C'è nel dialetto veneto una formula breve ed efficace, una sententia direbbe Seneca, che dovrebbe regolare ogni conversazione, anzi, ogni forma di comunicazione parlata fra le persone; è una formula che quasi tutti dalle mie parti hanno appreso dalle mamme e dalle nonne: Prima de parlar, tasi! La traduco liberamente, cercando di tradurne il significato profondo: "Prima di parlare, stattene zitto, pensa, rifletti, onde evitare di fare figure magre o, come si dice sempre dalle mie parti, da ciòdi".
Prima de parlar, tasi! Questa formuletta mi ha accompagnato negli ultimi dieci giorni: saltava fuori all'improvviso, talora con leggerezza e talora con fare impertinente, ogni volta che, con mezzi diversi, mi giungevano notizie di quanto accadeva nel vasto mondo. Sono stati dieci giorni che non occorre descrivere: gli attentati di Parigi, le volontarie liberate, il viaggio del papa nelle Filippine, le notizie dal medio oriente...
Nulla di troppo nuovo in fondo, verrebbe da dire, se non, forse, per la drammatica successione degli eventi. Non è di questo, però, che vorrei scrivere oggi, bensì di una riflessione che ho maturato in questi giorni a seguito di questi fatti e, soprattutto, a seguito del tanto parlare sopra di essi cui abbiamo assistito. In dieci giorni ne abbiamo sentite di tutti i tipi, in tutti i toni, con tutte le sfumature possibili; si son visti nascere o rinascere esperti di questo o di quest'altro argomento, si sono scritti editoriali, articoli da prima o da (fu) terza pagina, lettere aperte, comunicati stampa, post di ogni genere prontamente decorati da pollici all'insù e altrettanto prontamente condivisi sui social.
Io ho pensato al mio paesello, alla corte di casa mia e alla mia nonna paterna che, agitando davanti al mio naso una mano talmente rigida da parere inamidata, mi diceva: Prima de parlar, tasi!
Capisco la necessità di parlare - dicevo fra me in questi giorni - di esprimersi, di dire la propria e di cercare di farlo per mettere ordine in un caos che sempre più ha le dimensioni del pianeta, tuttavia quale incredibile profluvio di parole, parlate e scritte! E se queste parole aggiungessero caos al caos?
Ho così ripescato un passo da Esattezza, una delle Lezioni americane di Italo Calvino, e l'ho trovata illuminante. Scriveva il buon Italo trent'anni fa:
«Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto».
Ecco, appunto. La differenza, fondamentale direi, fra parlato e scritto sta, o dovrebbe stare, nell'eliminare quel «modo approssimativo, casuale, sbadato». Qualcuno potrà obiettare che Calvino si riferiva alla scrittura con scopo artistico, quella scritta per diventare ciò che chiamiamo Letteratura, e che esistono scritture più immediate fatte per comunicare e basta: quella giornalistica o quella dei social, ad esempio. Corretto. Tuttavia anche chi obietta dovrebbe riconoscere che la scrittura possiede, per suo statuto, un filtro in più, se non altro per dover fisicamente uscire da noi attraverso un passaggio ulteriore rispetto alla volatile parola pronunciata. Ecco il centro della mia riflessione: la velocità del mondo e la facilità con cui le parole volano oggi mi pare abbiano allentato, e di molto, questo filtro. Non ce l'ho col fatto che tutti scrivano, non sia mai! Ce l'ho, se proprio devo dire così, col fatto che molti scrivono senza riflettere, sull'onda del caos, siano essi privati cittadini che postano in bacheca su facebook o giornalisti con fame di scoop. Parole, parole, parole... E parole che, per quanto scritte, hanno lo stesso tono e la stessa consistenza di quelle parlate o, non di rado, urlate. Non ci si documenta, non ci si premura nemmeno di riflettere, l'importante è battere il proprio tamburo un po' più forte degli altri.
In tutto questo vorticoso frastuono, bra che sempre più la parola scritta si avvicini alla parola pronunciata, e non solo ad essa, ma anche alle immagini, come in quelle tabelle (come si chiamano?) che imperversano su facebook con una foto di un personaggio celebre e la loro
Ora, invece, torno a studiare carte e a preparare lezioni; non prima, però, di aver fatto eco alle parole di mia nonna e di Calvino con quelle di un altro grande autore che mi aiuta a non perder del tutto le speranze nel frastuono quotidiano. Ancora una conferenza, scritta e pronunciata a Vicenza nel 1984 da Luigi Meneghello, intitolata L'esperienza e la scrittura e oggi contenuta in Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte (BUR). La dedico a me e a chi ha la pazienza di leggermi. Consideriamola una pastiglia contro l'"influenza" di questi tempi concitati:
«C’è ancora, almeno per me, una strana funzione dello scrivere: mi pare un ottimo mezzo per difendersi dall’eccesso delle comunicazioni specialmente parlate a cui si è esposti, la marea della pubblicità, il chiasso, il troppo e il vano nel quale ci troviamo immersi. Scrivendo ho l’impressione di usare un filtro, o forse si tratta di un altro tipo di aggeggio, che mi dà il senso di non dover gridare tra gente che grida. È così che scrivere, per me, è quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c’è, cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle che paiono un po’ meno sbagliate, un po’ meno goffe o vacue o sguaiate».
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