Tra
gli autori a me cari, un posto particolare è riservato ad Anton Cechov. Nato nel
1866 e morto nemmeno quarantenne nel 1904 della malattia che l’aveva
perseguitato lungo tutta la breve vita, la tubercolosi, Cechov rappresenta per
me forse qualcosa di più che un autore amato. I suoi racconti, la parte della
sua produzione che conosco meglio, sono davvero un giardino cui ritorno sempre
volentieri e che serba fiori freschi ad ogni visita. Distillato di osservazione
precisa e approfondita della realtà umana (Cechov era medico), narrati con
partecipazione e insieme con ironia, sono ricchi di quella vividezza e umanità
che mi piace ritrovare nella letteratura come nella vita.
Così
non ho riflettuto a lungo quando, qualche giorno fa, ad un mercatino di libri usati, mi è capitata tra le mani l’edizione di un racconto lungo di Cechov che
non avevo mai letto, La steppa. Il
testo, di formato tascabile ma con copertina rigida, era piuttosto rovinato:
pagine ingiallite, sovraccoperta strappata in più punti, dorso provato
dall’uso. Era un piccolo Vallecchi del 1949 che, una volta aperto, ha rivelato
inaspettatamente un font leggibilissimo
e una traduzione (del 1940) forse un po’ fuori moda ma raffinata, come si usava
una volta. Ciò mi ha spinto ancor più all’acquisto del volumetto, per un solo
Euro. A distanza di un paio di settimane posso affermare che si è trattato di
un buon investimento.
Il racconto mi ha stupito. È la storia del viaggio
attraverso la steppa che il piccolo Iegorusca, un bambino di nove anni, fa a
seguito dello zio e di un religioso suo amico per recarsi nella cittadina dove
inizierà a frequentare il ginnasio. È un racconto di viaggio, quindi, di
incontri e di lunghe appassionate descrizioni della steppa, forse l’unica vera
protagonista di quanto accade, ben poco, quanto a plot. Ma la grande
letteratura insegna che i colpi di scena e la trama non sono tutto. E
attraverso gli occhi del piccolo Iegorusca ce ne rendiamo conto una volta di
più. Vorrei riportare le splendide descrizioni del paesaggio, ma lo spazio è
tiranno. Mi limito a condividere una descrizione di cielo stellato piuttosto
inconsueta per noi, abituati, dalle stelle di Dante a quelle di Pascoli
passando per Leopardi (per citare solo alcuni nomi), agli astri come fidati
compagni di viaggio e confidenti degli umani pensieri.
«Quando a lungo, senza staccare l’occhio, tu guardi il
cielo profondo, allora non si sa perché i pensieri e l’anima si confondono nel
senso della solitudine. Tu incominci a sentirti irrimediabilmente solo e tutto
ciò che prima hai considerato vicino e come tuo, diventa infinitamente lontano
e senza alcun valore. Le stelle, che guardano dal cielo già da migliaia di
anni, lo stesso cielo inesplicabilmente e la caligine, indifferenti verso la
breve vita dell’uomo, allorché tu resti con loro a faccia a faccia e cerchi di
indagarne il senso, ti opprimono l’anima col loro silenzio; e ti viene in mente
quella solitudine che attende ognuno di noi nella tomba e l’essenza della vita
si presenta disperante, terribile…» (pp. 174-175).
Leggendo queste parole ho provato anch’io la sensazione
descritta; subito dopo, però, ho desiderato vedere dal vivo la steppa. E, di
pensiero in pensiero, mi è tornata in mente un’altra stella, una costellazione
anzi, quel quadrato di Cassiopea «che mi stava sopra la testa tutte le notti».
Riconosciuto da dove ho preso la citazione? Se sì (ma anche se no), la lettura
de La steppa di Cechov potrà essere ottima compagnia per questo tempo
d’autunno.