La domanda, rivoltami da un caro amico e lettore qualche giorno fa, mi ha lasciato interdetto. Non ho saputo rispondere subito. L'avessi fatto, avrei dovuto confessare la verità, che cioè, almeno in quel momento, non ricordavo proprio di avere un blog. Demenza senile incipiente? No, spero, solo una serie piuttosto fitta di impegni accumulatisi in questo inizio autunno. Furbescamente ho portato altrove la conversazione, introducendo con noncuranza un altro argomento.
- Sai, ho dichiarato, - mi hanno chiamato in una scuola e sono stato molto occupato.
L'amico ha sgranato gli occhi, visibilmente sorpreso. È rimasto poi immobile per alcuni secondi. Per rompere l'imbarazzante silenzio ho ripetuto la mia dichiarazione, scusandomi per non averlo avvisato prima. In effetti, pensavo tra me, sono davvero poche le persone che ho avvisato. Era vero.
Dunque eccomi qui, a fare ammenda e a condividere alcune riflessioni maturate in questi primi giorni di un'esperienza del tutto nuova. Da scolaro al rovescio, potremmo dire, o da docente-discente. Un conto è, infatti, incontrare classi per qualche ora come già da qualche tempo sono solito fare, parlando di libri, letteratura, storia e attualità, un po' facendo il serio e un po' il paiasso; ben altra cosa è trascorrere con i giovani discenti ore su ore e giorni su giorni. Un'esperienza che ti cambia, se non altro nell'organizzazione delle giornate...
Tralasciando il resto, due sono le riflessioni che più di frequente mi sono trovato a fare in questi giorni "da prof.": l'una riguarda la responsabilità e la fatica dell'esser docente, l'altra la preparazione, l'"addestramento", se volessimo utilizzare un termine attinto dalle cose militari, fornito all'aspirante docente dall'organizzazione scolastica che dovrebbe formarlo. Dovrebbe, appunto. Ora, non scrivo certo per sollevare polemiche, l'Università è l'Università e su certe cose non si può, o non conviene (non licet dicevano un tempo), sindacare. Accenno soltanto al fatto che almeno un poco, un pochettino di disagio si prova a salire in cattedra la prima volta. Si ricordano allora certe lezioni seguite dagli spartani banchi del Liviano e ci si domanda come tradurre (ché di traduzione in fondo si tratta) una lezione sulle forme brevi nella poesia latina ai giovinetti che ci si trovano di fronte. Insomma, anche mettendocela tutta, dopo qualche ora si arriva a domandarsi cosa la beata vita universitaria abbia lasciato in noi. Fortunatamente, un po' riconsiderando la nostra semenza, un po' riconoscendo che, in fondo, questo è proprio quel mondo onde cotanto ragionammo un tempo, un equilibrio si finisce per trovarlo. Il dubbio non ti lascia, ma si tacita più o meno dolcemente soffocato.
La seconda considerazione che vorrei condividere riguarda, dicevo, la responsabilità del docente, una responsabilità davvero enorme se commisurata alle forze e all'età in cui uno può cominciare a far parte della categoria (anche se lassù da tempo stanno facendo di tutto per ovviare a questo problema). E se al pensiero di essa tremano vene, polsi e polsini, a bilanciarla contribuisce, oltre alla passione per un lavoro che si rivela da subito incredibilmente affascinante e stimolante, la consapevolezza che non si è comunque mai arrivati. Allora sì torna buono qualche passo letto all'Università, e anche il buon predicatore e meno buon razzolatore Seneca (per nominarne uno tra tanti) può ancora insegnare qualcosa.
- Sarai contento! - ha esclamato l'amico riprendendo a parlare.
- Sì - ho risposto, - sono contento. Soprattutto sono stato fortunato, molto fortunato. In attesa del sospirato decreto che dovrebbe indire ufficialmente la prova scritta del Tirocinio Formativo Attivo, natural burella attraverso cui ogni aspirante docente deve passare se intende sperare un futuro nella scuola, non posso che riconoscerlo. L'amico si è mostrato contento.
- Un po' di fortuna ci vuole nella vita.
Ho annuito. E ci siamo salutati.
- Un po' di fortuna ci vuole nella vita.
Ho annuito. E ci siamo salutati.
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