Oggi vorrei rivolgermi in particolare
ai giovani presenti, immaginandoli come gli adolescenti di cui ogni mattina, da
settembre a giugno, incontro gli sguardi, ascolto le voci e scruto i gesti. A voi,
ragazze e ragazzi, vorrei rivolgere le riflessioni a partire dal ricordo dei
sette che oggi commemoriamo e che sono divenuti testimoni – questo il significato
della parola ‘martire’. Sette uomini che furono fucilati dai nazifascisti il 3
luglio 1944 a pochi passi dal monumento davanti al quale è iniziata la nostra
cerimonia.
Ferruccio Baù, di Valdagno, classe
1908, era un commerciante. Si era fatto notare come antifascista nel luglio 1943,
quando aveva gettato dal balcone del municipio la foto di Mussolini, deposto e
arrestato pochi giorni prima;
Virgilio Cenzi, classe 1896, era un militante
del PCI e sostenitore del movimento partigiano: faceva il falegname alla
manifattura della Marzotto;
Antonio Bietolini, classe 1900, era meccanico;
politicamente era un militante comunista di lungo corso, arrestato più
volte nel corso del ventennio e costretto a scontare sette anni di Confino alle
isole Tremiti. Dal febbraio 1944 dirigeva la federazione vicentina del PCI;
Alfeo Guadagnin, classe 1899, era un
socialista bassanese di lunga militanza, di professione noleggiatore d’auto,
animatore della Resistenza nel Bassanese. L’arresto lo colse mentre si trovava a
Valdagno per incontrarsi con l’amico Ferruccio Baù;
Marino Ceccon, classe 1912, comunista,
era operaio agli stabilimenti “Marzotto”;
Pasquale Giovanni Zordan, valdagnese,
soprannominato “Nani Sette”, classe 1908, era anche lui comunista, attivista
nella fabbrica “Marzotto”;
Francesco Rilievo, classe 1919,
operaio alla “Marzotto”, non aveva legami con l’attività politica clandestina
né con la Resistenza, fu arrestato semplicemente perché cognato di Giovanni
Zordan.
A questi sette uomini, come
sappiamo, doveva aggiungersi Raffaele Preto, di 24 anni, di professione calzolaio,
membro della Resistenza, che riuscì invece a scampare alla fucilazione
attraverso una fortunosa fuga e fu poi partigiano. Gli altri furono uccisi
perché antifascisti nel corso di una rappresaglia che aveva il duplice scopo di
colpire l’attività clandestina e terrorizzare la popolazione. Nessuno di loro
aveva a che fare con lo scontro fra tedeschi e partigiani avvenuto il 30 giugno
precedente e che fu addotto a motivazione della rappresaglia. Ma questa era la
prassi dei nazifascisti: la rappresaglia serviva a terrorizzare la popolazione
e a spingerla a rifiutare l’appoggio che essa dava ai partigiani.
Ma fermiamoci a riflettere un
istante sulle parole: nazifascisti, partigiani, antifascisti, rappresaglia sono
infatti parole che ci suonano strane oggi, così distanti dal nostro eterno
presente. Allora cerchiamo di fare insieme un passo indietro per tornare alla Valdagno
di 78 anni fa.
Perché, ragazze ragazzi, 78 anni fa qui come nel resto del nord Italia, non c’era la libertà di cui oggi noi godiamo i frutti, spesso dimenticandoci di chi la conquistò; 78 anni fa anche solo uscire di casa per comperare quel poco che il razionamento dei viveri consentiva era un’azione che poteva costare la vita. Valdagno pullulava di soldati e poliziotti della RSI, lo stato fantoccio che dopo l’8 settembre 1943 era stato costituito da Mussolini per continuare la guerra a fianco della Germania nazista. E tutto ciò avveniva dopo vent’anni di dittatura fascista: una dittatura che aveva abolito la libertà di parola, di stampa, di riunione, che aveva sciolto tutti i partiti tranne quello fascista così come i sindacati, che aveva educato un’intera generazione non a pensare con la propria testa e a sentire col cuore ma a “credere, obbedire e combattere” praticando l’insulto sistematico dell’avversario, propugnando il nazionalismo e il razzismo e affermandosi grazie alla violenza e all’uccisione degli avversari. Nomi che ancora una volta ci sembrano lontani, benché essi siano spesso presenti sui cartelli delle vie nelle nostre città: Piero Gobetti, Antonio Gramsci, don Giovanni Minzoni, Giacomo Matteotti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, per citarne solo alcuni.
Eppure, nonostante la violenza
che il regime fascista aveva elevato a sistema di potere ci fu chi si oppose. Sei
di coloro che furono fucilati, come avete sentito, partecipavano alla vita
politica clandestina. Si erano interessati, avevano vinto l’indifferenza per
cercare di fare qualcosa. E non soltanto per loro, ma anche per gli altri.
Questa, ragazze e ragazzi, è una grandissima lezione. La libertà per quanti aderirono
alla Resistenza non era soltanto, come spesso oggi la intendiamo, di libertà di
fare e di essere, ma era molto più complessa. I partigiani e le partigiane combattevano
anzitutto per una libertà da: dal fascismo e dall’occupante tedesco; ma
anche una libertà di: cioè di essere, fare, creare, in pace; infine, e
mi preme ricordarlo, la Resistenza propugnava una libertà con: cioè con
gli altri, da vivere e condividere partecipando alla vita della società, attraverso
diritti ma anche doveri, cercando di costruire un mondo, come recita una celebre
canzone scritta da Italo Calvino, più umano, e più giusto, più libero e lieto. Sì,
anche più lieto, intendendo ancora una volta la felicità come traguardo
collettivo, non soltanto individuale.
E dall’altra parte invece? Per cosa
combattevano i nazifascisti? Vi rispondo ancora con le parole di Calvino,
questa volta tratte dal suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno.
Le pronuncia Kim, un comandante partigiano:
C’è che noi, nella storia, siamo dalla
parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto,
nessuno sparo, pur uguale al loro […] va perduto, tutto servirà se non a
liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più
rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei
gesti perduti; degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero,
perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel
furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe
così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur
sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.
Questo slancio, questo desiderio
di cambiare il mondo è proprio di ogni nuova generazione di giovani, ma nella
generazione che aderì alla Resistenza ha dato frutti che non temo di definire
eccezionali. Ma ci pensate? Erano cresciuti con una sola idea, spesso non
avevano fatto che poche classi a scuola, eppure scelsero, e rischiando la vita.
Erano, utilizzando un’espressione di un grande scrittore vicentino (e partigiano),
Luigi Meneghello, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita, «apprendisti italiani».
E noi? Oggi spesso dimentichiamo che la libertà, come la
democrazia, non è una conquista definitiva. Essa va costantemente alimentata. Come?
Attraverso l’interesse, lo studio, la cura, la partecipazione alla vita sociale
e politica. Lo so che è difficile, tanto più oggi. Veniamo infatti da oltre due
anni di pandemia, da una crisi economica che dal 2008 non è mai passata; e ora
persino una guerra alle porte dell’Europa. Sembra davvero difficile sperare e
trovare la forza per contribuire a costruire un mondo migliore. E invece è
proprio adesso che dobbiamo più darci da fare! Ciascuno nel proprio campo, nei
contesti della propria vita: in famiglia, a scuola, nei vari gruppi che
frequentiamo.
Sapete, mi ha molto colpito un
dialogo che tempo fa ho avuto con una mia studentessa: una brava ragazza,
impegnata, attiva, solare. Eppure mi diceva che non sentiva la scuola come vera
vita, questa per lei era soltanto fuori, e quindi a poco valeva impegnarsi. Le
sue parole mi sono rimaste dentro. Certo, possono esserci momenti di sconforto,
ma non possiamo lasciare che le difficoltà ci abbattano. 78 anni fa esse erano
infinitamente più grandi, eppure chi scelse di combattere per la libertà, la
giustizia, la democrazia, la pace, lo fece pensando proprio a noi, al mondo che
sarebbe venuto.
Vorrei davvero che avessimo più
tempo, a scuola e altrove, per leggere gli scritti di quanti, uomini e donne,
fecero parte della Resistenza. Torniamo a leggere, per citarne solo alcuni, il
diario di Ada Prospero Gobetti o di Emanuele Artom, i libri di Calvino, di
Primo Levi, di Rigoni Stern, di Beppe Fenoglio, di cui pure ricorrono i cento
anni dalla nascita, di Luigi Meneghello, o ancora Il manifesto di Ventotene, scritto
nel 1941, nel pieno della Seconda guerra mondiale, da alcuni intellettuali
antifascisti confinati nel carcere di Ventotene; infine torniamo a leggere le Lettere
dei condannati a morte della Resistenza europea così come la nostra Costituzione,
frutto della Resistenza. Allo stesso modo dovremmo tornare sui luoghi, sostare,
meditare di fronte alle lapidi, ai nomi, ai monumenti – pensiamo all’ultima
lapide posta sulla facciata delle scuole elementari, dove sono ancora presenti
le celle in cui i Sette Martiri furono imprigionati. E questo non per restare
inerti a contemplare il passato come una reliquia, ma per trovare motivazione e
coraggio per agire oggi. Perché violenza, guerra, cancellazione dei diritti,
oppressione dei più deboli e altre ingiustizie sono ancora ben presenti nella
società. Lo abbiamo visto, lo vediamo guardandoci intorno come scorrendo i
social, lontano e vicino: pensiamo che solo alcuni giorni fa a Vicenza è stata
imbrattata la sede della CGIL, un sindacato, con metodi simili a quelli che
usavano le squadracce fasciste. E poi ci sono le nuove sfide, prima fra tutti
la difesa dell’ambiente e la costruzione di un futuro ecosostenibile e in cui
le risorse siano distribuite con maggiore equità e con solidarietà.
Insomma, dobbiamo, dovete,
ragazze e ragazzi, darvi da fare. Scriveva Antonio Gramsci nel lontano 1919: «Istruitevi,
perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo
bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di
tutta la nostra forza».
Così faremo vera memoria dei Sette
Martiri come di tutte e tutti coloro che diedero la vita per la causa della
Libertà. E voglio allora salutarvi con le parole di un ragazzo di diciannove
anni, Giacomo Ulivi, partigiano fucilato a Modena il 10 novembre 1944. Scriveva
Ulivi nella sua ultima lettera:
Per questo dobbiamo prepararci. Può anche
bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri.
Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non
volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto
sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi
spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a
quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi
mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso
decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la
responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare
molto.
Responsabilità è la nostra, la
vostra sfida: della memoria viva, che agisca nell’oggi. Ecco il significato del
nostro essere qui, a commemorare i nostri Sette Martiri. Buon lavoro a
tutte e tutti noi. Viva la Resistenza!