domenica 23 febbraio 2014

"L'eco delle battaglie": alcune riflessioni sul testo

L'eco delle battaglie.A ormai qualche settimana dall'uscita de L'eco delle battaglie, mentre alcuni lettori mi hanno già comunicato pareri e osservazioni sul testo, cose sempre graditissime e, direi, fondamentali per un autore, è apparso ieri sulle colonne de <<La Domenica di Vicenza>> un articolo-intervista firmato da Alessandro Scandale dedicato, appunto, alla mia ultima fatica. Nel pezzo viene approfondita la trama della vicenda e mi vengono poste alcune domande sulla genesi del racconto e sulle riflessioni che vi stanno alla base. 
Vorrei in questa sede riprendere due delle domande, particolarmente utili a spiegare non solo il sentimento che mi ha spinto a scrivere L'eco delle battaglie, ma soprattutto il rapporto che sento tra passato e presente. Non si tratta certo di argomenti nuovi per chi mi conosce, e vi chiedo scusa, amici lettori, se vi sembrerà di udire cose già sentite. Per lo meno, repetita iuvant! Qualora voleste approfondire, in calce troverete il link del sito con l'articolo completo.


La prima domanda spontanea all'autore è: perché un libro sulla guerra dedicato proprio ai ragazzi?

"Il progetto di un libro che affrontasse la Prima Guerra Mondiale è nato alla Raffaello, Casa editrice marchigiana molto impegnata nel settore della narrativa per ragazzi, specie ad indirizzo scolastico, e con cui collaboro da tempo. Per la Raffaello era uscito infatti il mio secondo libro, mia prima opera per ragazzi: Alessandro Magno. Sui passi di un condottiero. In vista del centenario della Grande Guerra, è nata l’idea di un testo che avvicinasse i bambini delle ultime classi della scuola primaria ad un argomento che ormai non si studia più alle elementari. L’argomento non era certamente facile, ma quando mi hanno chiesto di curare il progetto ho deciso di accettare la sfida. La Grande Guerra, terribile conflitto che inaugurò il Novecento, sta alla base della storia europea recente, del mondo in cui viviamo oggi. E la storia e l’importanza della memoria sono tra i temi che mi sono cari, a partire dal mio primo libro Il paese silenzioso. In più, cercare di spiegare un argomento come la Grande Guerra a bambini e ragazzi assume un valore aggiunto, di educazione alla cittadinanza: comprendere e ricordare gli errori del passato può e deve essere uno stimolo a costruire un mondo di pace".


Al di là della facile retorica, ritieni giusto che le giovani generazioni conoscano la storia passata e perché?

"Primo Levi, uno dei miei autori di riferimento, in una sua poesia intitolata significativamente Delega ci sprona a cogliere il testimone. Scrive Levi: <<Non spaventarti se il lavoro è molto:/C’è bisogno di te che sei meno stanco./Poiché hai sensi fini, senti/Come sotto i tuoi piedi suona cavo>>. Riflettere sul passato non significa aggrapparsi ad esso o isolarsi dal presente, guai se lo fosse! Conoscere e comprendere il passato, specie il passato recente, ha invece una forte valenza per il nostro vivere. Oggi in Italia e in Europa, nonostante i problemi e le difficoltà, viviamo in pace e in democrazia, ma come possiamo comprendere il valore e l’importanza di esse se non conosciamo i passi che ci hanno portato a realizzarle? Ecco, il mio libro cerca di raccontare uno di questi passi a bambini e ragazzi: gli stessi conflitti che nel corso della vicenda emergono tra i protagonisti e i nuovi amici incontrati si sovrappongono in qualche modo ai ben più grandi conflitti della storia che a poco a poco i bambini scoprono. Due dimensioni che, in ultima analisi, ricevono la stessa risposta: solo vivendo in pace, nel rispetto e nell’armonia delle diversità, è possibile un futuro più giusto e sereno".

L'articolo completo si trova in http://www.ladomenicadivicenza.it/a_ITA_5419_1.html.

domenica 16 febbraio 2014

Storia, politica e attualità: una riflessione su questi giorni a partire dall'antico

La scorsa settimana, come ricorderete, proponevo una riflessione sul linguaggio e la società, invitando a prestare attenzione all'uso delle parole, specie da parte di quanti sono preposti a ricoprire incarichi pubblici o istituzionali. Gli eventi degli ultimi giorni mi spingono oggi a ritornare sul tema, ampliando la prospettiva. 

Rileggevo ieri l'incipit delle Storie di Polibio. Vissuto tra il 200 e il 118 ca a.C., fu il maggiore storico dell'età ellenistica. Greco, uomo politico di prestigio e insieme scrittore sin dalla giovane età, dopo la conquista romana della Grecia fu portato come ostaggio a Roma, dove presto venne in contatto col circolo culturale che gravitava attorno alla famiglia degli Scipioni. Divenuto amico di Scipione Emiliano, lo seguì nelle sue campagne militari, in special modo in quella contro Cartagine (la terza guerra punica, 146 a.C).
All'inizio della sua imponente opera (40 libri di cui solo i primi cinque ci sono arrivati per intero) egli fa un elogio dello studio della storia, ponendosi nel solco di una lunga tradizione della storiografia greca che aveva come capostipite il grande Tucidide di Atene. Scrive Polibio: <<Gli insegnamenti che si traggono dalla storia sono l'educazione e l'esercizio più efficace per l'azione politica; [...] il ricordo delle vicissitudini occorse agli altri è l'unico e il più chiaro maestro di come si possano affrontare con dignità i rovesci della sorte>> (Polibio, Storie I, 1, ed. Newton & Compton, 1998, p. 23). Polibio, come Tucidide, aveva una visione ciclica della storia: in essa dinamiche e processi tendevano a ripetersi. Lo studio del passato aveva perciò una forte valenza per il presente. In primo luogo la storia appare strettamente connessa all'azione politica, in secondo luogo, per quanti la studiano, essa risulta κτῆμα ἐς αἰεί, un possesso definitivo, proponendo lezioni valide per ogni epoca: un contributo per comprendere l'oggi più ancora che il passato nonché ad attingere da quest'ultimo modelli comportamentali utili per opporsi ai <<rovesci della sorte>>. L'espressione non è lontana da quella che avrebbe utilizzato molti secoli dopo un altro grande storico e filosofo politico, Niccolò Machiavelli, il quale non a caso si poneva in continuità con il pensiero degli antichi e formulò la sua riflessione anche grazie alla lettura diretta dei filosofi e storici dell'antichità greco-romana. 

Torniamo al presente. Viviamo in un paese che <<ha memoria labile>>, per usare un'espressione di Mario Rigoni Stern, un paese che dimentica, che spesso non vuole ricordare, che dà talora prova di un'ignoranza a dir poco paurosa sulle sue vicende prima ancora che sulla sua cultura. Eppure in questi giorni Machiavelli è stato più volte citato per descrivere i comportamenti di taluni personaggi della nostra attualità politica (nessuno, mi sembra, ha invece fatto riferimento ai modelli antichi cui il pensatore fiorentino a sua volta si riferisce). Vorrei dunque suggerire che se conoscessimo di più la storia e coloro che su di essa, dall'antichità ad oggi, hanno riflettuto e scritto non ci saremmo più di tanto stupiti di certi avvenimenti degli ultimi giorni, li avremmo anzi potuti addirittura prevedere. Tuttavia, avendo udito questi riferimenti al Machiavelli, un dubbio ha iniziato a rodermi. L'illustre fiorentino, si ricorderà, separava l'azione politica dalla morale. Il principe, quando opera per il bene comune (e ciò è quanto lo distingue dal tiranno, che agisce per proprio tornaconto), può avvalersi di mezzi condannati dalla morale. Ma se ciò è quanto avviene, quali conseguenze si avranno? Se sempre più la politica diviene sinonimo di astuzia, dissimulazione, maschera, menzogna, dove ci porterà tutto ciò?
Nella nostra disatrata società italiana in cui, oserei dire, la crisi morale e sociale supera per certi versi quella economica, in cui l'interesse di parte continuamente scalza il bene comune, in cui menzogna e dissimulazione sono già diventate (e da troppo tempo!) la regola, a cosa ci condurrà questa scaltrezza? Se già si stenta a riconoscere dove non suoni cavo, per parafrasare Primo Levi, come raccappezzarsi? Come reprimere il ribrezzo e la noia? Come non perdere la fiducia? Come non rassegnarsi? Domande che per tutti, ma soprattutto per i giovani, assumono spesso la drammaticità di un grido. Un grido tuttavia, che altrettanto spesso muore in gola, soffocato da una realtà divenuta nemica.

Molti amici e coetanei con cui ho parlato negli ultimi tempi sentono con urgenza la necessità di autenticità, di limpidezza, di moralità, in primis in coloro che ricoprono ruoli pubblici e istituzionali. Ma al vedere quanto accade, una buona parte di essi si è già disillusa, alcuni hanno già scelto di andarsene in paesi dove il futuro, proprio e collettivo, si può ancora costruire secondo le regole del vivere insieme. Devo ammettere che non mi sento più di dar loro torto, o di biasimarli. Ma per chi resta? Per chi non può o non vuole partire? Non ho risposte preconfezionate, il problema è complesso e non va trattato con leggerezza. Oggi vorrei però condividere le parole che Primo Levi ci consegna in Delega, una poesia che, come spesso ho avuto modo di dire, ha per me il significato e la forza di un lascito. Assieme ad essa, posso solo suggerire ancora una volta che conoscendo e studiando la storia e chi vi ha riflettuto possiamo guardare al presente e al futuro con maggiore consapevolezza e, soprattutto, con responsabilità.

Delega

Non spaventarti se il lavoro è molto:
C'è bisogno di te che sei meno stanco.
Poiché hai sensi fini, senti
Come sotto i tuoi piedi suona cavo.
Rimedita i nostri errori:
C'è stato pure chi, fra noi,
S'è messo in cerca alla cieca
Come un bendato ripeterebbe un profilo,
E chi ha salpato come fanno i corsari,
E chi ha tentato con volontà buona.
Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro,
Perché insicuro.Vedi
Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia
Dei nostri dubbi e delle nostre certezze.
Mai siamo stati così ricchi, eppure
Viviamo in mezzo a mostri imbalsamati,
Ad altri mostri oscenamente vivi.
Non sgomentarti delle macerie
Né del lezzo delle discariche: noi
Ne abbiamo sgomberate a mani nude
Negli anni in cui avevamo i tuoi anni.
Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo
Pettinato la chioma alle comete,
Decifrato i segreti della genesi,
Calpestato la sabbia della luna,
Costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima.
Vedi: non siamo rimasti inerti.
Sobbarcati, perplesso;
Non chiamarci maestri.

24 giugno 1986.












domenica 9 febbraio 2014

Lingua, cultura e società

Gli avvenimenti politici degli ultimi giorni, mostrati a più riprese nei canali televisivi come nel web, mi hanno suscitato una riflessione che vorrei proporvi, amici lettori. Cercando di far valere gli insegnamenti appresi in questi anni universitari, ho cercato soprattutto di interrogarmi, come mi piace fare, sul linguaggio, verbale e non, attraverso cui esponenti dei vari schieramenti o commentatori hanno manifestato le motivazioni alla base delle loro scelte o dei loro comportamenti o, ancora, le loro opinioni in merito. 

Neanche a farlo apposta, mi sono tornati in mente due libri letti (uno studiato per bene!) nell'ambito accademico ma che mi hanno profondamente segnato. Il primo è un testo che, nonostante sia apparso per la prima volta nel 1913, è tuttora un "monumento" per gli studi del settore, mi riferisco all'opera di Antoine Meillet, Aperçu d'une histoire de la langue greque, tradotta in italiano come Lineamenti di storia della lingua greca. Tralasciando la profonda dottrina presente e gli aspetti più tecnici, L'Aperçu è testo capitale anche e soprattutto per l'impostazione di fondo. Meillet, infatti, in esso dà corpo ad un concetto che oggi può apparire quasi scontato, ma che all'epoca della pubblicazione del libro non lo era: il fatto, cioè, che la lingua è il frutto della cultura che la crea, intendendo 'cultura' in senso antropologico. Nella premessa alla terza edizione (1929) lo studioso ritorna sul concetto e scrive: <<Una lingua vale non perché sia l'organo di una nazione, ma in quanto è lo strumento di una civiltà>>. La lingua è dunque espressione della civiltà che l'ha prodotta. Da ciò si ricava che tanto più una civiltà sarà progredita nel campo culturale, tanto più la lingua che essa utilizza apparirà "forte", prestigiosa e in grado di esercitare la sua influenza e il suo prestigio all'interno e all'esterno dei confini geografici. Un esempio tra i tanti possibili: il latino, benché importato in Oriente con la forza delle legioni, non riuscì mai a soppiantare il greco, che non a caso rimase, accanto agli idiomi locali, la lingua  ufficiale di quella parte dell'impero. 

A partire, dunque, dal concetto esposto, complici le notizie apprese, i dibattiti, le rubriche, ho riflettuto sull'uso, conscio e inconscio, che della lingua facciamo, provando a vagliare lo stato di salute della nostra società a partire dallo stato di salute della lingua, e utilizzando come campione la lingua di personaggi pubblici. Nulla di nuovo. Eppure, si tratta di un gioco divertente, dai risultati tutt'altro che scontati: provateci.
Facendo ciò, mi è tornato in mente un altro libro, un libro che ha cambiato profondamente il mio sentimento di fronte alla lingua e agli studi che ad essa fanno riferimento. Il testo in questione è LTI. La lingua del Terzo Reich, di cui tornerò, spero, a parlare. L'autore, Victor Klemperer, fu filologo tedesco perseguitato dai nazisti per le sue origini ebraiche, scampato alla deportazione grazie al fatto di essere sposato con una donna "ariana". Egli, privato dell'insegnamento e dei suoi libri, nel decennio 1935-1945, registrò nei suoi diari l'appropriazione e la deformazione della lingua tedesca da parte dei nazisti. La tesi di fondo, forte e straordinaria, di LTI, è che noi ci serviamo della lingua, ma che anche la lingua in un certo senso si serve di noi, plasma il nostro pensiero, lo orienta, che ne siamo consapevoli o meno. Così, un movimento politico, come qualsiasi gruppo sociale, diffonde le sue idee e i suoi concetti anche attraverso di essa, attraverso il suo uso o abuso, la deformazione a scopo ideologico. Un'operazione subdola questa, difficile da controllare. Così, conclude Klemperer, si può diventare nazisti a partire dalla lingua. Inconsapevolmente, utilizzando la lingua perversa, deformata dall'ideologia. E parlando come i nazisti, si diventa, alla fine, nazisti.

Quale riflessione finale vorrei allora proporre questa settimana? Consapevoli che possiamo fino ad un certo punto orientare il linguaggio, specie quello parlato, dovremmo tuttavia sforzarci di chiederci sempre da dove provengono le parole che usiamo. Soprattutto se siamo chiamati a farlo pubblicamente e, ancor più, all'interno di un'Istituzione, non possiamo esimerci dall'interrogarci sull'origine di termini o espressioni. Tanto più se essi, nel corso della storia, hanno assunto connotati sinistri o dichiaratamente negativi. Un esempio tratto da un linguaggio non verbale: non posso esporre tranquillamente un fascio littorio o una svastica appellandomi ai significati che essi possedevano nell'antichità. Non posso perché essi si sono nel corso della storia caricati di significati altri, che non si possono dimenticare. Così per la lingua: se non vogliamo che essa divenga tutto e il contrario di tutto, ma soprattutto se vogliamo essere cittadini maturi e consapevoli, dobbiamo interrogarci di continuo, e di continuo ricordarci che anche attraverso la lingua che utilizziamo diciamo agli altri chi siamo.

domenica 2 febbraio 2014

Quando la Storia diventa romanzo: Momenti fatali di Stefan Zweig

Tra le letture che, raggiunta ormai la conclusione della tesi, ho deciso di concedermi, questa settimana la scelta è caduta su uno dei libri "inevasi", che da tempo attendevano sul comodino: Momenti fatali di Stefan Zweig.
Come al solito, due parole sull'autore: Zweig, nato nel 1881 da una ricca famiglia ebrea viennese, cresce nella Vienna di fine Ottocento-inizio Novecento. Si laurea in filosofia e, una volta terminati gli studi, viaggia molto in Europa. Pacifista, durante la Grande Guerra ripara per un certo periodo in Svizzera. Tra gli anni Venti e Trenta diviene celebre come autore di biografie, tra cui quelle su Maria Antonietta, su Magellano, Balzac ed Erasmo da Rotterdam. Perseguitato dal Nazismo, lascia l'Austria nel 1934, spostandosi dapprima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e quindi in Brasile. Qui muore suicida nel 1942, assieme alla giovane compagna Lotte Altmann. Tra le opere di Zweig, degna di nota è anche l'autobiografia Il mondo di ieri, di cui magari parleremo prossimamente.

Momenti fatali. Quattordici miniature storiche esce nel 1927, riscuotendo da subito un grande successo. Si tratta di quattordici racconti-resoconti di momenti particolari della storia umana, dall'antichità al Novecento. Non di rado l'attenzione di Zweig si posa su un personaggio in cui si racchiude la grandezza del momento: uomini esemplari, per carattere, prontezza, capacità di far fronte al kairòs, al momento fatale appunto, oppure inadeguati, sovrastati. Grandi o meschini, tutti intenti a misurarsi con la Storia, vera protagonista di ogni singolo quadro, la Storia e i suoi momenti, ore, come le definisce Zweig stesso <<sature di potenziale drammatico e gravide di fato, che racchiudono in un'unica data, in un'unica ora e spesso in un solo minuto una decisione destinata a trascendere la contingenza>> (p.12).

I quadri, dicevo, si snodano dall'antichità agli inizi del Ventesimo secolo. Ecco quindi alternarsi la Roma di  Cicerone alla caduta di Costantinopoli, la composizione del Messiah di Haendel alla battaglia di Waterloo, la fuga del vecchio Tolstoj alla conquista del polo sud, sino alla sconfitta di Wilson alla Conferenza di pace di Versailles. In ogni caso, è la Storia la protagonista, e attraverso una scrittura partecipata, densa di ammirazione, a tratti persino enfatica, Zweig ci conduce nelle sue pieghe "eroiche". Perché eroi sono alla fine i personaggi in scena, siano vincitori o sconfitti, giganti o inetti.

Un'ultima considerazione su uno dei racconti che più mi hanno coinvolto, quello su Cicerone. La narrazione prende avvio dopo la presa del potere di Cesare, dipingendo un Cicerone stanco, ma d'animo limpido, un homo novus che all'ambizione personale non ha contrapposto gli interessi della Res publica e che anzi diviene l'ultimo baluardo della tradizione e della virtù romana contro il potere personale. Un uomo che, pur non brillando per coraggio, giunge alla fine a rigettarsi nella mischia politica dopo l'uccisione di Cesare proprio in virtù di quella libertà dello Stato ormai inevitabilmente sopraffatta dagli interessi personali. Pagherà, lo sappiamo, con la vita la veemenza e la rabbia riversate nelle Filippiche, le orazioni pronunciate contro Antonio. Il Cicerone di Zweig non può non suscitare il nostro interesse. Per questo lo consiglio in particolar modo agli amici e colleghi antichisti e a quanti si trovano a spiegare la figura del politico-oratore-scrittore agli adolescenti di oggi.
Sarà una Storia drammatizzata, a tratti eccesisvamente, quella che emerge dai quattordici momenti fatali, ma proprio in quanto riletta come un romanzo, essa assume un valore esemplare. Un racconto pieno di fascino e ben scritto.