domenica 21 dicembre 2014

Pensieri (e un augurio) sotto le stelle

Ieri sera, di ritorno da una serata di musica e festa, mentre rientravo in casa, mi sono accorto che in cielo brillavano le stelle: una magnifica volta stellata invernale, limpida e che invitava alla contemplazione. Non ho sbagliato verbo e non credo di esagerare. Per i Romani il verbo contemplo aveva in origine proprio il significato di scrutare con attenzione il cielo entro uno spazio sacro denominato, appunto, templum. Il contemplare, che anche per noi si lega alla sfera del sacro, era perciò legato al cielo, all'osservazione attenta e silenziosa. E ieri sera era silenzio, la temperatura vicina allo zero, l'aria ferma. Ricordavo, uscendo in cortile, l'attacco di una celebre canta natalizia, testo di Carlo Geminiani e musica di Bepi De Marzi:

Le stelle in cielo passan piano piano
e nelle case scure ancor se sogna...

Potete ascoltarla qui nella prima incisione realizzata dal M. De Marzi coi suoi Crodaioli. Certo, tornando indietro nel tempo della letteratura, altri testi si potrebbero citare. Proprio ora me ne torna in mente un altro:

Dolce e chiara è la notte e senza vento...

Inizia così anche La sera del dì di festa di Leopardi, poeta e filosofo che, paradossalmente, più di tanti "mistici" sapeva contemplare lo spettacolo della notte. 
Ieri sera, però, mentre mi distendevo sulla superficie scomoda di una panchina posta in cortile, in bocca la pipa e in testa un berretto di lana, non ho pensato a Leopardi ma a Dante. Osservavo le stelle, le più vicine e luminose e poi, dopo che lo sguardo si era abituato all'oscurità, anche le più distanti. Con la parola 'stelle', si sa, termina ogni cantica della Commedia dantesca. Ieri sera, contemplando il cielo, ripetendo come un bambino i versi finali dei tre canti trentatreesimi, ho capito il perché di questa scelta. Non chiedetemi di spiegarlo, non è stato un ragionamento razionale; piuttosto si è trattato di un'intuizione. Al di là di manuali, trattati, studi, saggi, al di là, e di gran lunga, da tutto questo fiume di parole, nel silenzio di una notte di inizio inverno ho capito la bellezza di quei versi. Erano come musica, e davano pace.

Nel frattempo avevo acceso la pipa, nuvolette di fumo si alzavano verso il cielo e si perdevano nell'aria silenziosa. Sono stati mesi impegnativi gli ultimi dodici. Un anno fa scrivevo come un pazzo la tesi di laurea, sei mesi fa studiavo per il TFA, gli "Hunger games nostrani", come li definisco, non penso del tutto a torto. Poi, da settembre, la scuola, le soddisfazioni, la ansie, le fatiche, le gioie, la responsabilità di un lavoro estremamente appassionante e, al contempo, di un ruolo estremamente impegnativo. A novembre, infine, le prove scritte e orali degli Hunger games. Mesi impegnativi e che, tuttavia, sotto il cielo stellato sfumavano in quel momento come le nuvolette biancastre che sbuffavo verso l'alto.
So di dire ovvietà, eppure davvero dovremmo tornare più spesso a contemplare il cielo. Fermarci, alzare la testa, cambiare direzione allo sguardo, specie in questo periodo di parossissmi luminosi a buon mercato. A cambiare prospettiva le cose riacquistano il giusto senso, la giusta misura. E senza bisogno di tante spiegazioni. Così, se prima di leggere Dante o Leopardi o qualsiasi altro autore ci immergessimo in tanta immensità, nessuno porrebbe più la ridicola assurda domanda: "A cosa serve studiare queste cose?". Perdonate la lieve vis polemica, mi giustifico dietro al fatto che faceva parte dei pensieri di ieri sera...

L'anno scorso auguravo un Natale di silenzio. Quest'anno a tutti voi, amici lettori, auguro un Natale di contemplazione. Non di luci al neon, di stelle che brillano a intermittenza o di luccichii accompagnati da musiche metalliche. Di ciò che veramente conta, magari passando attraverso la contemplazione reale di quel cielo stellato che da millenni scrutiamo alla ricerca di risposte e dal quale riceviamo, il più delle volte, soltanto nuove domande.

lunedì 8 dicembre 2014

"Hunger games": spunti per l'analisi di un successo

Ebbene sì, sono anch'io un fan di Hunger games, la celebre saga che spopola fra gli adolescenti e di cui è da poco uscito al cinema il primo episodio della terza parte. Un po' nascondendomi dietro la frase "I miei alunni lo guardano, devo guardarlo anch'io", un po' tacendo e dissimulando (verbo che mi riporta a certa trattatistica del Seicento, secolo sempre troppo bistrattato) mi sono da tempo visto le prime due parti e, qualche giorno fa, anche la terza. Non starò qui a raccontare emozioni o a fare analisi, anche perché il film è stato in effetti piuttosto noioso: distante l'azione e la suspanse dei primi due, speriamo che l'abbassamento di tensione sia funzionale, come mi ha suggerito un'amica, al gran finale.
La riflessione che vorrei condividere oggi verte piuttosto sul successo della saga, successo dovuto certamente ai giovani protagonisti, alle scene spettacolari, ai temi vicini alle giovani generazioni ma, forse, anche a qualcos'altro. Questo qualcos'altro mi interessa particolarmente. Premettendo che non ho letto i romanzi cui i film si ispirano e nemmeno ho voluto informarmi su come andrà a finire la storia, mi limiterò a presentare alcune considerazioni su alcuni dei temi presenti o su particolari aspetti della vicenda, a partire dal primo film e fino all'episodio da poco uscito, magari cercando - filologia docet -  qualche modello che spieghi o per lo meno indichi come mai la saga tanto piace ai giovani e non solo.  

Innanzitutto l'elemento distopico: la saga è ambientata in un futuro tetro e negativo che fa ripensare a 1984 di George Orwell o a Farenheit 451 di Ray Bradbury, per citare a memoria due romanzi che hanno fatto la storia letteraria del genere. In Hunger games un'unica città, Capitol City, tiene sottomessi dodici distretti e i loro abitanti, asserviti e costretti a produrre materie prime che vengono consumate da una ristrettissima minoranza. Non credo serva analizzare oltre: futuro distopico, certo, ma anche molto presente, molto mondo reale.

In secondo luogo vorrei focalizzare l'attenzione sugli elementi mitici. Chiunque abbia una buona conoscenza della mitologia greca non avrà faticato a riconoscere nell'orribile sacrificio che ogni anno Capitol City impone ai distretti un riferimento al mito di Teseo e del Minotauro. Una ripresa ibrida, che si mescola a pratiche di divertimento tipiche anche del mondo romano (si pensi fra tutte ai giochi gladiatori) e che si lega anche ad un altro aspetto: la spettacolarizzazione della morte tipica della nostra società. Dietro la barriera uniformante di uno schermo di computer o di un televisore tutto appare finzione e spettacolo. Così nel film la lotta che si consuma fra i giovani gettati nell'arena a uccidersi l'un l'altro diviene spettacolo e divertimento per gli abitanti di Capitol City. La morte in diretta, la morte spettacolo: se qualcuno volesse approfondire la questione rimando ad un'interessante analisi firmata qualche tempo fa da Emanuele Zinato per Le parole e le cose. La potete trovare cliccando qui.

Un quarto aspetto su cui ho riflettuto riguarda la dimensione omnipervasiva del reality. In Hunger games viene infatti portato alle estreme conseguenze il mondo descritto da Orwell e che, direi, è divenuto mutatis mutandis parte della nostra realtà quotidiana. Telecamere osservano, spiano, riferiscono al malvagio dittatore che governa Capitol City, il presidente Snow, unico detentore di un potere rappresentato con le fattezze delle dittaure novecentesche, nel suo modo di porsi e di rappresentarsi: scenografie grigie e lugubri che potrebbero esser state disegnate da Albert Speer si mescolano a scenari postmoderni fatti di giochi di luce e d'acqua. In un mondo tale, che unisce immaginario collettivo e fantasia, la dimensione privata non esiste più. Tutti possono essere spiati se il potere lo vuole. Anche qui, dove sono il fantasy, dove la realtà e dove l'immaginario e la memoria collettivi?

Altri elementi meriterebbero di essere analizzati: il fatto, anzitutto, che la protagonista sia una ragazza e una ragazza che non si conforma per nulla agli stereotipi di genere. In un mondo futuro che, oltre agli aspetti sopra descritti, serba anche caratteri del più favoloso medioevo (si pensi solamente agli scenari selvaggi o alle armi utilizzate dai combattenti) Katniss può divenire un vero e proprio cavaliere che, al pari di Orlando o di altre figure tipiche dei cantari di gesta medievali, difende i deboli e, addirittura, li guida alla rivolta. Un po' cavaliere e un po' vendicatrice (penso allo stupendo V per vendetta di qualche anno fa), la bella, impulsiva e irriverente Katniss rappresenta la ribellione ad un sistema ingiusto e tirannico, pronto a reprimere ogni sussulto di ribellione e che, soprattutto, non esista a sacrificare la vita umana alle leggi dell'economia e del potere. Fantasy, dunque, o realtà?

Direi che gli elementi presentati potrebbero fornire alcune chiavi di lettura per comprendere il successo meritato di una serie che mi sembra nel complesso ben costruita. Anzi, a mio avviso proprio la sapiente mescolanza degli aspetti evidenziati ha contribuito, e non poco, a determinare il successo di Hunger games, che - non lo dimentichiamo - si traduce come 'i giochi della fame'. Il mito riporta ad archetipi che non possono non incontrare, se ben presentati, il favore del pubblico, presentando nodi profondi dell'animo umano e della storia dell'uomo, nodi che i tragediografi greci hanno insegnato a sviscerare sulla scena; l'elemento fantasy, poi, colora e trasporta altrove per affermare cose che sono molto più vicine alla nostra realtà di quanto a prima vista non sembri.
Poi, certo, si rimane sempre nel consueto circolo vizioso: per quanto fautore e diffusore di idee e di immaginari alternativi, un film è e resta, come qualsiasi opera creativa, il prodotto di una determinata visione, di una determinata cultura, di una determinata economia. In quanto prodotto è finalizzato alla vendita. Non voglio riprendere riflessioni su cui si sono spesi fior fior di filosofi e pensatori da Marx in avanti. Tuttavia, in un panorama sempre più appiattito e in cui - mi riferisco in particolar modo al nostro paese - si legge sempre meno, qualche buona idea ci può anche venire dalla visione di un film o di una serie di film. Una serie che emoziona e coinvolge ma che, al contempo, se guardata con la testa, può offrire spunti per una riflessione più profonda.

domenica 16 novembre 2014

Sull'altopiano dove... torneranno i prati

Ieri sera sono andato a vedere tornerranno i prati, l'ultimo film di Ermanno Olmi, storia di una notte trascorsa da un gruppo di soldati in un avamposto avanzato di montagna durante la Grande Guerra. L'aspettativa era molta, sia perché da sempre apprezzo le pellicole del grande regista sia perché gli argomenti e i luoghi della vicenda narrata sono gli stessi de L'eco delle battaglie. Sembra incredibile, ma è così: il set del film non è lontano dalla parte di altopiano in cui ho immaginato che si svolga la vicenda di Irene ed Emanuele.
Con tredipazione e attesa, dunque, mi sono recato al cinema. Sceso il buio in sala, sin dalle prime primissime scene ho riconosciuto la mano del regista, il suo stile e il suo modo di osservare e ritrarre la realtà nonché il messaggio forte che egli intendere trasmettere. Il film torneranno i prati, dal titolo scritto volutamente in minuscolo, è un film contro la guerra, le sue assurdità, la disumanizzazione che crea in coloro che la subiscono, temi cari ad Ermanno Olmi com'erano cari anche a Mario Rigoni Stern. E a mio avviso numerosi sono i riferimenti e le citazioni che il film rivolge allo scrittore asiaghese amico del regista, a partire proprio dal titolo, che rievoca un antico detto cimbro presente in più libri del "vècio":

Sette volte bosco, sette volte prato
poi tutto tornerà com'era stato.

Anche il luogo in cui la vicenda si svolge rimanda a pagine celebri di Rigoni Stern: il film si svolge in una trincea coperta e nel bunker annesso in cui i soldati riposano. Difficile non ritrovare in essi quel caposaldo sulle rive del Don in cui è ambientata la prima parte de Il sergente nella neve (e anche nel film arriverà, ad un dato momento, un ordine di ritirata). L'insistenza poi delle inquadrature sulle travi di legno del bunker, sulle foto di ragazze e sulle cartoline appuntate un po' ovunque mi sono parsi ulteriori elementi in tal senso. Certo, si tratta in fondo di particolari che sempre sono presenti nella guerra, sia essa reale o rappresentata dalle arti, e che, accomunando conflitti diversi, rivelano tratti comuni ad ogni conflitto, di ieri e di oggi.

La vicenda non si sposta mai dal caposaldo d'alta quota e il clima di soffocamento di cui diversi recensori hanno parlato viene reso magistralmente: soffitti bassi, spazi angusti, luce fioca rendono l'ambiente davvero una <<tana>>, per usare ancora un termine tratto dal Sergente. In questi pochi metri si svolge la vicenda, in realtà non del tutto chiara. La trama mi è parsa infatti l'aspetto più debole del film, tralasciata forse per privilegiare i ritratti dei personaggi: volti smunti, sporchi, trasandati, malati, volti che rappresentano bene le sofferenze e il male della guerra. Eppure, a mio avviso, il film paga la mancanza di una trama ben definita. Il ritmo manca o s'inceppa, a tratti tentenna. Vi sono elementi tipici della Prima guerra mondiale e delle opere che l'hanno narrata: ordini assurdi (tutta la prima parte del film ruota attorno all'esecuzione di un ordine assurdo e irrealizzabile), comandi presenti solo per dare ordini di morte, il fatalismo, la rassegnazione, il nullo valore attribuito dalle gerarchie alla vita umana e, di contro, la voglia di vivere troncata da un destino sordo e crudele. A volte, però, tali elementi non sono ben coesi o assumono tratti didascalici, come il riferimento alla mina nella seconda parte. Troppa roba. Nel complesso, però, il clima che si respira è quello di una fortezza Bastiani in cui nulla succede. Il nemico c'è, manda i suoi strumenti di morte, fa sentire la propria voce ma non compare mai; l'unico vero "nemico" che si vede non è davanti ai personaggi, ma dietro e telefona o manda ordini da firmare per ricevuta.

Ben delineati, nel complesso, i caratteri dei personaggi principali, anche se con differenze di interpretazione su cui ciascuno potrà giudicare: su tutti, indistintamente, grava il peso di un destino enorme e dal volto di Medusa, contro il quale ciascuno reagisce come può. Anche qui tuttavia emerge forte il messaggio del regista: solo strappandosi i gradi il capitano che comanda la postazione può uscire dal circolo vizioso di un meccanismo di morte e di annullamento dell'uomo per ritrovare, prima di morire a sua volta, la propria dignità. Questo e altri elementi mi hanno fatto ricordare le atmosfere cupe di Uomini contro di Francesco Rosi, tratto dal memorabile Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu. Se nel film di Rosi c'era ancora spazio per qualche momento epico, persino trionfale (ricordo la celebre anche se poco attendibile carica di cavalleria), in torneranno i prati l'unica epica possibile è quella delle piccole cose, l'unica celebrazione possibile quella del dolore e del ricordo per i morti. In uno sfondo di inenarrabile bellezza (la fotografia è a dir poco mozzafiato), sommersi dalla neve, vivono i ricordi dei soldati, le loro memorie. Sono ombre, fantasmi del passato quelli che prendono la parola nel film di Ermanno Olmi. Parlano col tono sommesso degli spiriti, forse come quelli che, racconta ancora Rigoni Stern, si ritrovano nelle notti d'inverno tra le pareti dell'osteria di confine (cf. Sentieri sotto la neve) o tra i boschi dell'altipiano. 

Devo ammetterlo: pur riconoscendo l'importanza del messaggio della pellicola, pur apprezzandone alcuni aspetti, sono uscito dal cinema un poco deluso. Forse mi aspettavo qualcosa di diverso, forse sono caduto nell'errore di questo tempo, che chiede storie, trama, azione. Le storie ci sono nel film, ma sono quelle che traspaiono dai volti e dalle poche sommesse parole che i personaggi scambiano. C'è comunque poesia, molta, in torneranno i prati, c'è una denuncia contro la guerra che ha il tono dell'imprecazione della povera gente che la guerra deve subirla, c'è la malinconia dei tanti che sono morti e l'ansia di testimoniare ciò che è stato. C'è, infine, uno sguardo lento, che si posa con attenzione e profondità sulle cose. Bene, dunque, nel complesso, anche se avrebbe potuto esserci  qualcosa di più.




domenica 2 novembre 2014

Fra il bandolo e il dubbio in (buona) compagnia di due poeti

Questo è soprattutto un blog di riflessioni sui libri e sulla letteratura. Tuttavia, come sanno i miei lettori, a volte mi piace cercare (e creare) punti di contatto e cortocircuiti tra le parole scritte e le parole di quella che chiamiamo realtà, convinto che non di mondi separati si tratti ma solamente di facce diverse di un'unica esperienza.
Questa settimana ho dunque provato, nonostante il poco tempo a disposizione per riflettere, a trovare nei libri una risposta ai tanti quesiti che dalla cronaca, nazionale ed internazionale, mi sorgevano, ai dubbi, alle incertezze: proteste che finiscono sotto i manganelli, sentenze che lasciano interdetti, riunioni politiche e dichiarazioni in rima; e poi l'Ebola, la questione in Medio Oriente, l'Europa, la Russia di Putin, la Pedemontana che passerà sotto il mio colle...
Lo so, mi si potrebbe facilmente chiedere perché me la prenda tanto. Non si tratta in fondo sempre delle solite cose? Non siamo forse oberati di notizie più o meno catastrofiche in ogni momento? Annuisco e chino la fronte. A volte però capita, per citare Camus, <<che la scena si sfasci>> (cf. Le muraglie assurde ne Il mito di Sisifo), che, senza bisogno di evocare visioni apocalittiche e crisi insuperabili, si senta la necessità di trovare un minimo di ordine in tutto il caos che ci circonda.

<<Come trovare il bandolo in un gomitolo tanto aggrovigliato?>> mi sono chiesto ieri, mentre aiutavo mio padre a raccogliere le poche olive che l'annata cattiva ha concesso. D'impulso sono corso agli studi fatti, ai libri letti; d'impulso ho cercato una risposta. Il vento e il rumore delle mani tra le fronde, accompagnati dal volo di un pettirosso, mi hanno presto distratto dal mio intento. Sono tornato a pensarci più tardi. Eppure, pur non avendo distrazioni, non ho trovato risposte. Forse la stanchezza, forse lo stress...

Forse è inutile cercare nei libri una risposta. Possiamo raggranellare spunti, esempi, dati, indurci a porre, a porci altre domande. A volte possiamo, incerti, proporre uno schema che, dopo cinque minuti, saprà già di vecchio e sarà da buttare. Così, non ne usciamo, lo so. E laggiù continuano a parlare e parlare, a fare ciò che hanno sempre fatto, incuranti della nostra presenza. Ma allora a che serve? Sposto il baricentro. Mi aggrappo alla convinzione che interrogarsi sia comunque giusto. Per noi, per me. Per restare a galla. Ripenso ad una mia insegnante del liceo che un giorno ci stupì, adolescenti alle prese col nostro piccolo mondo, esclamando con occhi quasi sbarrati le seguenti parole: - Mio compito, ragazzi, non è darvi certezze ma seminare dubbi!
Ripenso ad allora e mi domando se si possa ancora coltivare un po' di sano dubbio in mezzo a tanti che strillano ai quattro venti le loro verità. Giro a voi la domanda e propongo due testi di poeti a me cari che sono andato a riscoprire ieri sera.

Il dubbio è uno dei punti fondamentali del percorso poetico e filosofico di Giacomo Leopardi, che così scriveva il giorno 8 settembre 1821 nel suo Zibaldone:  <<Il mio sistema introduce non solo uno scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana, per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero [...] ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere>>.
 
Con gioia ho ritrovato queste parole nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, che pure non mi ha entusiasmato ma sul quale non mi soffermerò oggi. L'altro testo che propongo è una poesia di Bertolt Brecht nella classica traduzione di Franco Fortini. Non mi dilungo a introdurla. Dico soltanto che mi ha confortato quel richiamo all'azione presente verso la fine. Chi tra voi non fosse riuscito, come non c'è riuscito il sottoscritto, a risolvere questa impasse del dubbio, potrà almeno dire (ancora una volta) di essere in buona compagnia. E magari, tra un dubbio e l'altro, a nutrire un pur timido barlume di speranza.
 

Colui che dubita

Sempre, ogni volta che
ci pareva di aver trovato la risposta a un problema,
uno di noi scioglieva, sulla parete, il nastro dell'antico
rotolo cinese sì che svolgesse e
visibile apparisse l'Uomo Seduto che                                               
tanto dubitava.

Io, ci diceva,
sono Colui che dubita. Dubito che
sia riuscito il lavoro che v'ha inghiottiti i giorni.
Che, quel che avete detto, se detto peggio valga tuttavia                   
                                         per qualcuno.
Che lo abbiate detto bene e che forse un po' troppo
vi siate, alla verità di quanto avete detto, affidati.
Che sia ambiguo: per ogni possibile errore
vostra sarebbe la colpa. Può anche essere troppo univoco               
e allontanar dalle cose la contraddizione; non è troppo univoco?
Allora quel che dite è inutilizzabile. Le cose vostre sono
                                       inanimate, allora.
Siete realmente nel corso degli eventi? Compresi con tutto
quel che diviene? Siete ancora in divenire, voi? Chi siete? A chi           
parlate? A chi serve quel che state dicendo?
E, fra parentesi:
vi lascia sobri? Si può leggerlo di mattina?
È anche congiunto al presente? Le tesi
davanti a voi enunciate son messe a profitto o almeno con-               
                                          futate? Tutto
è documentabile?
Per esperienza? Di chi?
Ma prima di tutto
e sempre, e ancora prima d'ogni cosa: come si agisce                       
se si crede a quel che dite? Prima di tutto: come si agisce?

Pensierosi noi si considerava con curiosità
l'uomo Turchino dubitare dal quadro, ci si guardava e
da capo si ricominciava.

Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1959, pp. 200-201.




domenica 12 ottobre 2014

Tra boschi, sentieri e memorie destinate all'oblio

Mercoledì scorso era una giornata grigia di inizio autunno, mite la temperatura ma cupo il cielo. Complice la foto postata da un amico riguardante una contrada del mio paesello che sarà presto interessata dal passaggio della tanto vagheggiata (per alcuni) autostrada pedemontana, ho deciso di tornare a percorrere un sentiero antico, una delle vie che un tempo conducevano a Santurbàn dalla Valle dell'Agno e passando attraverso la Valbona. Questo il nome della contrada, Valbona, la valle buona, toponimo attestato sin dal 1206, in un documento riguardante l'allora titolare della Chiesa di Vicenza, Uberto. Ne parlai in un mio racconto apparso sul sito Iborderline e intitolato Una sera di giugno
Cose che possono interessare solo a chi ha la pazienza di ascoltare le antiche storie e, magari, di percorrere i sentieri che ancora lambiscono i fianchi del colle. Certo, non "robe da politicanti". Perdonate la licenza, ma ogni testo esige stile confacente ai contenuti. E oggi, come mercoledì scorso, l'ironia cede il passo al silenzio cupo e malinconico di chi ricorda il passato senza poter far nulla per il presente...

Uscito di casa con questo pensiero, sono salito sulla vetta occidentale del monte Costi e ho imboccato poi il sentiero che, unendosi alla carrareccia che parte dal camposanto, scende verso il bosco e la valle. Prima di scendere ho osservato la vallata dell'Agno, valle verde un tempo, grigioverde oggi, dopo l'epoca del progresso. Versi celebri s'insinuavano tra i pensieri rendendo ancor più forte, vivida l'osservazione. Il verde sembra davvero dare fastidio a questa nostra civiltà. Luigi Meneghello, Congedo: <<Intorno si vede sorgere / un mondo di cose nuove,/ questa roba si spazza via / trionfa un rigoglio / banale e potente>>. Questa roba si spazza via...

Abbassatomi di poche decine di metri, trovo l'imbocco del sentiero. Il bosco è vecchio, avrebbe bisogno di essere tagliato, accompagnato. Ma a chi interessa? Mi avvio e penso a Dante, alla discesa assieme a Virgilio tra i gironi infernali e, ancor più, all'inizio della Commedia che, imparato da bambino, torna a volte a visitarmi:

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Citazione  impropria, me ne rendo conto, ma spontanea. Intorno, il bosco si va vestendo dei colori autunnali, l'aria è rarefatta, pochi i rumori. Il rombo dei motori, ben percepibile dai prati più alti, rimane fuori, sulla porta. Proseguo attraverso il sentiero, piuttosto ripido in questo punto. Giungo al costone dei castagni, e mi commuovo. Dopo due anni di pena, dovuti a un parassita giunto dall'estremo oriente, i castagni hanno ripreso a fiorire e quest'anno hanno prodotto frutto. Una speranza che un sole timido, spuntato per pochi istanti, sembra corroborare.

Riprendo il cammino svoltando a sinistra e procedendo verso la pianura. Il terreno è umido e devo fare attenzione se non voglio scivolare. Terra umida, *Brunno in antico germanico, da cui, probabilmente, Bruna, altro nome di questa valle, tramandato oralmente come un antico poema finché un caro amico,  esperto di toponomastica, non l'ha registrato in un suo libro (cfr. Luciano Chilese, Toponomastica di Montecchio Maggiore, Francisci Editore, Abano Terme 1988, p. 304). Ma ecco ormai che il bosco si apre. Con le prime case compaiono i segni degli imminenti lavori  per l'autostrada che qui passerà.

Lo sconforto mi prende. Altri versi, quelli di un Franco Fortini disilluso e stanco, subentrano ai precedenti:

Non posso giovare, non posso parlare, 
non posso partire per cielo o per mare...

Eccolo il progresso, in quei cumuli di terra allineati come un agmen, un'armata in marcia. Scendo ancora, incontro le case della contrada e scambio qualche parola con una paesana: parole semplici ma che fanno bene come una tazza di tè in una sera d'inverno. La saluto e proseguo. Sulla sinistra della strada, la vecchia casa e la stalla del "Barba" stanno cedendo al tempo e all'abbandono.


Percorro la strada che scende fino a congiungersi con la provinciale. A poche decine di metri da me auto e camion sfrecciano in velocità. Arrivo all'antica fontana della contrada e mi rattristo non poco al vedere le condizioni in cui è tenuta. Quasi non si vede, soffocata da erbacce e rovi. E pensare che nello stesso libro che ho citato sopra si parla della leggenda legata a questa fontana, leggenda secondo la quale, guardando nell'acqua, apparirebbe sul fondo la città scomparsa... Rovi ed erbacce sembrano una metafora, l'ennesima, di quanto avviene anche per il bosco e per tutto il resto. Dai versi di Fortini il pensiero salta a quelli di Bertolt Brecht, in particolare al coro finale dell'Opera da tre soldi

Meditate la tenebra e l'inverno 
di questa valle percossa dal pianto.

Proseguo per qualche altra decina di metri, supero il piccolo monumento ai partigiani. In questo luogo il 26 aprile 1945 due giovani, di cui uno del mio paese, persero la vita in un'azione contro i tedeschi. Leggo la lapide; mi colpisce l'invito finale: <<Passante inchinati e prega>>. Memorie recenti si intrecciano al passato più antico. In una stele greca o romana non avrei trovato parole troppo diverse. Eppure, tutto passa e va. Cose non fatte per l'era della velocità che tutto lascia inghiottire dal Lete, il fiume che nel mito sancisce la dimenticanza e l'oblio.
Proseguo ancora un po', fintanto che il rumore della provinciale non diventa troppo forte. Poi inverto la marcia, torno sui miei passi. Accanto alla stradina di contrada brilla il futuro che attende questi luoghi. Mi fa sorridere amaro il gesto di alcuni che vivono oltre la provinciale, i quali hanno esposto davanti alle loro case il vessillo di San Marco, moderna, farsesca rivisitazione di un mito che negli ultimi anni dalle mie parti ha intercettato senza troppa fatica il malcontento e la rabbia di una certa parte del leghismo. Sorrido amaro pensando alla distanza che separerà quelle bandiere dalla colata di asfalto e cemento ormai imminente. E scuoto la testa.

Ritrovo il monumento con la sua piccola stele, poi le case della contrada, l'imbocco del sentiero, il bosco. Un'ultima citazione dalla letteratura mi ritorna mentre fatico per risalire il sentiero. Nel capitolo 30 dell'Agricola, lo storico romano Tacito dà voce al capo dei Caledoni, Calgaco. Siamo nella Britannia di fine I secolo d.C.: i Romani, guidati da Agricola, stanno sottomettendo l'isola e le sue popolazioni. Nell'imminenza della battaglia decisiva, il Calgaco tacitiano esorta i suoi con parole rimaste scolpite nella storia e, descrivendo i Romani, termina così:


«Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant». 
Rapinatori del mondo, dopo aver devastato ogni cosa, non essendoci più terre, frugano il mare; se il nemico è ricco sono avidi, se è povero, pieni d'ambizione, essi, che né l'Oriente né l'Occidente potrebbero mai saziare, gli unici che bramano con pari veemenza di avere ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, con falso nome lo chiamano impero e là dove fanno il deserto la chiamano pace (traduzione mia). 

Scuoto la testa un'ultima volta. Solo pensieri i mei, in fondo. E me ne torno verso casa.



domenica 28 settembre 2014

Quando la scuola ricomincia: un paio di riflessioni da chi ha iniziato (per la prima volta) "dall'altra parte"

- Perché non hai più scritto nel blog?
La domanda, rivoltami da un caro amico e lettore qualche giorno fa, mi ha lasciato interdetto. Non ho saputo rispondere subito. L'avessi fatto, avrei dovuto confessare la verità, che cioè, almeno in quel momento, non ricordavo proprio di avere un blog. Demenza senile incipiente? No, spero, solo una serie piuttosto fitta di impegni accumulatisi in questo inizio autunno. Furbescamente ho portato altrove la conversazione, introducendo con noncuranza un altro argomento.
- Sai, ho dichiarato, - mi hanno chiamato in una scuola e sono stato molto occupato.
L'amico ha sgranato gli occhi, visibilmente sorpreso. È rimasto poi immobile per alcuni secondi. Per rompere l'imbarazzante silenzio ho ripetuto la mia dichiarazione, scusandomi per non averlo avvisato prima. In effetti, pensavo tra me, sono davvero poche le persone che ho avvisato. Era vero. 
Dunque eccomi qui, a fare ammenda e a condividere alcune riflessioni maturate in questi primi giorni di un'esperienza del tutto nuova. Da scolaro al rovescio, potremmo dire, o da docente-discente. Un conto è, infatti, incontrare classi per qualche ora come già da qualche tempo sono solito fare, parlando di libri, letteratura, storia e attualità, un po' facendo il serio e un po' il paiasso; ben altra cosa è trascorrere con i giovani discenti ore su ore e giorni su giorni. Un'esperienza che ti cambia, se non altro nell'organizzazione delle giornate...

Tralasciando il resto, due sono le riflessioni che più di frequente mi sono trovato a fare in questi giorni "da prof.": l'una riguarda la responsabilità e la fatica dell'esser docente, l'altra la preparazione, l'"addestramento", se volessimo utilizzare un termine attinto dalle cose militari, fornito all'aspirante docente dall'organizzazione scolastica che dovrebbe formarlo. Dovrebbe, appunto. Ora, non scrivo certo per sollevare polemiche, l'Università è l'Università e su certe cose non si può, o non conviene (non licet dicevano un tempo), sindacare. Accenno soltanto al fatto che almeno un poco, un pochettino di disagio si prova a salire in cattedra la prima volta. Si ricordano allora certe lezioni seguite dagli spartani banchi del Liviano e ci si domanda come tradurre (ché di traduzione in fondo si tratta) una lezione sulle forme brevi nella poesia latina ai giovinetti che ci si trovano di fronte. Insomma, anche mettendocela tutta, dopo qualche ora si arriva a domandarsi cosa la beata vita universitaria abbia lasciato in noi. Fortunatamente, un po' riconsiderando la nostra semenza, un po' riconoscendo che, in fondo, questo è proprio quel mondo onde cotanto ragionammo un tempo, un equilibrio si finisce per trovarlo. Il dubbio non ti lascia, ma si tacita più o meno dolcemente soffocato.
La seconda considerazione che vorrei condividere riguarda, dicevo, la responsabilità del docente, una responsabilità davvero enorme se commisurata alle forze e all'età in cui uno può cominciare a far parte della categoria (anche se lassù da tempo stanno facendo di tutto per ovviare a questo problema). E se al pensiero di essa tremano vene, polsi e polsini, a bilanciarla contribuisce, oltre alla passione per un lavoro che si rivela da subito incredibilmente affascinante e stimolante, la consapevolezza che non si è comunque mai arrivati. Allora sì torna buono qualche passo letto all'Università, e anche il buon predicatore e meno buon razzolatore Seneca (per nominarne uno tra tanti) può ancora insegnare qualcosa. 

- Sarai contento! - ha esclamato l'amico riprendendo a parlare.
- Sì - ho risposto, - sono contento. Soprattutto sono stato fortunato, molto fortunato. In attesa del sospirato decreto che dovrebbe indire ufficialmente la prova scritta del Tirocinio Formativo Attivo, natural burella attraverso cui ogni aspirante docente deve passare se intende sperare un futuro nella scuola, non posso che riconoscerlo. L'amico si è mostrato contento.
- Un po' di fortuna ci vuole nella vita.
Ho annuito. E ci siamo salutati. 

domenica 7 settembre 2014

Iniziative storico-culturali organizzate dall'Anpi di Montecchio Maggiore

Cari amici lettori,
dedico il post odierno alla promozione di una serie di iniziative di carattere storico-culturale e civile che la sezione della mia città dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia ha organizzato per commemorare e ricostruire storicamente alcuni importanti avvenimenti della Guerra di Liberazione avvenuti in territorio vicentino tra l'estate e l'autunno 1944. 
Ecco gli eventi previsti:

- giovedì 18 settembre 
ore 20.30, presso la sala "Murialdo" dell' Istituto P.P. Giuseppini (sotto la nuova chiesa, Via Murialdo, Montecchio M.): conferenza storica "Montecchio Maggiore, 23 luglio 1944: il disarmo della Marina. Il piano, i protagonisti, le conseguenze" - relatore Giorgio Fin, vice presidente prov.le Anpi e storico della Resistenza - ingresso libero;

- domenica 21 settembre
Pellegrinaggio civile sui luoghi del rastrellamento di Piana e Selva di Trissino del 9 settembre 1944. Ritrovo ore 08.30 presso il cimitero di Quargnenta;

- giovedì 25 settembre
ore 20.30, presso la Sala Civica "Corte delle filande": conferenza storica "Il rastrellamento di Piana di Valdagno e Selva di Trissino del 9 settembre 1944 e il contributo di sangue dei montecchiani" - relatore prof. Maurizio Dal Lago, storico della Resistenza - ingresso libero;

- domenica 28 settembre
ore 10.00, presso la chiesetta di S. Reparata a Vigo di Sovizzo, commemorazione dei partigiani Gelsomino Camerra "Diavolo", Danilo Ceretta "Anibo" e Ottorino Zotta "Romeo-Tevere" caduti il 30 settembre 1944.


domenica 31 agosto 2014

Ritorno in libreria: tra novità poco entusiasmanti e un colpo di fortuna

Ieri, dopo qualche tempo, sono tornato a fare un salto in libreria. Mi trovavo con Paola Valente, carissima amica con cui condivido la passione delle scorribande alla ricerca di nuovi libri. A dire il vero, da un po' di tempo a recarsi in libreria rimaniamo delusi. La ricerca si rivela infruttuosa, le aspirazioni vengono puntualmente deluse: poco o nulla che veramente meriti, molto che non supera la nostra veloce ma accurata analisi. Non è difficile, e la stilcritica ci soccorre: preso il libro si scorrono rapidamente titolo e autore, di questo si legge la presentazione (e qui si potrebbero aprire ulteriori interessanti analisi dato che le informazioni biografiche sono spesso scritte dall'autore medesimo); si passa quindi ad una rapida lettura della sinossi offerta in quarta di copertina o nei risvolti. Infine, dopo un respiro profondo, ci si tuffa tra le pagine operando alcuni mirati carotaggi all'interno del testo. 
Ieri eravamo speranzosi. Siamo alla fine dell'estate, gli editori piccoli e grandi lanciano novità e autori esordienti, magari, dopo una stagione davvero deludente (non solo dal punto di vista climatico), spunta un capolavoro tra gli scaffali. Così ci eravamo detti prima di partire.
Come potete immaginare, i risultati di ieri non sono stati entusiasmanti. Lasciando stare le scritture e gli stili, almeno per quegli autori che si sforzano di curarli, mi ha colpito la ridondanza degli argomenti, delle trame, delle ambientazioni e dei personaggi. Gli esordienti in particolare sembrano voler sparare i loro colpi all'insegna della corporeità: su quattro romanzi presi in mano, tre annunciano storie di corpi o in cui il corpo costituisce chiave fondamentale per intendere la realtà.
- Alla faccia della novità - ci diciamo con un mezzo sorriso.
Dopo i primi minuti la nostra speranza si affievolisce: prendiamo in mano il libro vincitore di un premio importante per inediti e ci domandiamo come si possa riuscire ad andare oltre la prima frase. Invettiva viscerale e drammatica contro il nostro tempo, lo definisce la presentazione. 
- Oh Signore - esclamo spontaneo.
Paola mi viene in aiuto completando la citazione:
- ... Era il nome di mio padre - sorride, ricordando la battuta. 
Ci mettiamo a ridere entrambi al pensiero di quel piccolo capolavoro d'ironia e parodia cinematografica che è Invito a cena con delitto. Uscendo dalla libreria troviamo un'altra occasione di ridere.
- Guarda - esclama Paola, - ne hanno pubblicato un altro!
Punto lo sguardo nella direzione indicata. Sulla mensola campeggia un nuovo titolo firmato Irène Némirovsky. 
- Altro che una valigia - dico.
- Un camion - fa eco Paola.

Usciamo dalla libreria ma presto riprendiamo la nostra ricerca tra altri scaffali, puntando ai libri usati o remainder di un altro negozio. Ed è tra volumi più o meno datati di un raccoglitore esterno che trovo un gioiello cercato invano per anni: Nane Oca di Giuliano Scabia. 
 
Libro introvabile, uscito nel lontano 1992, cercato anche su Farenheit, è il primo capitolo di una saga tanto incredibile quanto poco conosciuta, di cui tempo addietro avevo letto, su consiglio di Paola, il delizioso secondo atto, Le foreste sorelle. Come descrivere Nane Oca? Favola, racconto popolare, epopea contadina... ogni definizione mi appare inesatta e incompleta. Nell'ambiente del mitico Pavano antico, una terra di mezzo chiusa tra magiche foreste, colli (Euganei) e la città di Pava (Padova), si muovono personaggi fiabeschi, onirici quasi, che tanto devono alla tradizione dei racconti tradizionali veneti oltre che alla fantasia dell'autore. Lo stile è candido, rarefatto, lineare e apparentemente semplice la scrittura, arricchita tuttavia da riferimenti e citazioni raffinatissime: un sapore fuori moda nell'era delle scritture standardizzate e anonime, una delizia per intenditori ormai impossibile da reperire. Paola, un po' delusa perché la fortuna è toccata a me, partecipa tuttavia della mia gioia. Prometto solennemente di prestarle il volume il prima possibile. Lo pago cinque Euro, trepidante, assieme a qualche altro acquisto fra libri usati e "vecchie novità". Soddisfatto, penso che c'è ancora da divertirsi con la letteratura. Almeno con quella di ieri.