domenica 24 novembre 2013

Sullo scrivere

Un paio di settimane fa mi è accaduto un fatto curioso. Ero al bancone della biblioteca di Storia (il fu dipartimento di, ora parte del più ampio Disgea, di cui fanno parte anche le robe che ho studiato in questi anni) quando mi si è avvicinato un giovane docente, bravo, assai preparato, del quale avevo seguito un corso un paio d'anni accademici fa. Giunto a pochi passi, dopo un cordiale saluto, mi ha chiesto come procedeva. 
- Insomma - ho risposto, accennando al progressivo deperimento di salute cui va incontro ogni laureando, specie quelli che si occupano di cose scritte.
L'ulteriore battuta del docente mi ha colpito. 
- Eh sì - ha sorriso, - leggiamo troppo e scriviamo troppo...
Il tono di voce era inequivocabile: più che sul leggere puntava tutto sullo scrivere. Ho sorriso tra me e ho annuito. Gli davo ragione, pienamente. Detta da un "interno" all'ambiente accademico poi, quella frase superava la semplice constatazione per assumere un sapore dolce e insieme asprigno, come proprio di certe arguzie che si colgono più fuori che dentro la parola.

Sentendomi specialiter coinvolto e avendo ripensato spesso in questi giorni alla frase, mi sono come sempre lasciato andare a paralleli, collegamenti, suggestioni. Scriviamo troppo, questo è innegabile. Sarebbe però poco saggio, da parte mia, lamentare con eccessiva enfasi la cosa e lanciarmi in invettive ex cathedra (quale poi?!) contro lo spreco di parole cui assistiamo quotidianamente. Del resto altri lo fanno con maestria, e lamentandosi sempre un po' di tutto, si aggiungono più o meno consapevoli al coro.
Ad ogni modo, che ci si senta o meno il Giobbe di turno, per comunicare, specie nel mare degli internauti, si scrive. E forse metà dell'umanità si è già ridotta a leggere quello che scrive l'altra metà, come scriveva (!) già Italo Svevo nel suo incompiuto Vegliardo parlando di «letteraturizzazione» della vita. Quello che però poco si nota citando, non di rado a sproposito, il passo in questione è che la scrittura proviene dal raccoglimento, «unica parte importante della vita», come viene definita.

Se la prendiamo in questo senso, allora sì che la scrittura assume un valore altro. Il raccontare, il ricordare, il riflettere, il capire divengono funzioni della parola, per cui essa risulta indispensabile: «Scrivere è confessarsi, è donarsi; scrivere è liberarsi. Io non posso non scrivere» scriveva (!) fra David Maria Turoldo ormai al termine della sua vita. «Scrivo quanto ho qualcosa da dire» soleva ripetere il vècio dell'altipiano, Mario Rigoni Stern.
Scrivere per conoscere, per comprendere, per liberarsi. Per dare forma, ordine, per ricondurre ad uno schema comprensibile il groviglio di realtà in cui ci troviamo immersi. E se anche, per ampliare un concetto ben espresso da Primo Levi, scrivere comporta inevitabilmente semplificare, altrettanto vero è che scrivere è funzione del capire. Sarà cura poi di chi scrive (o dovrebbe esserlo!) scegliere quanto proporre ad altri e quanto tenere per sé. Ecco, forse il problema oggi è proprio questo: si mette in vetrina anche quello che sarebbe meglio tenere in magazzino. Concludo dunque con un buon monito che ci viene da Luigi Meneghello: 

«Scrivere, per me, è quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c'è, cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle che paiono un po' meno sbagliate, un po' meno goffe o vacue o sguaiate».
(Jura, 2003, p. 70).



domenica 17 novembre 2013

Da Fozio a Hrabal: libri scritti, libri che scrivono (e salvano)

La riflessione di oggi mi viene da un breve dialogo scambiato con un amico e collega tra gli scaffali della biblioteca di greco, a Padova, qualche giorno fa. Gli chiedevo spiegazione di un curioso post da lui pubblicato su facebook: "L'uomo ha creato i libri a sua immagine" diceva, e proseguiva con un'affermazione che mi era parsa provocatoria, una sorta di sententia: "Siamo libri". Mi ha detto che l'ispirazione gli era venuta da Fozio, nome noto agli antichisti ma che dice poco o nulla ai più.
  
Fozio era uno che amava i libri. Patriarca di Costantinopoli per due volte, e per due volte deposto, visse nel IX secolo, in un periodo particolarmente burrascoso in cui la Chiesa ortodossa si scontrava con quella cattolica romana a colpi di concili e reciproche scomuniche, sancendo a poco a poco una divisione che, nonostante i cambiamenti seguiti al Concilio Vaticano II, perdura tuttora. Ma non è per questi motivi che Fozio viene ricordato (e celebrato) da chi studia il mondo antico, bensì per aver redatto un'opera, la Biblioteca, che ha permesso di trasmettere, almeno in parte, molti testi altrimenti irrimediabilmente perduti. Fozio legge gli Antichi, e di quanto legge dà conto: riassume (nel gergo del settore "epitoma"), commenta, ma soprattutto salva testi dal Lete, il fiume che per gli Antichi rappresentava l'oblio. La sua, chiaro, è una scelta personale, come accadrebbe se ciascuno di noi desse conto delle proprie letture e ne fornisse estratti, riassunti, commenti. 

Fozio dunque con la sua opera ha salvato una notevole quantità di libri. Ma non solo, li ha riscritti "a sua immagine" e al contempo da essi è stato, per così dire, scritto. L'idea, non lo nascondo, mi ha suscitato una certa emozione. Noi creiamo i libri ma, al contempo essi creano noi, ci cambiano, si trasfondono in chi legge. Non è certo un'affermazione straordinaria: ciascuno potrà riconoscerne la verità e verificare nella storia, anche personale, casi più o meno eclatanti di libri che cambiano chi li legge. Ma mi è sembrato interessante darne nota, anche alla luce di una recente lettura. Citavo nel penultimo post un libro dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, acquistato per quasi nulla in un mercatino; il libro s'intitola Una solitudine troppo rumorosa. Ebbene in esso, un racconto lungo scritto con un linguaggio poetico e, insieme, con uno stile denso, vicino al flusso di coscienza, una delle idee chiave è esattamente la stessa. Il protagonista è un operaio che da trentacinque anni lavora ad una pressa tritacarta. Trita e schiaccia ogni tipo di carta tra cui, inevitabilmente, moltissimi libri. Ed a contatto con questi libri Hanta, così si chiama il protagonista, si avvicina alla lettura e agli autori che i libri li hanno scritti, al loro pensiero, soprattutto alle loro parole. Legge Hanta, fino a divenire suo malgrado istruito. Col suo operare non salva la cultura o la storia, sostiene il curatore dell'edizione che ho (Einaudi, 1991), se non nel fatto di ricreare a sua volta. Ma, oserei aggiungere, oltre a ciò e prima di ricreare Hanta assume, succhia dai libri. Se non salva, tuttavia si salva.
 
«Contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiasi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari» (p. 3). 

Chissà quanti altri paralleli si potrebbero creare a partire da questa suggestione:  libri scritti ma anche libri che scrivono; libri salvati ma, anche, libri che salvano. Non proseguo oltre e lascio ciascuno i collegamenti che potranno sorgergli.

domenica 10 novembre 2013

Ulivi dei miei colli e ulivi del mito...

In queste settimane tra i colli di Santurbàn ferve la raccolta delle olive. Io stesso, qualche giorno fa, ho dato una mano in famiglia, salendo sui vecchi ulivi in cima al monte Costi e su altri, più giovani, piantati da mio padre qualche anno fa in un fazzoletto di terra tra i lievi pendii oltre il paese.
Raccogliere le olive è impresa faticosa, specie per chi non è troppo abituato a lavori pesanti; eppure, al contempo, è opera che distrae la mente e che arricchisce: si è in compagnia e si chiacchiera, si scambia una battuta, si ride e si ascoltano i suoni di una natura pressoché intatta. Soprattuto però, direi, il clima autunnale, a differenza del tempo gaio e ridente della vendemmia, stimola alla riflessione. Nei brevi momenti di riposo durante il giorno o alla sera i pensieri, arricchiti dalle esperienze quotidiane, vagano e dialogano coi ricordi di altre esperienze...

L'ulivo, pianta mediterranea per eccellenza, possiede una tradizione antichissima. Il mito greco lo lega indissolubilmente ad Atena, dea della sapienza e protettrice dell'omonima città di Atene. Si narra infatti che la dea ottenne la sovranità sull'Attica proprio in virtù del fatto che avesse donato alla città l'ulivo, dono utile agli uomini, scalzando Poseidone, che pure avanzava pretese sul territorio attico e che aveva per questo fatto scaturire in precedenza una sorgente di acqua salata (Cfr. Robert Graves, I miti greci, p. 50).

Da sempre l'ulivo fu per gli Antichi simbolo di pace, nonché di quella laboriosità contadina che in seguito divenne mito a sua volta. Coltura tipica dei Greci, fu descritto da Virgilio nel poema dedicato all'agricoltura, le Georgiche, come proprio delle terre aspre e difficili (II, 179 e ss.). Ma ben prima di lui la letteratura si era "impadronita" dell'ulivo. I poemi omerici sono ricchi passi riguardanti la pianta sacra ad Atena: ne ricordo solo alcuni, senza pretese di esaustività. Nel canto XVII dell'Iliade l'ulivo diventa termine di paragone del guerriero ucciso e spogliato delle armi; più ampiamente, potremmo azzardare che l'ulivo, pianta di pace, diviene rappresentazione dello sconvolgimento che la guerra arreca.

Come se uno coltiva una florida pianta d'olivo
in luogo deserto, dove sgorghi però molta acqua
una pianta bella, rigogliosa; la scuotono i soffi
di venti diversi, ed è tutta gemmata di fiori bianchi;
ma un vento s’abbatte all’improvviso con un turbine violento,
la sradica dalla sua fossa e la getta stesa a terra:
così al figlio di Pantoo, ad Euforbo, prode lanciere,
l’atride Menelao, ucciso che l’ebbe, predava le armi.
(vv. 53-60, trad. di Giovanni Cerri)

Nell'Odissea poi, il poema dell'eroe prediletto di Atena, l'ulivo diventa personaggio tra gli altri. Sotto un ulivo meravigliosamente intrecciato con un oleastro si riposa Odisseo approdato all'isola dei Feaci, (V, 476 e ss.) e sotto l'ulivo sacro di Itaca l'eroe medita assieme alla dea l'uccisione dei Proci. Infine, è grazie ad un ulivo che avviene il riconoscimento finale di Odisseo da parte di Penelope (XXIII, v. 190 e ss.): 

Cresceva, dentro al cortile, un tronco d’olivo dalle foglie sottili, rigoglioso, fiorente, largo come una colonna. Intorno a questo io eressi il talamo, che feci con pietre fittamente connesse e ricoprii con il tetto ben fatto; e la porta applicai, solida e salda...(trad. di Maria Grazia Ciani). 

Ormai è trascorsa una settimana dalla "mia" raccolta, le olive raccolte sono diventate olio novello. E mentre esso decanta e si purifica mi piace pensare che, dopotutto, il mito vive (e continua a rivivere) anche sui colli di Santurbàn.

domenica 3 novembre 2013

Se le biblioteche buttano i libri...

Gli amici lo sanno, ho una grande passione per i libri; non solo per la letteratura contenuta nei libri, anche per l'oggetto libro in sé. Sì, chiamiamola pure bibliofilia: non ai livelli estremi di facoltosi cacciatori perennemente alla ricerca di prime edizioni o libri rari, diciamo che mi piace esercitare l'arte ottimamente espressa dal verbo vicentino "rumare" (come tradurlo?) e, ogni tanto, portare a casa, possibilmente per pochi denari, qualche bel volume (e magari anche più di uno) da mercatini o negozi dell'usato. Oltretutto, coi tempi che corrono e visti i prezzi di un'edizione fresca di stampa, spesso conviene assai andarsene a rovistare tra i banchi polverosi di un venditore o tra gli scaffali di un rigattiere. 

È legato a questa passione un fatto accadutomi più di una volta ma sul quale, prima di qualche giorno fa, non avevo avuto modo di riflettere. Riassumerò il tutto, dunque, a partire da quanto mi è accaduto questa settimana. Giovedì, se non ricordo male, mi sono recato in una delle botteghe di cui sopra, un negozio nel quale spesso mi è capitato di fare buoni affari. Sono entrato e, come ogni altra volta, mi sono diretto al reparto libri.

Per i primi minuti nulla di entusiasmante: quasi solamente letteratura commerciale, grandi libri (in fatto di dimensioni) dei decenni passati e ormai dimenticati, "mattoni" americani o simili, romanzi buoni, per riprendere una frase di Antonio Tabucchi, da viaggio aereo lungo: si arriva in Thailandia e poi si buttano via; guardando bene, qua e là appariva qualche pepita, classici in edizioni più o meno di pregio. Ho recuperato una raccolta di racconti di Pirandello, la prima delle Novelle per un anno, un celebre romanzo di Hrabal e un'edizione recente de I sommersi e i salvati di Primo Levi. Poi lo sguardo, alzatosi, ha incontrato l'inconfondibile sagoma di quattro Meridiani Mondadori. Erano posati sopra una mensola piuttosto alta, soli. Mi sono avvicinato e non senza emozione ho letto i nomi sul dorso: due Romano (Lalla), un Papini (Giovanni), un James (Henry). Tutti praticamente nuovi. Ma l'emozione si è trasformata in sorpresa e poi in sgomento quando, alla base del dorso, ho notato la tipica etichetta di classificazione delle biblioteche (la classica Dewey) con tanto di nome della biblioteca di appartenenza. Ne ho acquistati tre, gli italiani, pagandoli due Euro a volume. Sì, avete letto bene, due Euro.

Ora, la riflessione che vorrei proporvi è questa: come mai una biblioteca decide di scartare (tutti i volumi erano regolarmente cancellati dall'inventario tramite apposito timbro) quattro Meridiani nuovi, tra cui tre dedicati ad autori italiani non certo minori nella letteratura del nostro paese? Qualche tempo fa avevo acquistato per un solo Euro le Istmiche di Pindaro, sempre scarto di biblioteca. Passi dunque per un Pindaro con testo greco a fronte, ma quattro Meridiani!
Ho azzardato tra me una risposta, ripensando alle dichiarazioni rilasciate alcuni anni fa dal direttore di una delle più importanti biblioteche della provincia. Il Nostro sosteneva che le biblioteche locali, non essendo biblioteche di conservazione, sono tenute a tenere solo i testi che vengono richiesti. A decidere sono i gusti del pubblico, ciò che non si legge (o non viene richiesto) si butta. Dunque immagino cosa possa essere accaduto coi quattro Meridiani in questione. Riconosco che molti altri possono essere i fattori che concorrono a decretare l'eliminazione di un libro, tra cui il sempre menzionato spazio che manca, e credo che sicuramente altre copie dei testi scartati saranno disponibili nel sistema bibliotecario provinciale, tuttavia confesso che l'idea alla base di questo agire mi inquieta, e molto. L'istituzione abdica al senso di responsabilità, il pubblico decide, i gusti impongono... 
Risultato: la letteratura come la classifica del campionato. Chi viene retrocesso finisce buttato via. Se questa è davvero la logica, quanto ci vorrà prima che nelle nostre biblioteche si trovino solo romanzi "da viaggio aereo lungo"?