domenica 16 febbraio 2014

Storia, politica e attualità: una riflessione su questi giorni a partire dall'antico

La scorsa settimana, come ricorderete, proponevo una riflessione sul linguaggio e la società, invitando a prestare attenzione all'uso delle parole, specie da parte di quanti sono preposti a ricoprire incarichi pubblici o istituzionali. Gli eventi degli ultimi giorni mi spingono oggi a ritornare sul tema, ampliando la prospettiva. 

Rileggevo ieri l'incipit delle Storie di Polibio. Vissuto tra il 200 e il 118 ca a.C., fu il maggiore storico dell'età ellenistica. Greco, uomo politico di prestigio e insieme scrittore sin dalla giovane età, dopo la conquista romana della Grecia fu portato come ostaggio a Roma, dove presto venne in contatto col circolo culturale che gravitava attorno alla famiglia degli Scipioni. Divenuto amico di Scipione Emiliano, lo seguì nelle sue campagne militari, in special modo in quella contro Cartagine (la terza guerra punica, 146 a.C).
All'inizio della sua imponente opera (40 libri di cui solo i primi cinque ci sono arrivati per intero) egli fa un elogio dello studio della storia, ponendosi nel solco di una lunga tradizione della storiografia greca che aveva come capostipite il grande Tucidide di Atene. Scrive Polibio: <<Gli insegnamenti che si traggono dalla storia sono l'educazione e l'esercizio più efficace per l'azione politica; [...] il ricordo delle vicissitudini occorse agli altri è l'unico e il più chiaro maestro di come si possano affrontare con dignità i rovesci della sorte>> (Polibio, Storie I, 1, ed. Newton & Compton, 1998, p. 23). Polibio, come Tucidide, aveva una visione ciclica della storia: in essa dinamiche e processi tendevano a ripetersi. Lo studio del passato aveva perciò una forte valenza per il presente. In primo luogo la storia appare strettamente connessa all'azione politica, in secondo luogo, per quanti la studiano, essa risulta κτῆμα ἐς αἰεί, un possesso definitivo, proponendo lezioni valide per ogni epoca: un contributo per comprendere l'oggi più ancora che il passato nonché ad attingere da quest'ultimo modelli comportamentali utili per opporsi ai <<rovesci della sorte>>. L'espressione non è lontana da quella che avrebbe utilizzato molti secoli dopo un altro grande storico e filosofo politico, Niccolò Machiavelli, il quale non a caso si poneva in continuità con il pensiero degli antichi e formulò la sua riflessione anche grazie alla lettura diretta dei filosofi e storici dell'antichità greco-romana. 

Torniamo al presente. Viviamo in un paese che <<ha memoria labile>>, per usare un'espressione di Mario Rigoni Stern, un paese che dimentica, che spesso non vuole ricordare, che dà talora prova di un'ignoranza a dir poco paurosa sulle sue vicende prima ancora che sulla sua cultura. Eppure in questi giorni Machiavelli è stato più volte citato per descrivere i comportamenti di taluni personaggi della nostra attualità politica (nessuno, mi sembra, ha invece fatto riferimento ai modelli antichi cui il pensatore fiorentino a sua volta si riferisce). Vorrei dunque suggerire che se conoscessimo di più la storia e coloro che su di essa, dall'antichità ad oggi, hanno riflettuto e scritto non ci saremmo più di tanto stupiti di certi avvenimenti degli ultimi giorni, li avremmo anzi potuti addirittura prevedere. Tuttavia, avendo udito questi riferimenti al Machiavelli, un dubbio ha iniziato a rodermi. L'illustre fiorentino, si ricorderà, separava l'azione politica dalla morale. Il principe, quando opera per il bene comune (e ciò è quanto lo distingue dal tiranno, che agisce per proprio tornaconto), può avvalersi di mezzi condannati dalla morale. Ma se ciò è quanto avviene, quali conseguenze si avranno? Se sempre più la politica diviene sinonimo di astuzia, dissimulazione, maschera, menzogna, dove ci porterà tutto ciò?
Nella nostra disatrata società italiana in cui, oserei dire, la crisi morale e sociale supera per certi versi quella economica, in cui l'interesse di parte continuamente scalza il bene comune, in cui menzogna e dissimulazione sono già diventate (e da troppo tempo!) la regola, a cosa ci condurrà questa scaltrezza? Se già si stenta a riconoscere dove non suoni cavo, per parafrasare Primo Levi, come raccappezzarsi? Come reprimere il ribrezzo e la noia? Come non perdere la fiducia? Come non rassegnarsi? Domande che per tutti, ma soprattutto per i giovani, assumono spesso la drammaticità di un grido. Un grido tuttavia, che altrettanto spesso muore in gola, soffocato da una realtà divenuta nemica.

Molti amici e coetanei con cui ho parlato negli ultimi tempi sentono con urgenza la necessità di autenticità, di limpidezza, di moralità, in primis in coloro che ricoprono ruoli pubblici e istituzionali. Ma al vedere quanto accade, una buona parte di essi si è già disillusa, alcuni hanno già scelto di andarsene in paesi dove il futuro, proprio e collettivo, si può ancora costruire secondo le regole del vivere insieme. Devo ammettere che non mi sento più di dar loro torto, o di biasimarli. Ma per chi resta? Per chi non può o non vuole partire? Non ho risposte preconfezionate, il problema è complesso e non va trattato con leggerezza. Oggi vorrei però condividere le parole che Primo Levi ci consegna in Delega, una poesia che, come spesso ho avuto modo di dire, ha per me il significato e la forza di un lascito. Assieme ad essa, posso solo suggerire ancora una volta che conoscendo e studiando la storia e chi vi ha riflettuto possiamo guardare al presente e al futuro con maggiore consapevolezza e, soprattutto, con responsabilità.

Delega

Non spaventarti se il lavoro è molto:
C'è bisogno di te che sei meno stanco.
Poiché hai sensi fini, senti
Come sotto i tuoi piedi suona cavo.
Rimedita i nostri errori:
C'è stato pure chi, fra noi,
S'è messo in cerca alla cieca
Come un bendato ripeterebbe un profilo,
E chi ha salpato come fanno i corsari,
E chi ha tentato con volontà buona.
Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro,
Perché insicuro.Vedi
Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia
Dei nostri dubbi e delle nostre certezze.
Mai siamo stati così ricchi, eppure
Viviamo in mezzo a mostri imbalsamati,
Ad altri mostri oscenamente vivi.
Non sgomentarti delle macerie
Né del lezzo delle discariche: noi
Ne abbiamo sgomberate a mani nude
Negli anni in cui avevamo i tuoi anni.
Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo
Pettinato la chioma alle comete,
Decifrato i segreti della genesi,
Calpestato la sabbia della luna,
Costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima.
Vedi: non siamo rimasti inerti.
Sobbarcati, perplesso;
Non chiamarci maestri.

24 giugno 1986.












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