Quando sentiamo il nome di Franco Lucentini (1920-2002) il pensiero corre al sodalizio letterario e di amicizia che lo unì a Carlo Fruttero (1926-1912), eppure nel 1951 un giovane Lucentini inaugurava con un racconto lungo "I gettoni" einaudiani diretti da Elio Vittorini.
Ambientato in una Vienna appena uscita dalla Seconda guerra mondiale, fra edifici in macerie e persone che tentano di riprendere a vivere nonostante la bufera che ha travolto ogni cosa,
I compagni sconosciuti ci presenta un personaggio che ha deciso di farla finita ma che, proprio sul ponte da cui sta per gettarsi, viene salvato da un soldato russo di guardia. Inizia così, fra
compagni sconosciuti, un percorso di relazioni: pochi giorni, ma che hanno l'intensità di una vita intera.
Un libro duro, un racconto quasi senza speranza eppure pervaso di dolcezza e di malinconia narrato con una lingua innovativa, spuria, plurale.
«Posò il lavoro accanto a sé, sulla cassa del carbone, e si aggiustava la veste sulle ginocchia. Poi si alzò, stava in piedi vicino al letto.
— Nc znaiu, — ripeté. Non lo sapeva. No ja chatiela b… pamòtch... — Ma avrebbe voluto aiutarmi...
— I kak? — E come?
— N... ne znaiu —. Non lo sapeva.
— Ne znaiesc, a? — Ah, non lo sapeva?
— N… net. Ne znaiu... ne znaiu...
Stavo supino sul letto e la guardavo, nella luce che già finiva. Guardavo i capelli scoloriti, la faccia nell'ombra. Poi guardavo la vecchia giacca che portava, i bottoni arrugginiti alla cintola, la veste pesante che cadeva diritta sulle ginocchia. Volevo parlare, ma non potevo parlare. Mossi una mano sulla coperta e stesi piano il braccio, le toccai l'orlo della veste, le ginocchia. Lei stava ferma, non si muoveva, sentivo con la mano le gambe che tremavano. Di sotto era vestita anche pili povera, pure io tremavo e tenevo gli occhi chiusi. Quando li aprii vidi che piangeva, le lagrime le rotolavano sulla faccia.
La mano mi ricadde e le tenevo solo l'orlo della veste; poi lasciai pure quello, mi voltai contro il muro. La sentii che si sedeva di nuovo sulla cassa e piangeva.
Pianse piano, piano, per un pezzo, poi non so se ancora piangeva, si sentiva solo respirare. Io guardavo la parete scrostata, vicino al cuscino, e ogni tanto muovevo un dito, premevo con l'unghia sul calcinaccio che veniva via».
Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, Einaudi, Torino 1951, p. 58.