domenica 1 agosto 2021

Camminando tra le pietre del San Michele

Come questa pietra del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata...

I versi di Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti mi hanno accompagnato in questi giorni, dopo aver visitato diverse località del fronte isontino, un desiderio coltivato per anni e ora finalmente realizzato. Dopo Kobarid-Caporetto, dopo l'alto Isonzo e prima di salire al Sabotino, pilastro della difesa austriaca di Gorizia fino alla sesta battaglia d'Isonzo, era d'obbligo un pellegrinaggio civile ai luoghi resi tristemente celebri dalle annotazioni ungarettiane, le stesse che molte antologie pongono alla fine delle liriche del poeta e che andrebbero invece lette all'inizio, appena dopo il titolo. Come per Sono una creatura, scaturita nel Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916. 

Il San Michele non è nemmeno un monte ad essere precisi, è piuttosto un colle basso (non raggiunge i 300 metri s.l.m.) e bislungo, che si erge parallelo all'Isonzo e lo domina. Qui correva uno dei punti nevralgici della linea difensiva austro-ungarica e qui si infransero le prime cinque spallate tentate da Cadorna per arrivare a Vienna: cinque battaglie, un anno di assalti, centinaia di migliaia di vite spezzate.

Siamo arrivati nel primo pomeriggio, sotto un sole che picchiava a martello. Si sale una stradina che da Sagrado, piccolo centro alle pendici del colle, s'inerpica attraverso un paesaggio sassoso e secco, coperto da un groviglio di arbusti, cespugli e alberi che talora si aprono in radure di rovi ed erba bruciata dal sole.

Lungo la strada appaiono nomi noti a chi mastica un minimo di storia: monumenti a reparti, cippi, cartelli che indicano luoghi divenuti simbolo della carneficina che qui si è compiuta:  la Trincea delle frasche, citata, benché con altro nome, anche da Lussu in Un anno sull'Altipiano, il monumento alla brigata "Sassari"; e poi l'abitato che tutti conoscono per quella poesia che porta il suo nome, San Martino del Carso. Ci arriviamo sotto la canicola. Case silenziose, come addormentate, intorno nessuno. All'ingresso del paese, sotto una Madonna altrettanto silenziosa, il testo della poesia.

Proseguiamo dopo una breve passeggiata fra le vie e la piazza. Il caldo è potente: non fosse per una lieve brezza sarebbe quasi impossibile procedere a lungo. E allora provo a immaginare, attraverso le parole di Ungaretti, a come deve essere stato qui, in mezzo a brandelli di muro, sotto il sole, senz'acqua.

Pochi minuti di macchina ed eccoci sulla sommità, ormai a pochi passi da Cima 3: un piazzale che si affaccia sull'Isonzo, una fila di cipressi, pezzi di artiglieria in mostra, come scheletri di dinosauri. Sulla cima, a poca distanza dal monumento che ricorda ungheresi e italiani, l'immancabile ripetitore. Eccoci, dunque. Decidiamo di entrare nel piccolo museo. Tre stanze, pochi oggetti, e un percorso virtuale che racconta al visitatore la storia con l'ausilio della tecnologia. Qui incontriamo, oltre al custode, due visitatori prima di noi; altri due verranno dopo; una macchina che passa, un ciclista che si riposa.

La visita al museo ci lascia, complice la realtà aumentata cui ci siamo sottoposti, un lieve senso di nausea. Dopo schermi interattivi, foto e testimonianze, torniamo all'aperto e visitiamo la cannoniera sotterranea che gli italiani scavarono dopo la conquista del monte. E qui il pensiero vola alla galleria di cima Grappa, e a come la natura stessa sia stata partecipe delle vicende degli uomini, fin dentro la nuda roccia: distrutta, sbalzata, ridotta a ghiaia dalle granate, scavata nelle sue viscere per offrire riparo e creare nuova offesa. Come questa pietra del San Michele... 

Camminiamo ora nella zona sacra, fra resti di trincee e il sole che cala a poco a poco verso le montagne. Mi chino per toccarle, queste pietre: scottano, grattano e tagliano. Hanno assaggiato anche i gas velenosi, queste pietre. Il 29 giugno del 1916 gli austriaci attaccarono usando cloro e fosgene: i fanti italiani non avevano praticamente nulla per difendersi da questa nuova arma. Morirono a migliaia soffocati dal gas.

Un secondo punto panoramico, rivolto verso Trieste, consente di abbracciare il paesaggio che si estende a est. Nulla di diverso: doline, colli bassi e lunghi che digradano in direzione del mare, oggi ricoperti di intricatissima boscaglia. Alberi e arbusti che, con le loro radici, scavano fra la poca terra e le pietre. In macchina, prima di scendere, troviamo acqua fresca: i vantaggi di parcheggiare all'ombra di uno dei tanti cipressi che delimitano la zona sacra.

Ci resta il tempo di una visita al monumento eretto per ricordare i "diavoli rossi" della "Sassari": la brigata rimase in questa zona fino al maggio 1916, quando fu trasferita in tutta fretta sull'Altipiano dei Sette Comuni per arginare la "Spedizione di Primavera", quella che sui libri viene chiamata Strafexpedition. E qui, mentre osservo le scritte sul monumento che esaltano quanto bello sia morire per la patria, alle parole di Ungaretti si aggiungono quelle del capitano Lussu che aprono il capitolo VI del suo libro: Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte...

Il nostro tempo quassù volge alla fine. Stasera saremo a cena con un amico che abbiamo rivisto ieri dopo anni e che ci presenterà la sua compagna. Non vogliamo fare tardi. Scendiamo scambiando poche parole, un po' per il caldo, un po' per ascoltare le indicazioni di Google. E così ripenso ancora al poeta del Carso, e mi dico che qui sarebbe da venire con i miei studenti per leggere quei testi che si studiano dentro i muri della scuola, fra i banchi, col pensiero dell'esame di Maturità che si avvicina: farli camminare per questi sentieri, far loro toccare queste pietre. Qui sarebbe da sentire quelle parole, non fra muri e banchi e lavagne vecchie e nuove. Ma poi mi zittisco. Basta anche con i pensieri.

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

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