Inverno strano quello finora trascorso. Quando, di ritorno da Padova, esco per fare due passi tra i sentieri del Paese silenzioso me ne rendo conto senza timore di sbagliare; ma anche in città, in quei piccoli spazi in cui la natura non è del tutto soffocata da asfalto e cemento, è possibile accorgersene. Al clima eccessivamente mite si è accompagnata in queste ultime settimane un'umidità abbondante.
- Sembra di essere a marzo - commentava giovedì una signora davanti a una bancarella di Piazza della frutta, chiacchierando con un'amica.
- Pare novembre! - chiosava invece un paesano con cui parlavo un paio di settimane fa.
Ma non è questa una rubrica meteorologica. Sfrutto oggi lo spunto offerto da questo bizzarro inverno per proporre quel genere di riflessioni che più mi piace fare, creando commistioni (e, a volte, cortocircuiti!) tra i libri e quella che chiamiamo realtà.
Dunque, mentre l'altra sera ritornavo in treno attraversando l'ormai consueto mare di nebbia, ho giocato a pensare ad autori o libri in cui si possa trovare un'attenzione particolare alle stagioni. I nomi si sprecano, ovvio, e ciascuno potrebbe proporre una propria lista più o meno estesa. Ripercorro solo alcuni titoli e nomi passatimi per la mente. Forse per contrasto, mi è tornata in mente l'estate eccezionalmente torrida che fa da sfondo a Delitto e Castigo, poi ho pensato alla steppa di Cechov e ad un racconto in particolare di cui parlai qualche tempo fa; dalla steppa sono arrivato all'altopiano di Asiago e al vècio: tutta la sua opera è intessuta di attenzione per il tempo scandito dalle stagioni, stagioni che hanno dato non a caso il titolo al suo ultimo libro.
Sergio Tofano, "Marcovaldo", ed. 1963. |
Poi, a causa di esperienze vissute ultimamente, sono arrivato a Italo Calvino e al suo Marcovaldo, un libro letto da ragazzino ma che ho ripreso in mano a inizio dicembre. Chiamato a tenere un piccolo seminario sulla narrativa presso l'Università degli Adulti di Montecchio, l'avevo proposto, assieme ad altri, per leggerlo e analizzarlo insieme. La scelta è caduta proprio su di esso, libro di "favole moderne", come lo chiama l'autore, quasi apologhi, tuttavia narrati con leggerezza e ironia.
Marcovaldo, di professione operaio (nel testo 'manovale'), vive in una non meglio specificata città del nord Italia a cavallo tra gli anni '50 e '60. Vive in città, ma è insofferente per quanto di più tipico la città offre. Il suo sguardo, poco abituato alla vita urbana, insegue piuttosto tutto quanto c'è di naturale, che conservi in qualche modo la freschezza della terra e del cielo. La natura che cerca Marcovaldo tuttavia, pur essendo egli mosso da un istinto autentico, è sempre un po' ideale. Direi, addirittura, artificiale. E l'autore non perde occasione per dipingere, con precisione e insieme con ironia, le disavventure che Marcovaldo e famigliari vivono e che quasi mai si concludono nel modo sperato. Una lettura divertente, mai banale, gustosa per gli adulti (i partecipanti al seminario stanno dimostrando di apprezzarla) quanto per i ragazzi.
Solo uno spunto, peraltro non nuovo in questi post: il libro, che porta come sottotitolo proprio Le stagioni in città, si apre con una descrizione del vento che trasporta pollini e odori. Con ironia, ma insieme con grazia direi, Calvino descrive le anime sensibili che di questo vento si accorgono:
Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui si accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre.
Rigiro, come si suol dire, la frittata e a modo mio auguro a tutti voi, amici lettori, di divenire "raffreddati da fieno", per imparare ad osservare i piccoli segni, consueti o meno, che la natura offre e che un buon libro può contribuire a far riscoprire.
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