Mercoledì scorso era una giornata grigia di inizio autunno, mite la temperatura ma cupo il cielo. Complice la foto postata da un amico riguardante una contrada del mio paesello che sarà presto interessata dal passaggio della tanto vagheggiata (per alcuni) autostrada pedemontana, ho deciso di tornare a percorrere un sentiero antico, una delle vie che un tempo conducevano a Santurbàn dalla Valle dell'Agno e passando attraverso la Valbona. Questo il nome della contrada, Valbona, la valle buona, toponimo attestato sin dal 1206, in un documento riguardante l'allora titolare della
Chiesa di Vicenza, Uberto. Ne parlai in un mio racconto apparso sul sito Iborderline e intitolato Una sera di giugno.
Cose che possono interessare solo a chi ha la pazienza di ascoltare le antiche storie e, magari, di percorrere i sentieri che ancora lambiscono i fianchi del colle. Certo, non "robe da politicanti". Perdonate la licenza, ma ogni testo esige stile confacente ai contenuti. E oggi, come mercoledì scorso, l'ironia cede il passo al silenzio cupo e malinconico di chi ricorda il passato senza poter far nulla per il presente...
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Lo sconforto mi prende. Altri versi, quelli di un Franco Fortini disilluso e stanco, subentrano ai precedenti:
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare...
Percorro la strada che scende fino a congiungersi con la provinciale. A poche decine di metri da me auto e camion sfrecciano in velocità. Arrivo all'antica fontana della contrada e mi rattristo non poco al vedere le condizioni in cui è tenuta. Quasi non si vede, soffocata da erbacce e rovi. E pensare che nello stesso libro che ho citato sopra si parla della leggenda legata a questa fontana, leggenda secondo la quale, guardando nell'acqua, apparirebbe sul fondo la città scomparsa... Rovi ed erbacce sembrano una metafora, l'ennesima, di quanto avviene anche per il bosco e per tutto il resto. Dai versi di Fortini il pensiero salta a quelli di Bertolt Brecht, in particolare al coro finale dell'Opera da tre soldi:
Meditate la tenebra e l'inverno
di questa valle percossa dal pianto.
Proseguo per qualche altra decina di metri, supero il piccolo monumento ai partigiani. In questo luogo il 26 aprile 1945 due giovani, di cui uno del mio paese, persero la vita in un'azione contro i tedeschi. Leggo la lapide; mi colpisce l'invito finale: <<Passante inchinati e prega>>. Memorie recenti si intrecciano al passato più antico. In una stele greca o romana non avrei trovato parole troppo diverse. Eppure, tutto passa e va. Cose non fatte per l'era della velocità che tutto lascia inghiottire dal Lete, il fiume che nel mito sancisce la dimenticanza e l'oblio.
Proseguo ancora un po', fintanto che il rumore della provinciale non diventa troppo forte. Poi inverto la marcia, torno sui miei passi. Accanto alla stradina di contrada brilla il futuro che attende questi luoghi. Mi fa sorridere amaro il gesto di alcuni che vivono oltre la provinciale, i quali hanno esposto davanti alle loro case il vessillo di San Marco, moderna, farsesca rivisitazione di un mito che negli ultimi anni dalle mie parti ha intercettato senza troppa fatica il malcontento e la rabbia di una certa parte del leghismo. Sorrido amaro pensando alla distanza che separerà quelle bandiere dalla colata di asfalto e cemento ormai imminente. E scuoto la testa.
Ritrovo il monumento con la sua piccola stele, poi le case della contrada, l'imbocco del sentiero, il bosco. Un'ultima citazione dalla letteratura mi ritorna mentre fatico per risalire il sentiero. Nel capitolo 30 dell'Agricola, lo storico romano Tacito dà voce al capo dei Caledoni, Calgaco. Siamo nella Britannia di fine I secolo d.C.: i Romani, guidati da Agricola, stanno sottomettendo l'isola e le sue popolazioni. Nell'imminenza della battaglia decisiva, il Calgaco tacitiano esorta i suoi con parole rimaste scolpite nella storia e, descrivendo i Romani, termina così:
Rapinatori del mondo, dopo aver devastato ogni cosa, non essendoci più terre, frugano il mare; se il nemico è ricco sono avidi, se è povero, pieni d'ambizione, essi, che né l'Oriente né l'Occidente potrebbero mai saziare, gli unici che bramano con pari veemenza di avere ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, con falso nome lo chiamano impero e là dove fanno il deserto la chiamano pace (traduzione mia).
Scuoto la testa un'ultima volta. Solo pensieri i mei, in fondo. E me ne torno verso casa.
Nessun commento:
Posta un commento