Riflettevo in questi giorni, complici, ancora una volta, le accademiche incombenze, sul concetto vastissimo di utopia e sulle sue trasposizioni letterarie. E quasi subito mi sono trovato a dover correggere il tiro del ragionamento: non di trasposizioni, infatti, si dovrebbe parlare, ma, forse, di manifestazioni, di realizzazioni. Se poi è vero che materia e forma non sono mai, alla fin fine, troppo separabili in un testo, che il contenuto si manifesta solo attraverso la sua forma, è facile giungere alla conclusione che se di utopia vogliamo parlare dobbiamo necessariamente tener presente che essa nasce in relazione ad un testo letterario. L'utopia, divenuto concetto filosofico, politico e molto altro, nasce in realtà come creazione della letteratura.
Il concetto di utopia, che significa 'non luogo' (dal greco 'ou', cioè 'non' e 'topos', cioè 'luogo'), è creazione dell'età moderna. Lo troviamo per la prima volta in Thomas More, il "nostro" Tommaso Moro, celebre umanista inglese, fatto decapitare da Enrico VIII nel 1535 per essersi rifiutato di riconoscere l'Atto di supremazia, con cui il rosso sovrano proclamava il re d'Inghilterra (nel qual caso lui stesso) capo della Chiesa inglese. Nella sua Utopia (1516), Moro conia dunque il termine, anche se, come alcuni sottolineano, nell'opera non è chiaro se si insista più sul significato di un luogo che non c'è o di un luogo beato ('eutopia', da eu', cioè 'bene'): nella seconda parte di Utopia si assiste infatti alla descrizione di un mondo ideale. Una felice coesistenza, quella fra i due concetti, ravvisabile tanto nella letteratura seguente quanto in quella precedente, in cui pure sono ravvisabili caratteristiche di mondi ideali. Sarebbe impossibile fornirne un elenco, ma spesso, spessissimo proprio per essere luoghi in cui la felicità è per tutti piena e senza tempo i luoghi utopici sono luoghi del non, possibili nella fantasia ma non nella vita, anche in quella rappresentata dalla fantasia. Al contempo, però, tutti avvertiamo l'attrazione per il paese di Utopia, sia esso un futuro possibile o un paradiso perduto.
Storicamente è tra Cinque e Seicento che il concetto di utopia si diffonde. Dopo Moro, altri due grandi pensatori e scrittori vi si dedicano, sancendo la nascita di un vero e proprio genere letterario: Francis Bacon (Francesco Bacone) con New Atlantis (La nuova Atlantide), pubblicato nel 1627, e Tommaso Campanella con la sua Civitas Solis (La città del Sole), pubblicato nel 1623. Testi diversi, di autori diversi (un pensatore-politico futuro santo, un politico-pensatore, un frate domenicano perseguitato dalla Chiesa di Roma).
Da allora (ma, in fondo, anche da molto prima) quante realizzazioni! Quanti mondi ideali, quante teorizzazioni, quanti luoghi di felicità tra le pagine dei libri... Nel Novecento, poi, il concetto, e il genere sono rovesciati: da luogo ideale di felicità la letteratura arriva a mettere in scena mondi orribili, ipotetici futuri di sopraffazione e morte. Si è giunti alla 'distopia', mirabilmente impressa in testi, per citarne solo un paio tra i più importanti, come 1984 di George Orwell o Farenheit 451 di Ray Bradbury.
Da suggestione nasce suggestione: se allargassimo il discorso, non è forse tutta la letteratura un luogo-non luogo, espressione di dimensioni, vite, esperienze che non sono ma che al contempo sono? Mi fermo, ricordandomi che questo è uno spazio di brevi riflessioni e non di "parole da tesi". Vi saluto allora con una piccola provocazione che mi viene dalle parole di Wislawa Szymborska, poetessa polacca scomparsa poco meno di due anni fa, premio Nobel per la letteratura nel 1996. Si tratta della parte finale di una poesia intitolata appunto Utopia, un'isola, come viene rappresentata sin dal primo verso.
Malgrado le sue attrattive l'isola è deserta,
e le tenui orme visibili sulle rive
sono tutte dirette verso il mare.
Come se da qui si andasse soltanto via,
immergendosi irrevocabilmente nell'abisso.
Nella vita inconcepibile.
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