Gli avvenimenti politici degli ultimi giorni, mostrati a più riprese nei canali televisivi come nel web, mi hanno suscitato una riflessione che vorrei proporvi, amici lettori. Cercando di far valere gli insegnamenti appresi in questi anni universitari, ho cercato soprattutto di interrogarmi, come mi piace fare, sul linguaggio, verbale e non, attraverso cui esponenti dei vari schieramenti o commentatori hanno manifestato le motivazioni alla base delle loro scelte o dei loro comportamenti o, ancora, le loro opinioni in merito.
Neanche a farlo apposta, mi sono tornati in mente due libri letti (uno studiato per bene!) nell'ambito accademico ma che mi hanno profondamente segnato. Il primo è un testo che, nonostante sia apparso per la prima volta nel 1913, è tuttora un "monumento" per gli studi del settore, mi riferisco all'opera di Antoine Meillet, Aperçu d'une histoire de la langue greque, tradotta in italiano come Lineamenti di storia della lingua greca. Tralasciando la profonda dottrina presente e gli aspetti più tecnici, L'Aperçu è testo capitale anche e soprattutto per l'impostazione di fondo. Meillet, infatti, in esso dà corpo ad un concetto che oggi può apparire quasi scontato, ma che all'epoca della pubblicazione del libro non lo era: il fatto, cioè, che la lingua è il frutto della cultura che la crea, intendendo 'cultura' in senso antropologico. Nella premessa alla terza edizione (1929) lo studioso ritorna sul concetto e scrive: <<Una lingua vale non perché sia l'organo di una nazione, ma in quanto è lo strumento di una civiltà>>. La lingua è dunque espressione della civiltà che l'ha prodotta. Da ciò si ricava che tanto più una civiltà sarà progredita nel campo culturale, tanto più la lingua che essa utilizza apparirà "forte", prestigiosa e in grado di esercitare la sua influenza e il suo prestigio all'interno e all'esterno dei confini geografici. Un esempio tra i tanti possibili: il latino, benché importato in Oriente con la forza delle legioni, non riuscì mai a soppiantare il greco, che non a caso rimase, accanto agli idiomi locali, la lingua ufficiale di quella parte dell'impero.
A partire, dunque, dal concetto esposto, complici le notizie apprese, i dibattiti, le rubriche, ho riflettuto sull'uso, conscio e inconscio, che della lingua facciamo, provando a vagliare lo stato di salute della nostra società a partire dallo stato di salute della lingua, e utilizzando come campione la lingua di personaggi pubblici. Nulla di nuovo. Eppure, si tratta di un gioco divertente, dai risultati tutt'altro che scontati: provateci.
Facendo ciò, mi è tornato in mente un altro libro, un libro che ha cambiato profondamente il mio sentimento di fronte alla lingua e agli studi che ad essa fanno riferimento. Il testo in questione è LTI. La lingua del Terzo Reich, di cui tornerò, spero, a parlare. L'autore, Victor Klemperer, fu filologo tedesco perseguitato dai nazisti per le sue origini ebraiche, scampato alla deportazione grazie al fatto di essere sposato con una donna "ariana". Egli, privato dell'insegnamento e dei suoi libri, nel decennio 1935-1945, registrò nei suoi diari l'appropriazione e la deformazione della lingua tedesca da parte dei nazisti. La tesi di fondo, forte e straordinaria, di LTI, è che noi ci serviamo della lingua, ma che anche la lingua in un certo senso si serve di noi, plasma il nostro pensiero, lo orienta, che ne siamo consapevoli o meno. Così, un movimento politico, come qualsiasi gruppo sociale, diffonde le sue idee e i suoi concetti anche attraverso di essa, attraverso il suo uso o abuso, la deformazione a scopo ideologico. Un'operazione subdola questa, difficile da controllare. Così, conclude Klemperer, si può diventare nazisti a partire dalla lingua. Inconsapevolmente, utilizzando la lingua perversa, deformata dall'ideologia. E parlando come i nazisti, si diventa, alla fine, nazisti.
Quale riflessione finale vorrei allora proporre questa settimana? Consapevoli che possiamo fino ad un certo punto orientare il linguaggio, specie quello parlato, dovremmo tuttavia sforzarci di chiederci sempre da dove provengono le parole che usiamo. Soprattutto se siamo chiamati a farlo pubblicamente e, ancor più, all'interno di un'Istituzione, non possiamo esimerci dall'interrogarci sull'origine di termini o espressioni. Tanto più se essi, nel corso della storia, hanno assunto connotati sinistri o dichiaratamente negativi. Un esempio tratto da un linguaggio non verbale: non posso esporre tranquillamente un fascio littorio o una svastica appellandomi ai significati che essi possedevano nell'antichità. Non posso perché essi si sono nel corso della storia caricati di significati altri, che non si possono dimenticare. Così per la lingua: se non vogliamo che essa divenga tutto e il contrario di tutto, ma soprattutto se vogliamo essere cittadini maturi e consapevoli, dobbiamo interrogarci di continuo, e di continuo ricordarci che anche attraverso la lingua che utilizziamo diciamo agli altri chi siamo.
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