivare primi. Senza parlare del fatto che ad ascoltare certi saggi ci si chiede dove le aspiranti promesse della letteratura abbiano imparato a scrivere, si perde di vista ciò che la scrittura è quando esercitata con onestà intellettuale: ricerca dell'essenziale, tempo di silenzio, scavo, riflessione sul generale e sul particolare. Riflessione, appunto. E perciò fatica, prima di tutto in colui che scrive.

Ritornare all'essenziale è una delle necessità che Ferroni sottolinea più volte, una soluzione ineludibile per uscire da questa <<comunicazione del vuoto>>. A ritrovarla, l'ho accostata ad una frase di Mario Rigoni Stern, che vorrei lasciare come saluto e augurio,  piccolo antidoto al "molto rumore per nulla" che ci circonda e che spesso, più o meno volontariamente, contribuiamo ad accrescere. Parlando di sé, Rigoni Stern una volta scrisse: <<Vivo ad Asiago, mio paese natale e terra degli avi, amo camminare per le mie montagne, sciare, coltivare l'orto; scrivo quando ho qualcosa da dire>>.


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