domenica 25 luglio 2021

Un pomeriggio d'estate per cimiteri di guerra

Erano anni che desideravo visitarli. Ogni volta che passavo per Dueville procedendo verso Bassano, ad una rotatoria vedevo il cartello British Cemetery e pensavo "Ora svolto". Ma ero sempre in ritardo o comunque atteso in qualche posto, mancava il tempo o il coraggio di imboccare l'uscita giusta. Così domenica scorsa mi sono detto "Ora vado sul serio". E non solo a quello di Dueville, anche nell'altro, scoperto su internet, di Montecchio Precalcino. A cinque chilometri dal primo.
Ho chiamato una cara amica che ha come me la passione per i cimiteri. Entrambi non vi troviamo nulla di macabro, anzi. Dai cimiteri si capisce molto più dei vivi che dei morti. E poi è bello passeggiare fra le lapidi indovinando le vite di coloro che ci hanno preceduto. Ha accettato subito.

Sono passato a prenderla alle tre, mentre una coltre di nubi color del piombo avanzava a schiere compatte dall'Altipiano al Summano. Guidando scrutavo le tonalità di grigio all'orizzonte e pensavo: "Non ce la facciamo, sarà acqua prima che possiamo arrivare". Ogni tanto un lampo di luce brillava fra le nubi. Sulla valle dell'Astico fioccava un acquazzone, la condensa che saliva e si disperdeva in vortici tondeggianti. Ho proposto di partire dal sito più lontano così da tentare di anticipare la pioggia. Idea accettata. Speriamo bene.

E dunque eccoci in viaggio per esplorare cimiteri inglesi della Grande Guerra. Dai finestrini aperti arrivava a ondate l'aria di pioggia proveniente dai monti. Abbiamo oltrepassato Dueville e imboccato una strada che un tempo si sarebbe detta di campagna, ora contornata di  villette e capannoni. Google dettava la rotta. A cinque minuti dall'arrivo ho pensato che forse ce l'avremmo fatta a fregare il temporale. Coraggio, ci siamo quasi.

Gli inglesi arrivarono in Italia dopo la rotta di Caporetto, in appoggio al provato Regio Esercito battuto dagli austro-tedeschi di Von Below e Borojević. E così ci sono rimasti i cimiteri: sull'Altipiano, sul Piave e qui, accanto agli ospedali da campo. Questo di Montecchio Precalcino, come del resto anche a Dueville, sorge accanto al camposanto italiano. Eppure, rispetto ai nostri vialetti di ghiaino, alle piastrelle, alle colate di cemento dei condomini-loculi, alle foto su sfondo azzurrino, pare di essere in un altro mondo. La mia amica è sorpresa anzitutto dall'erba curatissima, poi dall'ordine, dal senso di armonia che regna in questo angolo di mondo. 

Entriamo da un piccolo cancello. Intorno non un'anima. E mentre giro la maniglia torno di peso al 2014, al viaggio nelle Fiandre (ne scrissi qualcosa qui), ai cimiteri sparsi fra i pascoli e i campi di barbabietole, in mezzo a una pianura infinita, rotta solamente dalle tenui rotondità di colline che qui nemmeno diremmo tali: hill 62, hill 60... Ed ecco che dagli scomparti della memoria riaffiora il primo verso della canzone di John Mc Cree:

In Flanders fields the poppies blow...

In mano, oltre al taccuino per gli appunti e al telefono, tengo una copia del libro di G. Mosse Le guerre mondiali. Dalla tragedia al miti dei caduti. Questo il libro che mi ha insegnato a leggere e comprendere i cimiteri militari. Camminiamo in silenzio per qualche istante. Poi, seguendo i ricordi e leggendo qua e là fra le pagine, comincio a spiegare: indico le tombe allineate, spiego la differenza fra le sepolture dei regimi totalitari e quelle dei paesi democratici. Da una parte i templi-ossari, il recupero delle mitologie nordiche, la massa indistinta, l'esercito dei morti a difesa e baluardo dello Stato, Redipuglia, Cima Grappa, Laiten; dall'altra parte cimiteri sempre uguali eppure così caratteristici, a misura di singolo. Questo di Montecchio Precalcino poi sembra proprio una Spoon-River nostrana, benché un cartello illustri chiaramente come il suolo che calpestiamo sia britannico. Adagiato lungo il fianco della collina, pare sorvegliare la pianura sottostante. 

Continuo la spiegazione: si vede come onora i suoi caduti la democrazia liberale? Indico ancora le tombe, solo in apparenza tutte uguali: in alto lo stemma del reggimento, poi i dati del caduto; nella parte inferiore la parte che la famiglia poteva adattare: a volte resta bianca, altre volte una frase convenzionale, altre ancora parole che lasciano in silenzio, e scavano. Come quella per un ragazzo che ha l'età dei miei studenti che hanno appena finito la Maturità. Semplice, sobria, non ha bisogno di spiegazioni o commenti.

"Only a mother / knows the loss"

Sulle file di tombe, oltre quattrocento, dominano la Croce con la spada incastonata e la Pietra della Rimembranza, un altare che reca inciso un versetto dal Siracide: "Their name liveth for evermore". Fu Rudyard Kipling a suggerire queste parole. Era membro della prima War Grave Commission, creata nel 1917, e aveva perso l'unico figlio maschio in guerra. 

Saliamo alla croce. Lassù tira un'aria deliziosa proveniente dalle montagne. Ci guardiamo intorno. Poi suggerisco di scendere verso uno dei due portici che dominano gli angoli a monte. Dalla parte dell'ingresso riconosco la porticina del tabernacolo in cui, come in ogni cimitero britannico, si trovano il registro dei visitatori, la pianta del luogo e l'elenco dei caduti. In cinque minuti il discendente di un soldato qui sepolto potrebbe facilmente rintracciare il proprio famigliare.

Da lì scendiamo passeggiando fra le tombe, leggendo i nomi, osservando, pensando, scattando qualche foto coi cellulari. Il tempo sembra scorrere più lento qui. Alla fine ce ne andiamo sereni, dicendoci che questo cimitero è proprio un giardino: mette pace e non angoscia, non malinconia.

Dopo tre gocce di pioggia, in cielo le nubi diradano, spunta un sole invadente. Torna l'afa soffocante della pianura.

Il cimitero di Dueville è più piccolo e meno suggestivo. E non solo perché sorge lungo una strada di paese, a poca distanza da condomini venuti su senza criterio, ciascuno con uno stile diverso. Più forte e invasiva qui è la presenza del cimitero italiano. Più netto è il contrasto fra due visioni diverse della vita e della morte.  

Benché più piccolo rispetto al suo omologo di Montecchio, lo stile di questo secondo cimitero è identico: la stessa erba curatissima, le stesse lapidi, croce e Pietra della Rimembranza, come spesso accade per i cimiteri più piccoli, fusi in un unico monumento. Alle loro spalle tre cipressi svettano verso il cielo azzurro. Cerco di fotografare il tutto in modo da nascondere un orrendo ripetitore che si staglia sullo sfondo, oltre la succursale del cimitero comunale. Ma desisto sconsolato: da ogni parte il ripetitore appare, molesto, invadente. E allora decido di fotografarlo di proposito, sostituendolo ad uno dei due cipressi.

Facciamo il giro, passiamo fra le tombe. Anche qui nessuno oltre a noi. Osserviamo. Isolate rispetto alle altre, in fondo, due croci di pietra ricordano altrettanti caduti francesi. Ripenso al cimitero di Verdun, visitato da bambino in un giorno grigio di nebbia e pioggia sottile. Fra lo stile italico e il mondo anglosassone si potrebbe dire che i francesi stanno a metà, come nella carta geografica: la Repubblica, che non annichilisce il singolo come invece fa lo Stato nei regimi totalitari, e il simbolo cattolico.

Terminiamo il nostro giro con una visita alla parte vecchia del cimitero civile, passando accanto ad alcune tombe di famiglia dei primi del Novecento. Poi il sole e il caldo torrido ci spingono con veemenza verso la macchina. 
Ce ne andiamo con addosso la voglia di fresco. L'amica propone un gelato: conosce un posto non distante dove lo fanno buono.

Avvio la macchina e ci allontaniamo, scomparendo fra strade di campagna.    


domenica 18 luglio 2021

Libri da leggere: La via di Schenèr di Matteo Melchiorre

«L’indagine storica è un’esplorazione fatta di viaggi, carte, libri, sbagli, persone, pensieri, fantasie. In questo processo sensibile vi è forse più verosimiglianza di verità che nella secca enunciazione di risultanze distillate. Vorrei far capire a chi non si occupa di storia quanto l’andar sulle tracce di cose trascorse faccia sentir vivi e aiuti a sentirsi parte di un tutto e amici del presente» (La via di Schenèr, p.9).

Il bello del rumare è soprattutto il sapore della ricerca: ponderata, certo, se si cerca un libro in particolare, ma anche, e per me soprattutto, lasciata in balia del caso, dell’eventualità, del mistero fascinoso dell’ignoto.  È così che a volte ci si imbatte nei libri più impensati. Fedele al precetto che sono loro, i libri, a chiamarci, mi lascio trasportare, e trovare.

In questo modo mi ha incontrato La via di Schenèr di Matteo Melchiorre (Marsilio, 2016). L’avevo inizialmente scambiato per un romanzo, anche per via della fascetta che lo segnalava vincitore del premio “Mario Rigoni Stern 2017” (il premio alterna narrativa a saggistica), e invece, una volta sfogliatolo, ho trovato un saggio. Un saggio su un’antica via alpina, la via di Schenèr, appunto, che collegava Feltre con la valle di Primiero. Non ci ho pensato due volte e con pochi euro il libro è venuto a casa con me.

Classe 1981, Matteo Melchiorre è storico e ricercatore presso li IUAV di Venezia: si occupa di storia economica e sociale del tardo Medioevo e di edizione di fonti. Con La via di Schenèr ci racconta non solo un’indagine storica attorno ad un’antica via alpina, ma un microcosmo di relazioni, azioni, pensieri, sentimenti, un mondo in cui la piccola storia del mondo alpino e prealpino si lega alla grande storia degli Stati e degli Imperi, dei condottieri e dei principi, dei traffici commerciali e dei conflitti.

Lo fa trascinandoci in una ricerca sinuosa e coinvolgente che diviene, oltre che storica, personale, portandoci a riflettere su chi sia lo storico, quale il lavoro di andare per archivi, di leggere documenti: perché per quasi tutto il libro l'antica via di Schenèr appare indirettamente, attraverso le tracce lasciate nei documenti, siano relazioni, atti notarili, lettere o altro ancora, e solo alla fine, con abile costruzione narrativa, Melchiorre ci guida sul campo.

Fra ansia di scoperta, sogni, misteriose visioni notturne, momenti di solitudine e di sconforto come di esaltazione ed entusiasmo, Melchiorre ci trasporta nel vivo di uno scambio continuo fra presente e passato, narrandoci le fasi della ricerca e riportando in vita, dai documenti, diverse vicende di chi passava per quell’antica via che collegava la veneta Feltre coi territori tirolesi del Primiero o ci viveva intorno. Lo fa con un linguaggio vivo e con ironia ma, al contempo, con precisione e competenza, come dimostra una documentatissima bibliografia finale che svela come la ricerca effettuata sia tutt’altro che improvvisata.

Vincitore, oltre che del citato premio “Mario Rigoni Stern”, anche del premio “Cortina”, La via di Schenèr è dunque un libro da leggere non soltanto per conoscere una parte di mondo che per secoli si è sviluppato fra due importanti valli alpine ma anche per tornare a riflettere su cos’è la storia, su chi la dimentica, su chi a volte ce la fa riscoprire.