Può una normale vacanza
trasformarsi in un viaggio a ritroso nel tempo? Sì, se si toccano luoghi in cui
la storia ha lasciato traccia del suo passaggio. E per la storia della
Resistenza in particolare, poche province quanto quella di Cuneo possono
contare memorie tanto numerose e importanti: luoghi, lapidi, monumenti, ma
anche pagine indimenticabili scritte da altrettanti autori e autrici che alla
Resistenza sono legati indissolubilmente. Nomi come quello di Duccio
Galimberti, di Dante Livio Bianco, di Nuto Revelli, di Giorgio Bocca, di Ada
Gobetti, di Lalla Romano per Cuneo e le sue valli alpine, di Beppe Fenoglio per
Alba e le Langhe.
Nata come vacanza “francese”
con Nizza e i suoi musei – e in particolare il meraviglioso museo Chagall –
come meta, la seconda settimana di agosto si è trasformata per me e per una
coppia di cari amici in un viaggio che ha incrociato di continuo le tracce della
Resistenza in terra piemontese. Per alleggerire il viaggio di avvicinamento a
Nizza infatti, in fase di pianificazione decidiamo di pernottare, sia
all’andata che al ritorno, in Piemonte. La prima notte sarà dunque nella zona
di Cuneo. E qui, complici forse le numerose letture resistenziali, lancio agli
amici la proposta: “Vi va qualcosa in valle Stura anziché in centro città?”. Presto
fatto: prenotiamo in un B&B a Gaiola, appena dopo Borgo San Dalmazzo. È
così, quasi senza pensarci, che è iniziato il nostro viaggio nella memoria.
Cuneo
Il primo giorno di vacanza visitiamo Cuneo. È una città sabauda nell’aspetto e nell’impianto, specie nella sua parte più moderna: viali alberati, stemmi reali e facciate Liberty. Sorge alla confluenza delle valli Stura e Gesso ed è il primo centro importante che si incontra scendendo dal confine con la Francia. Una via obbligata per giungere in Italia, dall’antichità a oggi. Ma Cuneo è anche, e soprattutto, città di Resistenza, Medaglia d’oro al valor militare. Così la prima tappa della nostra passeggiata in centro ci porta in corso IV novembre: qui, al civico 8, una lapide ricorda la morte di Sandro Delmastro, ufficiale di marina e partigiano di Giustizia e Libertà, ucciso da un quindicenne della legione “Ettore Muti” mentre tentava di fuggire dopo l’arresto.
La lapide è incastonata fra due finestre di un edificio razionalista dei tempi del regime. E guardandola è difficile non emozionarsi: Sandro era l’amico di arrampicata di Primo Levi, colui che iniziò il futuro scrittore all’alpinismo, vissuto da entrambi come palestra di libertà negli anni bui che precedettero il secondo conflitto mondiale. Di lui Levi ha tracciato uno splendido ritratto nel racconto Ferro, contenuto nel Sistema periodico: «Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda» (P. Levi, Tutti i racconti, Einaudi, Torino 2005, pp. 402-03). Partigiano dopo l’8 settembre, Sandro fu ucciso il 4 aprile 1944. Della sua morte fu testimone Anna, allora fidanzata di Nuto Revelli.
Proseguiamo la nostra visita
guardandoci intorno attentamente. Numerose sono infatti le tracce della
Resistenza in centro, nelle lapidi che punteggiano le strade così come nella
toponomastica, basti pensare che la piazza più grande di Cuneo è dedicata a
Duccio Galimberti, intellettuale antifascista e figura di primissimo piano
della Resistenza. Catturato a Torino nel novembre 1944, Galimberti fu torturato
e sfigurato dai fascisti prima di essere finito a colpi di pistola. Gli saranno
conferiti la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria e, da parte del CLN
piemontese, il titolo di eroe nazionale. Oggi la sua casa è un museo: purtroppo
la troviamo chiusa e non riusciamo a visitarla. Peccato.
Paraloup
Ci sarebbe davvero moltissimo da visitare in queste zone: Borgo San Dalmazzo, per esempio, e più ancora Boves, piccolo centro in cui si consumò, nel settembre 1943, la prima di numerose stragi operate dai nazifascisti in Italia. Dovremo di sicuro ritornare, con più calma e magari con un clima più mite. Fra le mete disponibili, nel pomeriggio, scegliamo come meta Paraloup, un luogo che da anni mi aspettava, il cui nome già da solo basta a evocare suggestioni: Paraloup significa infatti ‘al riparo dai lupi’.
Nata come borgata di pastori, sorge a 1350 metri di quota nel comune di Rittana. Dopo l’8 settembre divenne la base per le formazioni “Italia libera” di Giustizia e Libertà che operavano nelle valli sopra Cuneo. Qui passarono Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca e Nuto Revelli, che a Paraloup ha dedicato pagine bellissime nel suo La guerra dei poveri. Vera e propria terra libera, qui si discuteva di politica, di società e di futuro. E qui, dopo decenni di abbandono seguiti alla fuga dalle montagne nel dopoguerra, da qualche anno è in atto un progetto di recupero che ha riportato in vita la borgata, restituendole la vocazione a luogo di incontro, di cultura e di scambio di esperienze, anche grazie a un innovativo progetto di restauro. Giovani tornati a vivere in montagna gestiscono un piccolo rifugio e accolgono il visitatore attraverso le baite, spiegando gli usi che esse avevano durante la Resistenza.
A Paraloup arriviamo attraverso
una carrareccia di montagna, dopo mezz’ora di camminata. Nulla di difficoltoso,
ma anche quassù il caldo di questa prima decade di agosto si fa sentire. Eppure
basta un sorso d’acqua alla fontana appena fuori dall’abitato per ristorarci e
immergerci in un mondo che sa di passato e di futuro al contempo. Estraggo
dallo zaino la mia copia de La guerra dei poveri e dopo una foto di rito
cominciamo a passeggiare fra le case accompagnati dalle parole di Revelli: «14
febbraio. La “mensa” e la “sala riunioni” di Paraloup sono nello stesso locale,
nella stalla più grande. In una grangia accanto, la cucina e il magazzino
viveri: nelle altre baite, cinque o sei, i dormitori. È strano, ma queste
povere baite di Paraloup, diroccate, che affondano nella neve, mi riportano a
Belogore, fra le povere isbe dalle pareti nere di fumo e dai tetti sconnessi,
fra le tane scavate sotto terra, sul Don» (N. Revelli, La guerra dei poveri,
Einaudi, Torino 1919, p. 153).
Entriamo in una sala video. Qui un
documentario interattivo presenta la storia della borgata dalle sue origini al
progetto di recupero; il filmato si conclude coi volti dei giovani, ragazze e
ragazzi, che hanno deciso di tornare a vivere in montagna, sulle orme dei loro
avi. E dei partigiani.
Al rifugio chiediamo da bere qualcosa
di tipico. La ragazza che serve al banco ritorna poco dopo con tre pastis, che
sorseggiamo chiacchierando con lei: viene dalla Puglia e ha conosciuto Paraloup
all’Università. È venuta quassù e si è innamorata del posto. Le chiediamo altre
informazioni e lei chiama una sua collega della fondazione Revelli, che ci apre
anche le baite che prima non abbiamo visitato, quella dedicata alle donne e
quella che Revelli chiamava «sala riunioni», oggi centro culturale con tavoli e
biblioteca. Paraloup è un posto davvero magico: quassù si respira un’aria affatto
diversa da quella del mondo di giù. Qui il silenzio e la memoria viva
sovrastano il rumore e le parole vane di un’Italia caciarona e volgare in
perenne campagna elettorale. Ripartiamo a malincuore ma, al contempo,
corroborati e pieni di speranza, come dei pellegrini, con la promessa di
ritornare.
Il confine
Il giorno seguente, dopo una visita a Demonte, patria di Lalla Romano, e al suggestivo santuario di S. Anna di Vinadio, giungiamo in Francia attraverso il Colle della Lombarda, a 1350 metri di quota. Sul confine, che oggi si nota appena per il cambio di lingua sui cartelli, il passato riemerge attraverso i resti delle fortificazioni militari, ruderi di caserme, feritoie scavate nella roccia e bunker che ci scrutano silenziosi. Di qua il “vallo alpino” italiano, dall’altra, appena si comincia a scendere, le fortificazioni francesi.
Fantasmi di un’epoca di confini armati che conduce in un lampo il pensiero al presente e ai suoi nuovi muri, dentro e fuori d’Europa. Osservo le feritoie e la memoria corre a una frase di Mario Rigoni Stern. Nel 1940, quando l’Italia dichiarò guerra a una Francia ormai sconfitta ma che sulle Alpi resistette con valore all’aggressione mussoliniana, Mario si trovava in Valle d’Aosta, all’estremo nord di questa catena di fortificazioni. Era a pochi passi dal confine con un paese in guerra, eppure, come “le montagne erano uguali”.
Prima di scendere verso Nizza passeggiamo
per alcuni minuti sul crinale. Getto lo sguardo a terra, attratto da un
cilindretto di ferro arrugginito. È quanto resta di un bossolo di ferro. Un
brivido mi coglie prendendolo in mano: questo genere di bossoli venne
realizzato nell’ultima parte della guerra, quando ormai nelle industrie
tedesche e italiane scarseggiava il più prezioso ottone. Allora ripenso a
Revelli, a quando, nel suo libro, parla delle offensive estive dei tedeschi per
occupare i valichi alpini, divenuti per loro fondamentali dopo lo sbarco
alleato nel sud della Francia. E sì, anche questo pezzetto di ferro arrugginito
allora può raccontare la storia.
Mondovì
Poi, passeggiando per la piazza, scopro ancora una lapide ai partigiani caduti. E stavolta a tornare alla memoria è la frase che Meneghello in Libera nos a malo getta in faccia al lettore al termine della divertente gara di arrampicata dei brombóli (i maggiolini) sulle pareti del monumento ai caduti della Grande Guerra poco sotto il santuario di Santa Libera: «Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?».
Alba
L’ultimo giorno, ormai sulla
via del ritorno, facciamo tappa ad Alba, dove giungiamo dopo aver attraversato
le Langhe. Qui di nuovo e per lungo tempo la vista deve sopportare i danni
causati dalla siccità. Nubi di polvere bianca si alzano dai campi dove possenti
trattori arano una terra che sa di polvere. Eccole, oggi, le colline degli
antieroi di Fenoglio, di Johnny e di Milton. E pare impossibile che possano
essere le stesse. Nelle pagine dello scrittore di Alba è onnipresente il fango,
specie nei giorni della leggendaria quanto effimera presa della città da parte
delle forze partigiane, nell’autunno del 1944.
Prima di entrare in centro facciamo tappa al cimitero.
È immenso, strutturato su più sezioni, come pezzi di un puzzle assemblato in tempi diversi. La parte dedicata ai caduti della Resistenza, che scopriamo per caso, tocca il cuore: un recinto interno di ferro scuro, a terra un’erba perfettamente curata, verdissima. E per ciascuna tomba una piccola lapide di granito col nome, il cognome e la dicitura ‘partigiano’. Poco dopo, ancora una volta senza averlo cercato, scopriamo, a ridosso di un muro di cotto ricoperto di intonaco bianco, un monumento che ricorda sei uomini fucilati dai nazifascisti. Sostiamo in silenzio prima di avvicinarci al muro. I fori delle pallottole sono ancora lì. Sotto l’intonaco il rosso-arancio dei mattoni.Curioso, penso: abbiamo iniziato il
nostro viaggio rendendo omaggio a Sandro Delmastro e ora eccoci qua, di fronte
a un altro partigiano. Partigiano e scrittore. Ce ne andiamo in silenzio mentre
in testa risuona una frase, forse la più famosa del Partigiano Johhny: «E
pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina,
guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del
giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno» (B.
Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 2005, p. 392). Quando,
nel primo pomeriggio, risaliamo in macchina sappiamo che in questa settimana
non ci siamo mossi soltanto nello spazio. Abbiamo percorso oltre mille
chilometri, ma il nostro è stato anche un viaggio nel tempo. Nel passato,
certo, ma anche nel presente. Perché a vivere oggi serve la memoria.
Soprattutto per vivere oggi.
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