Frutto di un viaggio compiuto nel 1922 a bordo di un veliero, Gente di mare è un capolavoro oggi poco conosciuto del grande scrittore veneto Giovanni Comisso. Con sguardo attento e capacità rara di penetrare il senso profondo di luoghi e persone, l'autore ci accompagna, attraverso i suoi racconti, fra le genti delle diverse sponde dell'Adriatico: vite legate al mare e alla terra, vite continuamente segnate dalla fatica di ogni nuova partenza e da ogni nuovo sospirato approdo.
Al libro, pubblicato nel 1928, fu assegnato l'anno seguente il premio Bagutta.
Ne riporto l'incipit con la speranza di far nascere il desiderio di scoprirlo o di riscoprirlo.
«Si arriva per prati d'acqua, dopo avere rasentato paesi costruiti come scene di teatro di altri tempi e panorami di alberi con terreni erbosi di un verde prepotente sul precipizio azzurro del mare.
Il vaporino attracca al molo arioso e subito ci accolgono i più vivaci sorrisi accresciuti dalla luce. La città è un aspro guscio d'ostrica dove tra riflessi di madreperla la vita fermenta. Sui gradini del primo ponte, vecchi pescatori curvi e frettolosi raggiustano le reti bruciate dal salso, tenendole tese con le dita dei piedi. Più avanti ci s'accorge del temperamento isolano della gente, insistente a guardarci e a commentare sulla stoffa del nostro pastrano. Altri vecchi, puntigliosi e pettegoli, seduti su piccole sedie rattoppano una vela e tra le grosse pieghe spuntano i loro piedi con lucide ciabatte da donna. La calle rasenta il canale fitto di barche. Forti ragazzi camminano abbracciati e sorridono. Botteghe di verdura e di frutta sembrano vuotarsi sul selciato sconnesso. Tutti parlano a voce alta con la stessa intonazione come fossero a bordo dei loro velieri tra il vento che disperda i comandi. Spesso l'aria viene lacerata da grida astiose che risentono della lotta con il mare. Le donne sembrano create dopo un fortunale di scirocco che abbia allenato all'amore le braccia dei marinai: tanto ànno di ventoso nel capo e di patito nel corpo. Ma le giovinette incantano per meraviglia. Rinchiuse nelle piccole case, la noia le accende negli occhi verdastri, il collo su dalla centina delle spalle à tutto il desiderio di un mozzo che voglia scoprire la terra per primo e l'agilità a ogni mossa di vertebra non si nega, pure camminando sui duri zoccoli sbattuti per il dispetto di essere prigioniere nella città isolata. Sgusciano e sfuggono. Nell'ombra dei portici altre chinano i loro pensieri su di un lavoro di bianchi merletti come sopra alla muta apparizione del corpo amato. Sono state raccontate iniziative fantastiche di perdimento concesse in favore del ricco forestiero e siamo tentati a credere dallo sguardo penetrante e di agguato di certe vecchie nascoste dietro all'imposte socchiuse.
Seduti per terra, luridi di sole e di polvere, i bambini sono innumerevoli, quasi si pestano, sono come cuccioli che non riescano a spostarsi con le zampe non ancora congiunte da muscoli, ma dai ponti scendono e dalle barche attraccate spiccano salti i ragazzi già compatti nel corpo da arcieri. Ànno una turgidezza africana nel petto, il capo rotondo si volge libero sul collo brunito e nel camminare con i larghi piedi scalzi imitano tutta l'eleganza delle onde. I vecchi dagli occhi lustri strisciano rasente ai muri, foschi di fermento e di rabbia come per essere dovunque respinti».
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