Ieri sera sono andato a vedere tornerranno i prati, l'ultimo film di Ermanno Olmi, storia di una notte trascorsa da un gruppo di soldati in un avamposto avanzato di montagna durante la Grande Guerra. L'aspettativa era molta, sia perché da sempre apprezzo le pellicole del grande regista sia perché gli argomenti e i luoghi della vicenda narrata sono gli stessi de L'eco delle battaglie. Sembra incredibile, ma è così: il set del film non è lontano dalla parte di altopiano in cui ho immaginato che si svolga la vicenda di Irene ed Emanuele.
Con tredipazione e attesa, dunque, mi sono recato al cinema. Sceso il buio in sala, sin dalle prime primissime scene ho riconosciuto la mano del regista, il suo stile e il suo modo di osservare e ritrarre la realtà nonché il messaggio forte che egli intendere trasmettere. Il film torneranno i prati, dal titolo scritto volutamente in minuscolo, è un film contro la guerra, le sue assurdità, la disumanizzazione che crea in coloro che la subiscono, temi cari ad Ermanno Olmi com'erano cari anche a Mario Rigoni Stern. E a mio avviso numerosi sono i riferimenti e le citazioni che il film rivolge allo scrittore asiaghese amico del regista, a partire proprio dal titolo, che rievoca un antico detto cimbro presente in più libri del "vècio":
Sette volte bosco, sette volte prato
poi tutto tornerà com'era stato.
Anche il luogo in cui la vicenda si svolge rimanda a pagine celebri di Rigoni Stern: il film si svolge in una trincea coperta e nel bunker annesso in cui i soldati riposano. Difficile non ritrovare in essi quel caposaldo sulle rive del Don in cui è ambientata la prima parte de Il sergente nella neve (e anche nel film arriverà, ad un dato momento, un ordine di ritirata). L'insistenza poi delle inquadrature sulle travi di legno del bunker, sulle foto di ragazze e sulle cartoline appuntate un po' ovunque mi sono parsi ulteriori elementi in tal senso. Certo, si tratta in fondo di particolari che sempre sono presenti nella guerra, sia essa reale o rappresentata dalle arti, e che, accomunando conflitti diversi, rivelano tratti comuni ad ogni conflitto, di ieri e di oggi.
La vicenda non si sposta mai dal caposaldo d'alta quota e il clima di soffocamento di cui diversi recensori hanno parlato viene reso magistralmente: soffitti bassi, spazi angusti, luce fioca rendono l'ambiente davvero una <<tana>>, per usare ancora un termine tratto dal Sergente. In questi pochi metri si svolge la vicenda, in realtà non del tutto chiara. La trama mi è parsa infatti l'aspetto più debole del film, tralasciata forse per privilegiare i ritratti dei personaggi: volti smunti, sporchi, trasandati, malati, volti che rappresentano bene le sofferenze e il male della guerra. Eppure, a mio avviso, il film paga la mancanza di una trama ben definita. Il ritmo manca o s'inceppa, a tratti tentenna. Vi sono elementi tipici della Prima guerra mondiale e delle opere che l'hanno narrata: ordini assurdi (tutta la prima parte del film ruota attorno all'esecuzione di un ordine assurdo e irrealizzabile), comandi presenti solo per dare ordini di morte, il fatalismo, la rassegnazione, il nullo valore attribuito dalle gerarchie alla vita umana e, di contro, la voglia di vivere troncata da un destino sordo e crudele. A volte, però, tali elementi non sono ben coesi o assumono tratti didascalici, come il riferimento alla mina nella seconda parte. Troppa roba. Nel complesso, però, il clima che si respira è quello di una fortezza Bastiani in cui nulla succede. Il nemico c'è, manda i suoi strumenti di morte, fa sentire la propria voce ma non compare mai; l'unico vero "nemico" che si vede non è davanti ai personaggi, ma dietro e telefona o manda ordini da firmare per ricevuta.
Ben delineati, nel complesso, i caratteri dei personaggi principali, anche se con differenze di interpretazione su cui ciascuno potrà giudicare: su tutti, indistintamente, grava il peso di un destino enorme e dal volto di Medusa, contro il quale ciascuno reagisce come può. Anche qui tuttavia emerge forte il messaggio del regista: solo strappandosi i gradi il capitano che comanda la postazione può uscire dal circolo vizioso di un meccanismo di morte e di annullamento dell'uomo per ritrovare, prima di morire a sua volta, la propria dignità. Questo e altri elementi mi hanno fatto ricordare le atmosfere cupe di Uomini contro di Francesco Rosi, tratto dal memorabile Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu. Se nel film di Rosi c'era ancora spazio per qualche momento epico, persino trionfale (ricordo la celebre anche se poco attendibile carica di cavalleria), in torneranno i prati l'unica epica possibile è quella delle piccole cose, l'unica celebrazione possibile quella del dolore e del ricordo per i morti. In uno sfondo di inenarrabile bellezza (la fotografia è a dir poco mozzafiato), sommersi dalla neve, vivono i ricordi dei soldati, le loro memorie. Sono ombre, fantasmi del passato quelli che prendono la parola nel film di Ermanno Olmi. Parlano col tono sommesso degli spiriti, forse come quelli che, racconta ancora Rigoni Stern, si ritrovano nelle notti d'inverno tra le pareti dell'osteria di confine (cf. Sentieri sotto la neve) o tra i boschi dell'altipiano.
Devo ammetterlo: pur riconoscendo l'importanza del messaggio della pellicola, pur apprezzandone alcuni aspetti, sono uscito dal cinema un poco deluso. Forse mi aspettavo qualcosa di diverso, forse sono caduto nell'errore di questo tempo, che chiede storie, trama, azione. Le storie ci sono nel film, ma sono quelle che traspaiono dai volti e dalle poche sommesse parole che i personaggi scambiano. C'è comunque poesia, molta, in torneranno i prati, c'è una denuncia contro la guerra che ha il tono dell'imprecazione della povera gente che la guerra deve subirla, c'è la malinconia dei tanti che sono morti e l'ansia di testimoniare ciò che è stato. C'è, infine, uno sguardo lento, che si posa con attenzione e profondità sulle cose. Bene, dunque, nel complesso, anche se avrebbe potuto esserci qualcosa di più.
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