La riflessione di oggi mi viene da un breve
dialogo scambiato con un amico e collega tra gli scaffali della biblioteca di
greco, a Padova, qualche giorno fa. Gli chiedevo spiegazione di un curioso post
da lui pubblicato su facebook: "L'uomo ha creato i libri a sua
immagine" diceva, e proseguiva con un'affermazione che mi era parsa
provocatoria, una sorta di sententia: "Siamo libri". Mi ha
detto che l'ispirazione gli era venuta da Fozio, nome noto agli antichisti ma
che dice poco o nulla ai più.
Fozio era uno che amava i libri. Patriarca di
Costantinopoli per due volte, e per due volte deposto, visse nel IX secolo, in
un periodo particolarmente burrascoso in cui la Chiesa ortodossa si scontrava
con quella cattolica romana a colpi di concili e reciproche scomuniche,
sancendo a poco a poco una divisione che, nonostante i cambiamenti seguiti al
Concilio Vaticano II, perdura tuttora. Ma non è per questi motivi che Fozio
viene ricordato (e celebrato) da chi studia il mondo antico, bensì per aver
redatto un'opera, la Biblioteca, che ha permesso di trasmettere, almeno
in parte, molti testi altrimenti irrimediabilmente perduti. Fozio legge gli
Antichi, e di quanto legge dà conto: riassume (nel gergo del settore
"epitoma"), commenta, ma soprattutto salva testi dal Lete, il fiume
che per gli Antichi rappresentava l'oblio. La sua, chiaro, è una scelta
personale, come accadrebbe se ciascuno di noi desse conto delle proprie letture
e ne fornisse estratti, riassunti, commenti.
Fozio
dunque con la sua opera ha salvato una notevole quantità di libri. Ma non solo,
li ha riscritti "a sua immagine" e al contempo da essi è stato, per
così dire, scritto. L'idea, non lo nascondo, mi ha suscitato una certa
emozione. Noi creiamo i libri ma, al contempo essi creano noi, ci cambiano, si
trasfondono in chi legge. Non è certo un'affermazione straordinaria: ciascuno
potrà riconoscerne la verità e verificare nella storia, anche personale, casi
più o meno eclatanti di libri che cambiano chi li legge. Ma mi è sembrato
interessante darne nota, anche alla luce di una recente lettura. Citavo nel
penultimo post un libro dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, acquistato per
quasi nulla in un mercatino; il libro s'intitola Una solitudine troppo
rumorosa. Ebbene in esso, un racconto lungo scritto con un linguaggio
poetico e, insieme, con uno stile denso, vicino al flusso di coscienza, una
delle idee chiave è esattamente la stessa. Il protagonista è un operaio che da
trentacinque anni lavora ad una pressa tritacarta. Trita e schiaccia ogni tipo
di carta tra cui, inevitabilmente, moltissimi libri. Ed a contatto con questi
libri Hanta, così si chiama il protagonista, si avvicina alla lettura e agli
autori che i libri li hanno scritti, al loro pensiero, soprattutto alle loro
parole. Legge Hanta, fino a divenire suo malgrado istruito. Col suo operare non
salva la cultura o la storia, sostiene il curatore dell'edizione che ho
(Einaudi, 1991), se non nel fatto di ricreare a sua volta. Ma, oserei
aggiungere, oltre a ciò e prima di ricreare Hanta assume, succhia dai libri. Se non
salva, tuttavia si salva.
«Contro
la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono
miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni
mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo
in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come
una caramella, come se sorseggiasi a lungo un bicchierino di liquore, finché
quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a
lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene
fino alle radicine dei capillari» (p. 3).
Chissà
quanti altri paralleli si potrebbero creare a partire da questa
suggestione: libri scritti ma anche libri che scrivono; libri salvati ma,
anche, libri che salvano. Non proseguo oltre e lascio ciascuno i collegamenti
che potranno sorgergli.
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