Un paio di settimane fa mi è accaduto un fatto curioso. Ero al bancone della biblioteca di Storia (il fu dipartimento di, ora parte del più ampio Disgea, di cui fanno parte anche le robe che ho studiato in questi anni) quando mi si è avvicinato un giovane docente, bravo, assai preparato, del quale avevo seguito un corso un paio d'anni accademici fa. Giunto a pochi passi, dopo un cordiale saluto, mi ha chiesto come procedeva.
- Insomma - ho risposto, accennando al progressivo deperimento di salute cui va incontro ogni laureando, specie quelli che si occupano di cose scritte.
L'ulteriore battuta del docente mi ha colpito.
- Eh sì - ha sorriso, - leggiamo troppo e scriviamo troppo...
Il tono di voce era inequivocabile: più che sul leggere puntava tutto sullo scrivere. Ho sorriso tra me e ho annuito. Gli davo ragione, pienamente. Detta da un "interno" all'ambiente accademico poi, quella frase superava la semplice constatazione per assumere un sapore dolce e insieme asprigno, come proprio di certe arguzie che si colgono più fuori che dentro la parola.
Sentendomi specialiter coinvolto e avendo ripensato spesso in questi giorni alla frase, mi sono come sempre lasciato andare a paralleli, collegamenti, suggestioni. Scriviamo troppo, questo è innegabile. Sarebbe però poco saggio, da parte mia, lamentare con eccessiva enfasi la cosa e lanciarmi in invettive ex cathedra (quale poi?!) contro lo spreco di parole cui assistiamo quotidianamente. Del resto altri lo fanno con maestria, e lamentandosi sempre un po' di tutto, si aggiungono più o meno consapevoli al coro.
Ad ogni modo, che ci si senta o meno il Giobbe di turno, per comunicare, specie nel mare degli internauti, si scrive. E forse metà dell'umanità si è già ridotta a leggere quello che scrive l'altra metà, come scriveva (!) già Italo Svevo nel suo incompiuto Vegliardo parlando di «letteraturizzazione» della vita. Quello che però poco si nota citando, non di rado a sproposito, il passo in questione è che la scrittura proviene dal raccoglimento, «unica parte importante della vita», come viene definita.
Se la prendiamo in questo senso, allora sì che la scrittura assume un valore altro. Il raccontare, il ricordare, il riflettere, il capire divengono funzioni della parola, per cui essa risulta indispensabile: «Scrivere è confessarsi, è donarsi; scrivere è
liberarsi. Io non posso non scrivere» scriveva (!) fra David
Maria Turoldo ormai al termine della sua vita. «Scrivo quanto ho qualcosa da dire» soleva ripetere il vècio dell'altipiano, Mario Rigoni Stern.
Scrivere per conoscere, per comprendere, per liberarsi. Per dare forma, ordine, per ricondurre ad uno schema comprensibile il groviglio di realtà in cui ci troviamo immersi. E se anche, per ampliare un concetto ben espresso da Primo Levi, scrivere comporta inevitabilmente semplificare, altrettanto vero è che scrivere è funzione del capire. Sarà cura poi di chi scrive (o dovrebbe esserlo!) scegliere quanto proporre ad altri e quanto tenere per sé. Ecco, forse il problema oggi è proprio questo: si mette in vetrina anche quello che sarebbe meglio tenere in magazzino. Concludo dunque con un buon monito che ci viene da Luigi Meneghello:
Scrivere per conoscere, per comprendere, per liberarsi. Per dare forma, ordine, per ricondurre ad uno schema comprensibile il groviglio di realtà in cui ci troviamo immersi. E se anche, per ampliare un concetto ben espresso da Primo Levi, scrivere comporta inevitabilmente semplificare, altrettanto vero è che scrivere è funzione del capire. Sarà cura poi di chi scrive (o dovrebbe esserlo!) scegliere quanto proporre ad altri e quanto tenere per sé. Ecco, forse il problema oggi è proprio questo: si mette in vetrina anche quello che sarebbe meglio tenere in magazzino. Concludo dunque con un buon monito che ci viene da Luigi Meneghello:
«Scrivere, per me, è quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c'è, cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle che paiono un po' meno sbagliate, un po' meno goffe o vacue o sguaiate».
(Jura, 2003, p. 70).
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