domenica 19 dicembre 2021

Sulla differenza fra patriottismo e nazionalismo

Quando più tardi, per raffreddare i bollenti spiriti, fecero qualche passo insieme sulla passerella, nella notte blu, sulla palude ghiacciata e sotto un cielo che brillava di mille luci vittoriose, Janek chiese a Dobranski:
“Tu ami i russi, vero?”
“Amo tutti i popoli, ma nessuna nazione. Sono un patriota, non un nazionalista”.
“Che differenza c’è?”
“Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri. Russi, americani… Un grande sentimento di fraternità va maturando nel mondo, i tedeschi saranno serviti almeno a questo”.

Romain Gary, Educazione europea, Neri Pozza, Vicenza 2006, p.238.

giovedì 7 ottobre 2021

Presentazioni dei Monti celesti - ottobre 2021

Care amiche lettrici e cari amici lettori,
di seguito le locandine dei prossimi appuntamenti, stasera a Malo e giovedì 14 p.v. a Valdagno.






domenica 19 settembre 2021

Prossimi eventi settembre 2021

Care amiche lettrici e cari amici lettori,
di seguito le locandine dei prossimi appuntamenti:
- sabato 25 settembre racconterò L'isola del labirinto al parco "La Favorita" di Valdagno;
- domenica 26 settembre a Schio presenterò I monti celesti in dialogo con l'amica e collega Sarah Fogagnoli. 










 

lunedì 13 settembre 2021

Un augurio di inizio anno scolastico con le parole di Anne Frank



Stamattina ho letto queste parole come prima lezione alle mie studentesse e ai miei studenti. L'ho fatto senza rivelare la fonte, chiedendo loro chi potesse averle scritte o pronunciate. Tutti hanno detto una persona adulta, matura, impegnata; qualcuno ha azzardato uno scrittore o un politico. Solo alla fine, mentre qualcuno mi guardava con gli occhi lucidi per l'emozione, ho rivelato chi le aveva scritte, e come e quando (il 15 luglio 1944, dopo due anni di vita in una soffitta, un paio di settimane prima di essere scoperta e deportata). Siamo nani, certo, ma con giganti che vegliano su di noi, come la quindicenne Anne, anche il futuro incerto ci fa meno paura. E allora buon cammino a tutte e tutti, studenti e insegnanti, buon anno scolastico!

<<Ecco che cos’è difficile in quest’epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. È molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo. Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare!>>
Anne Frank, Diario, Einaudi, Torino 1992.

giovedì 9 settembre 2021

Intervista su "ViCult" in occasione dell'uscita dei "Monti celesti"

Care lettrici e cari lettori,
condivido al link che segue un'intervista uscita ieri sulla rivista online "ViCult" in merito all'uscita del mio nuovo libro, I monti celesti. Ringrazio Maurizio Scalabrin per questa opportunità.

Potete leggere l'intervista cliccando qui.

domenica 5 settembre 2021

I libri ci chiamano: un dono inatteso firmato Antonio Giuriolo

Ormai lo vado ripetendo da tempo: i libri ci chiamano. Una volta scritti e pubblicati, questi strani oggetti hanno vita propria; potrebbero esistere a prescindere dal loro autore e dal momento della pubblicazione hanno una loro storia, camminano, si spostano, passano di mano in mano. Chi fra voi mi segue sui social sa che qualche volta pubblico le foto di ritrovamenti importanti o di cacce al libro particolarmente fruttuose fra scaffali polverosi e bancarelle. Ma non solo fra i banchi di un mercatino o fra le mensole di una libreria dell'usato i libri chiamano. A volte accade che arrivino attraverso le persone, e incontrarli suscita un'emozione non meno intensa del ritrovamento fortuito.

Così è accaduto pochi giorni fa, quando un'amica mi ha mandato un messaggio che ho letto sgranando gli occhi: Per caso ti interesserebbe in dono un libro con la firma di Antonio Giuriolo? Sì, proprio lui, Capitano Toni. Il Toni dei Piccoli maestri, il maestro senza cattedra, l'«apostolo della Libertà». Ho letto e riletto quel messaggio prima di rispondere. Ed era un tempesta di emozioni, di ricordi, di citazioni che si mescolavano. 

Nato nel 1912, caduto sull'Appennino tosco-emiliano il 12 dicembre 1944, medaglia d'oro al valor militare della Resistenza, Giuriolo non aveva accettato la tessera del PNF: insegnava dando lezioni private a Vicenza. Luigi Meneghello su di lui ha scritto pagine indimenticabili nei Piccoli maestri e in Fiori italiani. Ma anche Norberto Bobbio ha speso per lui parole scolpite nel marmo, in due discorsi commemorativi che tracciano il ritratto di un uomo straordinario pur nella sua schiva riservatezza, come ha ricordato l'amico Gigi Poletto in un bell'articolo che si può leggere qui.

«Toni fu un eroe senza gesti. Il suo eroismo era dentro, non fuori, nell’animo puro, incorrotto, non nelle parole, nelle frasi solenni. E proprio perché fu un eroe senza gesti rappresentò bene la figura del combattente di questa guerra straordinaria, quale fu la guerra di liberazione, che trascende i confini di una patria, gli odi di parte, la politica delle fazioni. A guerre eccezionali occorrono, per giustificarle di fronte a noi stessi, uomini eccezionali. Giuriolo è stato uno di questi. Per lui, anche per lui, la Resistenza è rimasta nel nostro cuore come una feconda stagione dell’Italia e dell’Europa, nonostante le rovine, le stragi, le sofferenze di tutti» (Norberto Bobbio, discorso tenuto a Bologna nel 1964, citazione riportata nel sito dell'ISTREVI.

Ci siamo trovati pochi giorni fa sotto l'ombrellone di un bar in piazza San Lorenzo a Vicenza, a poca di stanza dalla biblioteca Bertoliana, dove Giuriolo trascorreva sovente le sue giornate. Qui Marina, la mia amica, mi porge il libro, un'edizione Laterza del 1934: Guido De Ruggiero, La filosofia del Cristianesimo. Mi dice di averlo ricevuto a sua volta. E ha pensato di donarmelo:
- Aprilo - soggiunge.
Non me lo faccio ripetere due volte e lì, sulla prima pagina, la firma. Le mani tremano, un nodo mi serra la gola. Riesco a malapena a biascicare un "grazie" mentre la tempesta di pensieri ed emozioni riprende a turbinare più forte che mai. 

«Se ora dovessi racchiudere in una formula il significato della sua vita, direi che egli rappresentò l’incarnazione più perfetta che mai io abbia vista realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e di vita morale» (Norberto Bobbio, discorso pronunciato a Vicenza nel 1948, citato in Renato Camurri, Tra mito e antimito: note sulla formazione di Antonio Giuriolo, scaricabile cliccando qui).

Un dono incredibile. E mi pare, tenendo questo libro fra le mani, di toccare la storia. Mi torna in mente un altro passo di Meneghello: «L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva nella nostra storia personale» (Luigi Meneghello, Fiori italiani, Rizzoli, Milano 2006, p. 165). L'emozione raggiunge l'apice quando scorgo, fra le pagine, delle sottolineature a matita. Una, relativa a S. Agostino,  mi colpisce: 

Particolare del cippo sul luogo in cui cadde Capitano Toni
a Lizzano in Belvedere, foto di Michele Bergamini
«Egli sente il valore della personalità come nessun greco; fa del pensiero un'energia interiore alla cui ricerca non presiede un oggetto già formato, e il cui cercare è perciò un continuo trovare, perché un continuo creare; egli dà un rilievo fortissimo al momento pratico, volontario dello spirito, divino ed umano, e lo sottrae, per quel che è possibile, agl'influssi intellettualistici».

Ringrazio ancora Marina. Altre parole mi sembrano inutili e posticce. Intorno a noi scorre una mattina come tante altre di fine estate. Ma qui no. 

sabato 4 settembre 2021

Prima presentazione dei "Monti celesti" a Montecchio Maggiore

Care lettrici e cari lettori,
ci siamo: si terrà a Montecchio Maggiore (Vi) giovedì 16 settembre 2021 la prima presentazione del mio nuovo libro I monti celesti. La serata fa parte delle iniziative per la maratona di lettura "Il Veneto legge".
Giovedì 23 settembre avrò invece l'onore di dialogare con Giuseppe Mendicino, che presenterà il suo nuovo libro Mario Rigoni Stern. Un ritratto, edito da Laterza.

Per entrambe le serate l'ingresso è gratuito ma è necessaria la prenotazione: sarà inoltre necessario il green-pass.

Info e prenotazioni:
biblioteca@comune.montecchio-maggiore.vi.it
0444698874



domenica 29 agosto 2021

"Ho ancora nel naso l'odore..." Folgoranti incipit e congedi

Care lettrici e cari lettori,
condivido l'articolo sul mio incontro con i libri di Mario Rigoni Stern apparso sul "Giornale di Vicenza" di martedì 27 luglio 2021. Per leggerlo da pc cliccate sull'immagine e quindi procedete scaricando la stessa (tasto destro del màus-mouse, indi 'salva con nome'); da cellulare basta toccare l'immagine e ingrandire a piacere.



venerdì 27 agosto 2021

"I monti celesti" - raccolta di racconti - in uscita a settembre 2021

Care amiche e cari amici lettori,
con gioia annuncio l'uscita, per il prossimo settembre, del mio nuovo libro di racconti, I monti celesti, per i tipi di Cleup, collana "Vicoli".


Dalla quarta di copertina
Sotto i monti celesti si stende la grande pianura padano-veneta, quella dei campi sterminati di un tempo, delle città fiorite d’arte e di storia e, oggi, delle zone industrial-artigianali, delle villette a schiera, dell’infinita periferia, degli onnipresenti centri commerciali, dei campanili appena visibili sopra caseggiati cadenti o di ultima generazione. Fra i monti e il piano giace una sottile striscia di territorio: è la fascia pedemontana del Veneto. Qui, fra brandelli di campagna che ancora conservano, seppur deturpati, i tratti di un tempo e un mondo che corre, vorticano, sussultano, si muovono i protagonisti di questi dodici racconti.
Una raccolta che vuole essere uno sguardo sul nordest di oggi, sospeso fra passato e presente, sovente smarrito, alla ricerca di una dimensione e di un’identità, travolto da quello che Zanzotto chiamava ‘progresso scorsoio’ ma al contempo pervaso di feroce malinconica poesia.


Per maggiori informazioni


Incontri e presentazioni
Cercherò di inserire date ed eventi anche nel blog; nel frattempo potete seguire la mia pagina personale su facebook: https://www.facebook.com/michele.santuliana/
Potete anche scrivermi utilizzando il modulo di contatto a destra della schermata. 

Grazie ed estote parati/ae (stèi tiùnd)!



domenica 1 agosto 2021

Camminando tra le pietre del San Michele

Come questa pietra del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata...

I versi di Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti mi hanno accompagnato in questi giorni, dopo aver visitato diverse località del fronte isontino, un desiderio coltivato per anni e ora finalmente realizzato. Dopo Kobarid-Caporetto, dopo l'alto Isonzo e prima di salire al Sabotino, pilastro della difesa austriaca di Gorizia fino alla sesta battaglia d'Isonzo, era d'obbligo un pellegrinaggio civile ai luoghi resi tristemente celebri dalle annotazioni ungarettiane, le stesse che molte antologie pongono alla fine delle liriche del poeta e che andrebbero invece lette all'inizio, appena dopo il titolo. Come per Sono una creatura, scaturita nel Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916. 

Il San Michele non è nemmeno un monte ad essere precisi, è piuttosto un colle basso (non raggiunge i 300 metri s.l.m.) e bislungo, che si erge parallelo all'Isonzo e lo domina. Qui correva uno dei punti nevralgici della linea difensiva austro-ungarica e qui si infransero le prime cinque spallate tentate da Cadorna per arrivare a Vienna: cinque battaglie, un anno di assalti, centinaia di migliaia di vite spezzate.

Siamo arrivati nel primo pomeriggio, sotto un sole che picchiava a martello. Si sale una stradina che da Sagrado, piccolo centro alle pendici del colle, s'inerpica attraverso un paesaggio sassoso e secco, coperto da un groviglio di arbusti, cespugli e alberi che talora si aprono in radure di rovi ed erba bruciata dal sole.

Lungo la strada appaiono nomi noti a chi mastica un minimo di storia: monumenti a reparti, cippi, cartelli che indicano luoghi divenuti simbolo della carneficina che qui si è compiuta:  la Trincea delle frasche, citata, benché con altro nome, anche da Lussu in Un anno sull'Altipiano, il monumento alla brigata "Sassari"; e poi l'abitato che tutti conoscono per quella poesia che porta il suo nome, San Martino del Carso. Ci arriviamo sotto la canicola. Case silenziose, come addormentate, intorno nessuno. All'ingresso del paese, sotto una Madonna altrettanto silenziosa, il testo della poesia.

Proseguiamo dopo una breve passeggiata fra le vie e la piazza. Il caldo è potente: non fosse per una lieve brezza sarebbe quasi impossibile procedere a lungo. E allora provo a immaginare, attraverso le parole di Ungaretti, a come deve essere stato qui, in mezzo a brandelli di muro, sotto il sole, senz'acqua.

Pochi minuti di macchina ed eccoci sulla sommità, ormai a pochi passi da Cima 3: un piazzale che si affaccia sull'Isonzo, una fila di cipressi, pezzi di artiglieria in mostra, come scheletri di dinosauri. Sulla cima, a poca distanza dal monumento che ricorda ungheresi e italiani, l'immancabile ripetitore. Eccoci, dunque. Decidiamo di entrare nel piccolo museo. Tre stanze, pochi oggetti, e un percorso virtuale che racconta al visitatore la storia con l'ausilio della tecnologia. Qui incontriamo, oltre al custode, due visitatori prima di noi; altri due verranno dopo; una macchina che passa, un ciclista che si riposa.

La visita al museo ci lascia, complice la realtà aumentata cui ci siamo sottoposti, un lieve senso di nausea. Dopo schermi interattivi, foto e testimonianze, torniamo all'aperto e visitiamo la cannoniera sotterranea che gli italiani scavarono dopo la conquista del monte. E qui il pensiero vola alla galleria di cima Grappa, e a come la natura stessa sia stata partecipe delle vicende degli uomini, fin dentro la nuda roccia: distrutta, sbalzata, ridotta a ghiaia dalle granate, scavata nelle sue viscere per offrire riparo e creare nuova offesa. Come questa pietra del San Michele... 

Camminiamo ora nella zona sacra, fra resti di trincee e il sole che cala a poco a poco verso le montagne. Mi chino per toccarle, queste pietre: scottano, grattano e tagliano. Hanno assaggiato anche i gas velenosi, queste pietre. Il 29 giugno del 1916 gli austriaci attaccarono usando cloro e fosgene: i fanti italiani non avevano praticamente nulla per difendersi da questa nuova arma. Morirono a migliaia soffocati dal gas.

Un secondo punto panoramico, rivolto verso Trieste, consente di abbracciare il paesaggio che si estende a est. Nulla di diverso: doline, colli bassi e lunghi che digradano in direzione del mare, oggi ricoperti di intricatissima boscaglia. Alberi e arbusti che, con le loro radici, scavano fra la poca terra e le pietre. In macchina, prima di scendere, troviamo acqua fresca: i vantaggi di parcheggiare all'ombra di uno dei tanti cipressi che delimitano la zona sacra.

Ci resta il tempo di una visita al monumento eretto per ricordare i "diavoli rossi" della "Sassari": la brigata rimase in questa zona fino al maggio 1916, quando fu trasferita in tutta fretta sull'Altipiano dei Sette Comuni per arginare la "Spedizione di Primavera", quella che sui libri viene chiamata Strafexpedition. E qui, mentre osservo le scritte sul monumento che esaltano quanto bello sia morire per la patria, alle parole di Ungaretti si aggiungono quelle del capitano Lussu che aprono il capitolo VI del suo libro: Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte...

Il nostro tempo quassù volge alla fine. Stasera saremo a cena con un amico che abbiamo rivisto ieri dopo anni e che ci presenterà la sua compagna. Non vogliamo fare tardi. Scendiamo scambiando poche parole, un po' per il caldo, un po' per ascoltare le indicazioni di Google. E così ripenso ancora al poeta del Carso, e mi dico che qui sarebbe da venire con i miei studenti per leggere quei testi che si studiano dentro i muri della scuola, fra i banchi, col pensiero dell'esame di Maturità che si avvicina: farli camminare per questi sentieri, far loro toccare queste pietre. Qui sarebbe da sentire quelle parole, non fra muri e banchi e lavagne vecchie e nuove. Ma poi mi zittisco. Basta anche con i pensieri.

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

domenica 25 luglio 2021

Un pomeriggio d'estate per cimiteri di guerra

Erano anni che desideravo visitarli. Ogni volta che passavo per Dueville procedendo verso Bassano, ad una rotatoria vedevo il cartello British Cemetery e pensavo "Ora svolto". Ma ero sempre in ritardo o comunque atteso in qualche posto, mancava il tempo o il coraggio di imboccare l'uscita giusta. Così domenica scorsa mi sono detto "Ora vado sul serio". E non solo a quello di Dueville, anche nell'altro, scoperto su internet, di Montecchio Precalcino. A cinque chilometri dal primo.
Ho chiamato una cara amica che ha come me la passione per i cimiteri. Entrambi non vi troviamo nulla di macabro, anzi. Dai cimiteri si capisce molto più dei vivi che dei morti. E poi è bello passeggiare fra le lapidi indovinando le vite di coloro che ci hanno preceduto. Ha accettato subito.

Sono passato a prenderla alle tre, mentre una coltre di nubi color del piombo avanzava a schiere compatte dall'Altipiano al Summano. Guidando scrutavo le tonalità di grigio all'orizzonte e pensavo: "Non ce la facciamo, sarà acqua prima che possiamo arrivare". Ogni tanto un lampo di luce brillava fra le nubi. Sulla valle dell'Astico fioccava un acquazzone, la condensa che saliva e si disperdeva in vortici tondeggianti. Ho proposto di partire dal sito più lontano così da tentare di anticipare la pioggia. Idea accettata. Speriamo bene.

E dunque eccoci in viaggio per esplorare cimiteri inglesi della Grande Guerra. Dai finestrini aperti arrivava a ondate l'aria di pioggia proveniente dai monti. Abbiamo oltrepassato Dueville e imboccato una strada che un tempo si sarebbe detta di campagna, ora contornata di  villette e capannoni. Google dettava la rotta. A cinque minuti dall'arrivo ho pensato che forse ce l'avremmo fatta a fregare il temporale. Coraggio, ci siamo quasi.

Gli inglesi arrivarono in Italia dopo la rotta di Caporetto, in appoggio al provato Regio Esercito battuto dagli austro-tedeschi di Von Below e Borojević. E così ci sono rimasti i cimiteri: sull'Altipiano, sul Piave e qui, accanto agli ospedali da campo. Questo di Montecchio Precalcino, come del resto anche a Dueville, sorge accanto al camposanto italiano. Eppure, rispetto ai nostri vialetti di ghiaino, alle piastrelle, alle colate di cemento dei condomini-loculi, alle foto su sfondo azzurrino, pare di essere in un altro mondo. La mia amica è sorpresa anzitutto dall'erba curatissima, poi dall'ordine, dal senso di armonia che regna in questo angolo di mondo. 

Entriamo da un piccolo cancello. Intorno non un'anima. E mentre giro la maniglia torno di peso al 2014, al viaggio nelle Fiandre (ne scrissi qualcosa qui), ai cimiteri sparsi fra i pascoli e i campi di barbabietole, in mezzo a una pianura infinita, rotta solamente dalle tenui rotondità di colline che qui nemmeno diremmo tali: hill 62, hill 60... Ed ecco che dagli scomparti della memoria riaffiora il primo verso della canzone di John Mc Cree:

In Flanders fields the poppies blow...

In mano, oltre al taccuino per gli appunti e al telefono, tengo una copia del libro di G. Mosse Le guerre mondiali. Dalla tragedia al miti dei caduti. Questo il libro che mi ha insegnato a leggere e comprendere i cimiteri militari. Camminiamo in silenzio per qualche istante. Poi, seguendo i ricordi e leggendo qua e là fra le pagine, comincio a spiegare: indico le tombe allineate, spiego la differenza fra le sepolture dei regimi totalitari e quelle dei paesi democratici. Da una parte i templi-ossari, il recupero delle mitologie nordiche, la massa indistinta, l'esercito dei morti a difesa e baluardo dello Stato, Redipuglia, Cima Grappa, Laiten; dall'altra parte cimiteri sempre uguali eppure così caratteristici, a misura di singolo. Questo di Montecchio Precalcino poi sembra proprio una Spoon-River nostrana, benché un cartello illustri chiaramente come il suolo che calpestiamo sia britannico. Adagiato lungo il fianco della collina, pare sorvegliare la pianura sottostante. 

Continuo la spiegazione: si vede come onora i suoi caduti la democrazia liberale? Indico ancora le tombe, solo in apparenza tutte uguali: in alto lo stemma del reggimento, poi i dati del caduto; nella parte inferiore la parte che la famiglia poteva adattare: a volte resta bianca, altre volte una frase convenzionale, altre ancora parole che lasciano in silenzio, e scavano. Come quella per un ragazzo che ha l'età dei miei studenti che hanno appena finito la Maturità. Semplice, sobria, non ha bisogno di spiegazioni o commenti.

"Only a mother / knows the loss"

Sulle file di tombe, oltre quattrocento, dominano la Croce con la spada incastonata e la Pietra della Rimembranza, un altare che reca inciso un versetto dal Siracide: "Their name liveth for evermore". Fu Rudyard Kipling a suggerire queste parole. Era membro della prima War Grave Commission, creata nel 1917, e aveva perso l'unico figlio maschio in guerra. 

Saliamo alla croce. Lassù tira un'aria deliziosa proveniente dalle montagne. Ci guardiamo intorno. Poi suggerisco di scendere verso uno dei due portici che dominano gli angoli a monte. Dalla parte dell'ingresso riconosco la porticina del tabernacolo in cui, come in ogni cimitero britannico, si trovano il registro dei visitatori, la pianta del luogo e l'elenco dei caduti. In cinque minuti il discendente di un soldato qui sepolto potrebbe facilmente rintracciare il proprio famigliare.

Da lì scendiamo passeggiando fra le tombe, leggendo i nomi, osservando, pensando, scattando qualche foto coi cellulari. Il tempo sembra scorrere più lento qui. Alla fine ce ne andiamo sereni, dicendoci che questo cimitero è proprio un giardino: mette pace e non angoscia, non malinconia.

Dopo tre gocce di pioggia, in cielo le nubi diradano, spunta un sole invadente. Torna l'afa soffocante della pianura.

Il cimitero di Dueville è più piccolo e meno suggestivo. E non solo perché sorge lungo una strada di paese, a poca distanza da condomini venuti su senza criterio, ciascuno con uno stile diverso. Più forte e invasiva qui è la presenza del cimitero italiano. Più netto è il contrasto fra due visioni diverse della vita e della morte.  

Benché più piccolo rispetto al suo omologo di Montecchio, lo stile di questo secondo cimitero è identico: la stessa erba curatissima, le stesse lapidi, croce e Pietra della Rimembranza, come spesso accade per i cimiteri più piccoli, fusi in un unico monumento. Alle loro spalle tre cipressi svettano verso il cielo azzurro. Cerco di fotografare il tutto in modo da nascondere un orrendo ripetitore che si staglia sullo sfondo, oltre la succursale del cimitero comunale. Ma desisto sconsolato: da ogni parte il ripetitore appare, molesto, invadente. E allora decido di fotografarlo di proposito, sostituendolo ad uno dei due cipressi.

Facciamo il giro, passiamo fra le tombe. Anche qui nessuno oltre a noi. Osserviamo. Isolate rispetto alle altre, in fondo, due croci di pietra ricordano altrettanti caduti francesi. Ripenso al cimitero di Verdun, visitato da bambino in un giorno grigio di nebbia e pioggia sottile. Fra lo stile italico e il mondo anglosassone si potrebbe dire che i francesi stanno a metà, come nella carta geografica: la Repubblica, che non annichilisce il singolo come invece fa lo Stato nei regimi totalitari, e il simbolo cattolico.

Terminiamo il nostro giro con una visita alla parte vecchia del cimitero civile, passando accanto ad alcune tombe di famiglia dei primi del Novecento. Poi il sole e il caldo torrido ci spingono con veemenza verso la macchina. 
Ce ne andiamo con addosso la voglia di fresco. L'amica propone un gelato: conosce un posto non distante dove lo fanno buono.

Avvio la macchina e ci allontaniamo, scomparendo fra strade di campagna.    


domenica 18 luglio 2021

Libri da leggere: La via di Schenèr di Matteo Melchiorre

«L’indagine storica è un’esplorazione fatta di viaggi, carte, libri, sbagli, persone, pensieri, fantasie. In questo processo sensibile vi è forse più verosimiglianza di verità che nella secca enunciazione di risultanze distillate. Vorrei far capire a chi non si occupa di storia quanto l’andar sulle tracce di cose trascorse faccia sentir vivi e aiuti a sentirsi parte di un tutto e amici del presente» (La via di Schenèr, p.9).

Il bello del rumare è soprattutto il sapore della ricerca: ponderata, certo, se si cerca un libro in particolare, ma anche, e per me soprattutto, lasciata in balia del caso, dell’eventualità, del mistero fascinoso dell’ignoto.  È così che a volte ci si imbatte nei libri più impensati. Fedele al precetto che sono loro, i libri, a chiamarci, mi lascio trasportare, e trovare.

In questo modo mi ha incontrato La via di Schenèr di Matteo Melchiorre (Marsilio, 2016). L’avevo inizialmente scambiato per un romanzo, anche per via della fascetta che lo segnalava vincitore del premio “Mario Rigoni Stern 2017” (il premio alterna narrativa a saggistica), e invece, una volta sfogliatolo, ho trovato un saggio. Un saggio su un’antica via alpina, la via di Schenèr, appunto, che collegava Feltre con la valle di Primiero. Non ci ho pensato due volte e con pochi euro il libro è venuto a casa con me.

Classe 1981, Matteo Melchiorre è storico e ricercatore presso li IUAV di Venezia: si occupa di storia economica e sociale del tardo Medioevo e di edizione di fonti. Con La via di Schenèr ci racconta non solo un’indagine storica attorno ad un’antica via alpina, ma un microcosmo di relazioni, azioni, pensieri, sentimenti, un mondo in cui la piccola storia del mondo alpino e prealpino si lega alla grande storia degli Stati e degli Imperi, dei condottieri e dei principi, dei traffici commerciali e dei conflitti.

Lo fa trascinandoci in una ricerca sinuosa e coinvolgente che diviene, oltre che storica, personale, portandoci a riflettere su chi sia lo storico, quale il lavoro di andare per archivi, di leggere documenti: perché per quasi tutto il libro l'antica via di Schenèr appare indirettamente, attraverso le tracce lasciate nei documenti, siano relazioni, atti notarili, lettere o altro ancora, e solo alla fine, con abile costruzione narrativa, Melchiorre ci guida sul campo.

Fra ansia di scoperta, sogni, misteriose visioni notturne, momenti di solitudine e di sconforto come di esaltazione ed entusiasmo, Melchiorre ci trasporta nel vivo di uno scambio continuo fra presente e passato, narrandoci le fasi della ricerca e riportando in vita, dai documenti, diverse vicende di chi passava per quell’antica via che collegava la veneta Feltre coi territori tirolesi del Primiero o ci viveva intorno. Lo fa con un linguaggio vivo e con ironia ma, al contempo, con precisione e competenza, come dimostra una documentatissima bibliografia finale che svela come la ricerca effettuata sia tutt’altro che improvvisata.

Vincitore, oltre che del citato premio “Mario Rigoni Stern”, anche del premio “Cortina”, La via di Schenèr è dunque un libro da leggere non soltanto per conoscere una parte di mondo che per secoli si è sviluppato fra due importanti valli alpine ma anche per tornare a riflettere su cos’è la storia, su chi la dimentica, su chi a volte ce la fa riscoprire.

sabato 26 giugno 2021

Per riscoprire Mario Rigoni Stern a cento anni dalla nascita

«Sono nato alle soglie dell’inverno, in montagna, e la neve ha accompagnato la mia vita». Inizia così Stagioni (Einaudi, 2007), l’ultimo libro di Mario Rigoni Stern, uno zibaldone, come lo definì l’autore stesso, e insieme un testamento spirituale, una summa di vita, di pensiero e di etica di un uomo che ha attraversato il Novecento. Scomparso in silenzio il 16 giugno 2008 – la notizia della morte venne diffusa, per sua espressa volontà, a funerali avvenuti – Mario Rigoni Stern era nato ad Asiago l’1 novembre 1921, cento anni fa...

Un articolo per riscoprire Mario Rigoni Stern nella scuola superiore (ma non solo) su laletteraturaenoi.it

domenica 20 giugno 2021

Sui passi dei Piccoli Maestri

Ci sono luoghi che ci chiamano, luoghi di silenzio gremito di memoria a cui si ritorna con l'animo del pellegrino. L'Altipiano è per me ricco di questi luoghi. E fra essi Malga Fossetta è certo uno dei più importanti. Fu questa infatti la base del gruppo partigiano di Antonio Giuriolo, Capitano Toni, nel maggio 1944. 

Qui, all'estremo margine nord-orientale dell'Altipiano, dove già era passata la storia con la Grande Guerra, vissero per alcune settimane quegli studenti alla macchia che divennero i Piccoli Maestri. Qui per diversi anni si sono ritrovati, e con loro quanti hanno amato e amano le pagine dei Piccoli maestri, e leggono, e studiano questo piccolo capitolo di una grande storia. Qui, fino a un paio d'anni fa, l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea "Ettore Gallo" organizzava, nel mese di giugno, un pellegrinaggio civile che richiamava persone da tutta la regione, e spesso anche da fuori. Speriamo si possa riprendere presto: ne abbiamo bisogno.

Oggi però non c'è nessuno. Per tutto il giorno non un'anima sul nostro percorso. Lasciamo la macchina parecchio indietro, a causa di lavori di sistemazione che bloccano l'accesso all'ultimo tratto di strada che sale dalla Val Campomulo. E camminiamo. Camminiamo nel bosco di giugno, attraverso  vallette e teatri di rocce in cui la tempesta Vaia ha lasciato segni profondi. 

Un'ora di strada, poi Malga Fossetta. Poco prima dell'edificio la tabella che racconta in breve la storia del gruppo.

Malga Fossetta è lì, dietro una curva. Immersa nel silenzio, in un triste abbandono. Così la descrive Meneghello nel cap. 5 del suo libro: «La malga era vuota, nuda: in tutta la zona alta dell’Altipiano le malghe quell’anno furono senza occupatori, naturalmente la gente aveva paura, e inoltre le autorità facevano i loro divieti, contando di affamarci. Questo era un errore, fame ne avevamo già tanta che affamarci di più era praticamente impossibile, ma le autorità tentavano, tentare non nuoce. A noi delle autorità non ce ne interessava niente, e si prendeva per naturale che le malghe fossero vuote.

Questa malga però era singolarmente vuota e nuda, e c’era intorno una pulizia, una povertà una lindura che mi turbarono. Sentivo un fondo di contentezza turbata, piacere fisico di dire qualche parola in inglese, pudore. Antonio e gli inglesi si aggiravano di qua e di là con aria quieta e circospetta, rosicchiando quello che avevamo portato, e chiacchierandoci un po’; notai che parlavano tutti sottovoce».

Il tempo la divora a poco a poco: l'erba alta invade lo spiazzo, dal tetto penzola un pezzo di grondaia, qualche vandalo ha danneggiato la staccionata sul retro. Silenzio.

Dopo alcune letture e mezzo panino ripartiamo verso cima Incudine e cima Isidoro: è il loro sentiero, il sentiero dei Piccoli Maestri. 
Lungo la via si incontrano cartelli con citazioni da Meneghello o da Giuriolo. Scrive ancora Meneghello: «Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un’altra cosa [...] Sospiravamo di soddisfazione perché era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco, pareva che se ne vedesse un segnale».

Non è un percorso impegnativo ed è particolarmente suggestivo da percorrere in questo giorno nuvoloso, con il sole che fa capolino a tratti, quasi con ironia.


Arriviamo al margine ultimo dell'Altipiano. Oltre i dirupi, il salto di vuoto sulla Valsugana. Qui si ritirarono, pressati dal rastrellamento, diversi dei partigiani di capitano Toni. Ancora dai Piccoli maestri«Antonio con un paio di squadre si avviò direttamente a nord. Forse ci dicemmo “ciao” con Antonio, ma non mi ricordo. Finiva la notte. Questo è il punto che lui se ne va, per le sue strade, col braccio al collo, fuori della mia vita […]. Il resto che è accaduto su quello spalto davanti alla Valsugana, dove restarono uccisi Nello e il Moretto, e tanti altri nostri compagni, non lo abbiamo mai voluto ricostruire. Alcune cose si sanno, e sono altamente onorevoli e perfino leggendarie. Ma io non ne parlerò. Antonio non morì qui, ma lontano, fuori della nostra vita, non rastrellato ma in combattimento aperto, com’era più giusto».

Saliamo ancora, stavolta attraverso il ripido sentiero che porta a cima Incudine. Da lì qualche volta sono sceso fino alle lapidi poste lungo il pendio, nel punto in cui caddero diversi di quei ragazzi di vent'anni. 
Alcuni di loro si salvarono perché trovarono rifugio in una nicchia di roccia. I rastrellatori non scesero fin là.

Infine ecco la lapide comune che li ricorda: «Durante la battaglia che su questi monti avvampò nel mese di giugno del 1944, in una guerra nella quale avevano scelto con l'entusiasmo dei giovani e con la consapevolezza degli uomini civili la parte della libertà, combattendo nel reparto guidato dal capitano Toni Giuriolo, che di libertà fu maestro e che sull'Appennino emiliano trovò morte gloriosa, onorata con la medaglia d'oro al Valore Militare, caddero». 

E seguono i loro nomi:

Rodino Fontana di anni 19

Gaetano Galla di anni 22

Siro Lozer di anni 19

Ferruccio Piccioni di anni 21

Rinaldo Rigoni di anni 20

Giobatta Thiella di anni 19

Ancora in silenzio per qualche istante. Intorno solo i rumori del bosco. Dalla Valsugana sale una nebbiolina leggera. Proseguiamo fino alla nuova lapide del Moretto, Rinaldo Rigoni, del quale scrisse anche Mario Rigoni Stern in un bellissimo racconto intitolato Un ragazzo delle nostre contrade, testo inserito nella raccolta Ritorno sul Don.

Torniamo infine alla malga. Superiamo la cappella edificata dai soldati nell'autunno 1916, quindi eccoci di nuovo sullo spiazzo erboso. Appena il tempo di una foto, poi riprendiamo la strada per ritornare in pianura. Nella testa ancora le parole di Gigi: «Fu in queste settimane, credo, che ci entrò così profondamente nell’animo il paesaggio dell’Altipiano. In principio, di esso si avvertiva piuttosto ciò che è difforme, inanimato, inerte: ma restandoci dentro, e acquistando via via un certo grado di fiducia e di vigore, anche l’ambiente cambiava. […] Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi, e quel paesaggio s’è associato per sempre con la nostra idea della libertà».

sabato 20 marzo 2021

Omaggio alle Galline pensierose di Luigi Malerba

Apologhi, nonsense, storie umoristiche. Come definire le Galline pensierose di Luigi Malerba? Il libro, uscito per la prima volta nel 1980 per Einaudi, ha conosciuto un'altra edizione ne l994 (Mondadori) e, dopo diversi anni di assenza dalle librerie, è stato ripubblicato da Quodlibet nel 2014.
Mirabolante creazione di Luigi Malerba (1927-2008), fra i principali autori italiani del secondo Novecento, ha per protagonista galline che pensano, agiscono e guardano il mondo dal loro punto di vista.

In questi giorni, complice la notizia di un errore durante un'esercitazione con mezzi corazzati in Friuli (un carro armato ha centrato un allevamento di polli), una cara amica mi ha trascinato in un piccolo omaggio a Malerba. Ecco dunque a voi, care lettrici e cari lettori, La gallina guerriera.


La gallina guerriera
di Paola Valente e Michele Santuliana

Una gallina guerriera decise che voleva conquistare il mondo. Dichiarò la guerra e fece per partire alla conquista ma in quel momento fu centrata da un carro armato e morì. Le altre galline commentarono il fatto e conclusero che era meglio becchettare sull'aia che conquistare il mondo.
Ognuna di loro donò comunque una piuma per fare un monumento alla gallina guerriera. Il gallo rifiutò dichiarandosi pacifista.

Per saperne di più su Malerba suggerisco il sito del premio letterario che ne porta il nome e da cui ho preso la foto dell'autore: http://www.premioluigimalerba.it/biografia_Luigi_Malerba.html

lunedì 22 febbraio 2021

Il futuro della scuola sarà la burocrazia?



<<Anche in questi mesi, mentre, fra mille difficoltà quotidiane, fuori e dentro di noi, si cerca di portare avanti il dialogo con i nostri studenti, l’ombra della burocrazia incombe. Attenzione, non sono qui per demonizzarla: siamo istituzione pubblica, i documenti attestano, offrono trasparenza nella condivisione dei fini, nella progettazione e nella valutazione, dunque servono. Non si tratta di scegliere fra sì o no, piuttosto, si tratta di capire come e quanto e perché e dove. Sì, dove. Si tratta di fermarsi ogni tanto a riflettere, come un pellegrino a misurare la via; si tratta di interrogarsi sui fini e sui mezzi, sugli obiettivi e sulla meta, sospendendo per un istante la corsa cui a volte con troppa foga ci sottoponiamo. Perché anche l’illusione di trovare una casella per ogni aspetto della realtà può produrre frutti avvelenati: “Dum scribitur vita transcurrit” mi disse un giorno un collega riferendosi a non so quale documento che stentava a completare. Era sconsolato e con lo sguardo trasmetteva quello che le parole non dicevano: perché? a che scopo? Ecco, questi mesi potrebbero servire anche a questo, a riflettere su obiettivi, scopi e direzioni da prendere>>.

Un mio contributo su scuola e burocrazia sul blog laletteraturaenoi. Per leggere il testo completo cliccare qui.

domenica 31 gennaio 2021

La memoria che ritorna: "1945" di Ferenc Török

Come ogni anno la ricorrenza del Giorno della Memoria ha fatto sì, e giustamente, che in rete e in televisione vi fossero molteplici occasioni di conoscenza e commemorazione. Attenzione però: in tutto questo c’è anche un rischio, ben evidenziato da Daniele Lo Vetere nella sua recensione al libro di Valentina Pisanty I guardiani della memoria (su www.laletteraturaenoi.it), quello di cadere in una memoria vuota, stereotipata, decontestualizzata e destoricizzata. Condita di immagini “pop” (solo per citarne alcune, il treno, la bambina vestita di rosso di Schindler’s list, la torre di controllo di Birkenau), la nostra memoria rischia di scivolare in un circuito di rappresentazione che si autoalimenta e che ci coinvolge nella sfera estetico-emotiva senza interrogarci nel profondo.

Oltre a certi documentari mal costruiti, soprattutto i film contribuiscono a fissare immagini stereotipate nel nostro immaginario, sia i grandi film, corretti storicamente, come il già citato Schindler’s list, sia film profondamente sbagliati come Il bambino con il pigiama a righe, il quale, assieme a incredibili errori storici, confonde e sbaglia del tutto la prospettiva, anche didattica, con cui affrontare il tema complesso delle persecuzioni e della Shoah.

Questo non accade a volte con film minori o i quali, anziché concentrarsi sugli aspetti più violenti e brutali, analizzano sfumature o momenti, oppure indagano le multiformi manifestazioni della memoria, il rapporto delle comunità con essa, le rimozioni e le riscoperte.  Per questo, fra i film disponibili online, mi sento di consigliare 1945, pellicola del 2017 visibile gratuitamente su Rai Play (www.raipaly.it). A mio parere, un piccolo capolavoro.

Diretto dal regista ungherese Ferenc Török (classe 1971), il film è ambientato in un remoto paesino magiaro. Qui, in un afoso giorno di agosto del 1945, due ebrei ortodossi, padre e figlio, giungono portando due pesanti bauli. L’arrivo dei due turba l’apparente pace di una comunità che si prepara a celebrare il matrimonio del figlio del notaio locale e costringe gli abitanti, nonostante le resistenze, a ritornare all’oscuro passato recente. Cosa vogliono quei due? Perché sono arrivati?

La verità che un po’ alla volta emerge è che diversi personaggi, fra cui lo stesso notaio e il parroco del paese, sono direttamente implicati nella denuncia, seguita dalla deportazione, dei loro compaesani ebrei. Ma attorno a loro si muove una galassia grigia di conniventi che, per interesse o per paura o per indifferenza, hanno finto di non vedere. Il quadro di complicità che emerge capovolgerà completamente la superficiale serenità del paese, già intaccata del resto da crepe interne (i due sposi non si amano) ed esterne (l’incombente regime sovietico): la festa si muterà in tragedia e alla fine i fantasmi del passato si manifesteranno in tutta la loro evidenza.

1945 è un film ricco di simboli: le due misteriose casse che i due uomini portano con loro, ciò che ne faranno, ma anche il loro incedere lento, l’arrivo al villaggio e i due elementi, fuoco e acqua, che suggellano il finale, la nube di fumo nero che si alza in una della ultime scene. Realtà storica e rappresentazione simbolica scandiscono dunque i momenti della vicenda, evocando, alludendo, ma lasciando allo spettatore il compito di ricostruire i tasselli di un passato che sempre si affaccia. L'operazione è resa ancor più forte dal sapiente uso del bianco e nero, che pure Spielberg aveva a suo tempo scelto per rappresentare un evento che definiva «vita senza luce».

Un fotogramma del film
Il ritmo, inizialmente lento, procede sempre più incalzante a mano a mano che la rimozione cede di fronte al pressante ritorno della memoria: finché, inesorabile, la catastrofe suggella il ritorno del passato, secondo una struttura che ricalca quella della tragedia classica, con perfetta rispondenza delle unità antiche.

Il finale, nonostante il male che riemerge, rimane sospeso e interroga lo spettatore: si conclude un giorno che ha cambiato la vita dell’intera comunità, costretta a fare i conti col proprio passato, e nulla potrà più procedere come prima. La storia, dopo la Shoah, non può più essere la stessa. Allo stesso modo, senza memoria - una memoria realmente ancorata alla storia - una comunità non può reggersi. 

domenica 24 gennaio 2021

Libri da leggere: "Si fa presto a dire fame"

<<Poi non udimmo che urli frenetici e spari al di là del muro. E all’alba delle due mattine successive fu una continua processione di monatti che entravano dalla porta di ferro e passavano dinanzi al nostro blocco con i barelloni vuoti, per ripassare poi con tristissimi carichi. Erano ancora corpi umani quelli che vidi in quei barelloni? Sembravano scheletri indossanti una pelle livida, sbranata, uncinata, lacerata, forata dai proiettili, chiazzata di sangue che non sembrava più sangue tanto era pallido. Nel groviglio delle membra le teste riverse avevano aspetti infernali. Guancie (sic) scarnificate, occhi vitrei spalancati quando gli occhi ancora c’erano, bocche sfondate, crani aperti. Nessuna cosa al mondo potrà mai farmi dimenticare quella sintesi di tutta la possibilità di strazio delle creature umane.
Capii allora veramente che cosa era Mauthausen>>.

Piero Caleffi, Si fa presto a dire fame, Edizioni Avanti!, Milano-Roma 1954, pp. 140-141.

 

Piero Caleffi, nato a Suzzara nel 1901 e morto a Roma nel 1978, fu dirigente socialista e, durante la guerra, partigiano e dirigente del Partito d’Azione. Arrestato più volte prima della guerra, nel 1944 viene di nuovo catturato e spedito dapprima al campo di transito di Bolzano-Gries e quindi a Mauthausen. Dopo la guerra Caleffi sarà giornalista e verrà eletto in Senato per il PSI per più mandati. Sarà anche presidente dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati). Si fa presto a dire fame esce in prima edizione nel 1954 e sarà poi ripubblicato più volte divenendo una lettura imprescindibile fra i libri di memorie sull'internamento nei campi nazisti. L’episodio a cui si fa riferimento nel passo riportato è l’evasione di massa dal terribile blocco 20 di Mauthausen, la notte sul 1 febbraio 1945.