domenica 20 novembre 2016

"Denial": quando la verità dev’essere dimostrata con la parola

Grazie al post di un amico su facebook, qualche giorno fa sono venuto a conoscenza di un film in questi giorni nelle sale italiane, invero non molto pubblicizzato. S’intitola “Denial”, reso in italiano con “La verità negata” e racconta la storia vera della professoressa Deborah E. Lipstadt, storica statunitense, la quale, negli anni Novanta del secolo scorso, dovette affrontare un processo per diffamazione intentatole da David Irving, “padre” del negazionismo.

Interessato come sono alle tematiche inerenti al Novecento, dopo aver guardato il trailer, visto il cast notevole e letto qualche recensione molto positiva, ho trovato un cinema – l’unico in provincia – in cui il film fosse presente. Ieri sera, quindi, mi sono regalato una serata davanti al grande schermo, la prima dopo mesi di forzato digiuno cinematografico.


Nel clima “da Cinema Paradiso” che sempre mi avvolge all’“Odeon” di Vicenza (così svelo anche dove avviene la proiezione, se qualcuno fosse interessato), mi sono gustato una pellicola da subito coinvolgente. Grazie alla bravura dell’attrice protagonista, Rachel Weisz, e di grandi attori quali Tom Wilkinson, nei panni dell’avvocato Richard Rempton, e di Timothy Spall in quelli di David Irving, grazie ad una buona regia ma, soprattutto, ad un’ottima sceneggiatura (firmata da David Hare), il film scorre trascinando lo spettatore nel vortice della storia.

La protagonista, americana, viene citata in giudizio in un tribunale inglese e da subito deve fare i conti con le regole delle corti britanniche. Carattere forte <<spirto guerrier>>, coinvolta particolarmente anche perché ebrea, accetta a stento le regole di una cultura, forense e non solo, diversa e si trova nella situazione paradossale di dover dimostrare che la Shoah sia veramente avvenuta. Spesso in tensione col gruppo di avvocati che la assistono sulle modalità di conduzione del processo – dovrà ad esempio accettare di non far comparire testimoni diretti – alla fine riesce a vincere la causa ma non senza colpi di scena e momenti critici.

Dall’altra parte del banco di tribunale siede David Irving, impersonato da un bravissimo Timothy Spall, che avevo molto apprezzato, qualche tempo fa, nel film “Turner”, dedicato al grande pittore inglese. Spall è davvero in gamba nel rendere il personaggio dello storico dilettante negazionista, razzista e vicino all’estrema destra che decide di difendersi da solo in tribunale.
Suo grande avversario è l’avvocato Rampton, impersonato da un altrettanto bravo Tom Wilkinson, un legale scrupoloso e vòlto fino in fondo a dimostrare con prove e nei minimi dettagli la verità di fronte al giudice. Intensa in tal senso è la parte del film in cui Rampton si reca ad Auschwitz assieme a Deborah Lipstadt e raccoglie minuziosamente, come in ogni scena del crimine, ogni dato che possa aiutarlo a provare la verità in tribunale, anche suscitando in un primo momento la protesta della storica, che lo accusa di scarsa umanità.

Altro aspetto notevole, come accennato all’inizio, è la sceneggiatura: i dialoghi, molto ben costruiti, sono un emblema della potenza duplice della parola: la parola volgare ma ammaliatrice di Irving, quella retta ma impetuosa della professoressa Lipstadt, quella misurata e ponderata di Rampton. La parola è dunque un’altra vera protagonista della pellicola: la parola usata in un tribunale per dimostrare ciò che dovrebbe essere certo ma che, a causa di un’altra parola, malevola e subdola, può essere messo in discussione; la parola di fronte alla storia; la parola di fronte al silenzio dei “sommersi”, di coloro che, come ha scritto Primo Levi, sarebbero i veri testimoni da ascoltare. Emblematiche in tal senso sono le scene in cui la professoressa Lipstadt si trova a dialogare con una sopravvissuta; in esse riaffiora il drammatico tema leviano della delega di testimonianza che i “sommersi” affidano e silentio ai “salvati”.

Insomma, “La verità negata” è un film che affronta tematiche inerenti alla Shoah con il ritmo del film drammatico di ambientazione giudiziaria ma, come ha scritto Anna Maria Pasetti (qui la recensione), le innalza ad un livello simbolico. In un mondo in cui la parola è spesso vituperata, asservita, plagiata, in cui, complice la scarsa memoria di molti, trionfa il discorso becero, il malevolo, il furbo, il volgare, “La verità negata” ci riporta all’importanza della parola onesta e retta quale strumento di conoscenza del reale, di giudizio sul passato e di scommessa per il futuro.

sabato 3 settembre 2016

Rumando d'estate... un ritrovamento straordinario

L'etimologia dell'aggettivo 'straordinario' affonda le radici nel latino. Letteralmente esso significa fuori (extra) dall'ordinario. Meno noto è invece il significato del verbo 'rumare', termine attestato nella prima metà del XIV secolo ed oggi ridotto a regionalismo: il suo significato proviene dal latino tardo 'rumare', a sua volta derivato da 'ruma', cioè gola o esofago (per estensione, quindi, anche stomaco): insomma, lavorare di stomaco, quindi rimescolare. Per una rapida conferma ecco due fonti affidabili consultabili con due semplici clic: primo clic; secondo clic

Per me il verbo 'rumare' è associato alla grande passione che nutro per i libri, non solo per quanto in essi contenuto ma anche per l'oggetto libro in sé. Rumare è per me la caccia a libri appartenuti ad altri presso mercatini o negozi dell'usato. Un libro, specie se di una certa età, porta infatti con sé una storia. Che sia appartenuto ad una sola persona o che sia passato di mano in mano, magari recando i segni dei proprietari, un libro racconta non solo attraverso il testo che contiene ma anche attraverso la sua stessa materialità. Intonso o gualcito, con le pagine bianche o ingiallite, con la copertina in buono stato o consunta, col dorso compatto o segnato di rughe, odoroso di polvere, di soffitta o di cantina, un libro segna un piccolo cammino di civiltà, un frammento di vita che ha abbracciato persone in momenti diversi, mettendo in comunicazione chi ha scritto con chi, in vari momenti, legge. Una catena che può fermarsi a poche persone o, come accennavo, può proseguire se il libro passa di mano in mano. Forse anche per questo, oltre che per l'emozione del ritrovamento, mi piace rumare, per sentirmi parte di un cammino che potrebbe risalire idealmente ai primi segni scritti tracciati dall'uomo. E a volte, rumando fra i libri, si possono avere sorprese inaspettate.

Circa un mese fa ho recuperato in un mercatino che frequento abbastanza spesso un libro che mi aveva subito incuriosito: legatura elegante di fine Ottocento - inizio Novecento, lettere dorate sul dorso, edizione di pregio con carta di buona qualità. Il libro, uno Zanichelli del 1902, raccoglieva gli scritti polemici di Giosuè Carducci: Confessioni e battaglie il titolo. Il volume era in buone condizioni; unici danni alcuni strappi sulla copertina, forse causati da nastro adesivo.
Vista l'edizione e visto il prezzo assai modesto che si richiedeva non ho esistato ad acquistarlo. 

Una volta a casa ho avuto la sorpresa: nella fretta non avevo esaminato la seconda di copertina. Ho sgranato gli occhi stupito: al centro c'era un disegno che raffigurava quattro volti racchiusi in ovali uniti da rami. Nel quinto ovale, al centro, campeggiava un nome: Robert Saitschick. Un ex libris d'autore! Lo stile del disegno mi ricordava l'Art Nouveau di primo Novecento mentre nulla mi diceva il nome del precedente proprietario. 

C'è voluto poco per scoprire chi fosse, l'era internet dopotutto ha i suoi vantaggi. Digito perciò sulla tastiera il nome misterioso e mi si apre, fra le altre, una pagina di wikipedia. La potete trovare cliccando qui.

Robert Saitschick, nacque a Mscislaŭ, cittadina oggi bielorussa ma nell'Ottocento parte dell'Impero degli zar, nel 1868 e morì quasi centenario a Horgen, in Svizzera, nel 1965. Frequentò il ginnasio, ebbe grane col governo russo perché vicino ad un circolo rivoluzionario, fuggì a Vienna dove studiò letteratura. Laureatosi, nel 1894 divenne professore di Letteratura comparata presso l'Università di Neuchâtel. Dal 1895 al 1914 insegnò presso l'Istituto Federale Svizzero di Tecnologia di Zurigo. Dal 1914 al 1925 fu professore presso l'Università di Colonia. Si dedicò anche alla scrittura, divenendo autore prolifico: alcuni suoi libri si possono trovare ancor oggi sul mercato. Non ho invece trovato fotografie che lo ritraggano. 

Non so descrivere l'emozione provata una volta apprese queste informazioni. Un libro mi metteva improvvisamente in contatto con uno scrittore di inizio Novecento! Inoltre domande sorgevano spontanee: come aveva fatto quel libro a raggiungere le lande vicentine? Per quali altre mani era passato? Cosa aveva visto? Perchè fu acquistato? Influenzò l'autore in qualche modo? Qual era il suo pensiero? 
Confrontando le date della biografia con quella di pubblicazione del libro, deduco che probabilmente, quando il volume fu acquistato, la vita di Saitschick doveva avere raggiunto una certa stabilità: di sicuro già insegnava. Ma c'è di più. L'ex libris aveva a sua volta una "firma". Proseguendo la mia ricerca in internet, ho infatti trovato l'immagine associata ad un nome in questa pagina del Museum of Applied Arts di Budapest.

Hugo Höppener "Fidus"
Esso è opera di Hugo Höppener detto Fidus (1868-1948), pittore e illustratore simbolista, coetaneo di Saitschick e oggi quasi dimenticato. Visse in Germania, condividendone la tragica storia, aderendo fra l'altro nel 1932 al partito nazista ma senza ottenerne il supporto sperato. Morto dimenticato, è stato in parte riscoperto negli anni Sessanta. Ecco qui la pagina di wikipedia su di lui. Consiglio anche, per saperne di più, questa pagina e questa.
Secondo la pagina inglese di wikipedia, Höppener nei primi anni del Novecento <<was one of the best known painters in Germany, and had come under the influence of writers such as Arthur Moeller van den Bruck, Heinrich and Julius Hart>>. Altri scrittori, dunque. Scrittori amici o conoscenti di Saitschick? Condividevano interessi o ideali artistici?

Domande, ancora domande. E dietro le domande, ecco affiorare  un secolo e mezzo di Storia; assieme ad essa, le storie: personaggi, sentimenti, azioni, scelte, vite. Non è straordinario (cf. l'incipit di questo testo) che tutto ciò sia possibile a partire da un oggetto di carta dimenticato sopra una mensola polverosa? Forse che sì, forse che no. Dopotutto, come dice la protagonista di un mio libro per ragazzi, basta un tocco del dito perché la polvere che copre il passato scompaia ed esso torni a rivivere.



domenica 31 luglio 2016

"Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta: un esempio grande letteratura

Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all'ultima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l'unica viva nella grande casa, anche perché l'unica riscaldata da un vecchio caminetto...
 
Da tempo non mi capitava di leggere un romanzo di ampio respiro, un testo di grande letteratura. L'esperienza è finalmente avvenuta con Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, libro di cui ho riportato l'incipit e del quale, ad essere sincero, fino a pochi mesi fa mai avevo sentito parlare. L'ho scoperto grazie alla splendida trasmissione di Radio 3 "Ad alta voce", in una suggestiva interpretazione di Toni Servillo che potete ascoltare cliccando qui

Salvatore Satta
Vale la pena scrivere due parole sull'autore. Giurista insigne, autore fra l'altro di un monumentale Commentario al Codice di Procedura Civile, Salvatore Satta nacque a Nuoro nel 1902 e morì a Roma nel 1975. In vita non pubblicò mai nessuno scritto di carattere letterario. Il giorno del giudizio, scritto a partire dal 1970, fu ritrovato dai famigliari di Satta e pubblicato nel 1977 dalla Casa Editrice Cedam. Passato inizialmente sotto silenzio, fu ripubblicato due anni dopo da Adelphi, conoscendo da allora un successo straordinario.

Il romanzo, fortemente autobiografico, è un viaggio nella memoria della Nuoro di fine Ottocento - inizio Novecento, la cittadina sarda in cui, come detto, l'autore nacque e dove trascorse la propria infanzia. Tuttavia l'autobiografia non può esaurire da sola il racconto, ne è certo la linfa e la radice ma c'è dell'altro: Il giorno del giudizio è un ritorno al mito, ad un mondo ancestrale segnato da regole proprie e scandito da un tempo che pare dilatarsi come la stessa narrazione, la quale procede vorticosa, per nuclei che si richiamano l'uno con l'altro. Non è un caso che il primo riferimento temporale preciso arrivi parecchio avanti, facendo irrompere con violenza nella piccola Nuoro il mondo di fuori: si tratta dell'assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914, l'anno della catastrofe europea.

La vicenda, che prende le mosse dal racconto della vita del notaio Don Sebastiano Sanna Carboni e della sua famiglia, si dilata progressivamente abbracciando la vita di decine di personaggi che, come rivela la voce narrante, ormai sono tutti uno a fianco all'altro, dimenticati nel cimitero della cittadina.

Il parallelo con l'Antologia di Spoon River viene spontaneo e in effetti molti commentatori del libro affiancano l'opera di satta a quella di Lee Masters. Tuttavia ciò che a mio avviso differenzia il romanzo dalla raccolta poetica è l'atteggiamento di fondo: lo sguardo che traspare dalla voce narrante nel Giorno del giudizio è pervaso da un senso di fine, di oblio, di morte che attraversa i personaggi anche quando sono apparentemente nel pieno della vita. Dal notaio Don Sebastiano agli avventori del caffè Tettamanzi, dai preti della cittadina, presi dalle beghe e dagli interessi, all'infelice Gonaria che vive solo per vedere il fratello nominato canonico, da Donna Vincenza, divorata dall'odio nei confronti del marito Don Sebastiano, al povero Pietro Catte, i personaggi del romanzo di Satta sono pervasi dal senso della fine, persi in un tempo mitico e circondati da un nulla che spesso si fa assordante ma al quale, per il fatto stesso di essere esistiti, non si può nemmeno prender parte completamente. Di qui il significato profondo che sta dietro al titolo e la dicitura di <<capolavoro della solitudine>> data all'opera da George Steiner.

In tutto ciò la scrittura sembra non avere, nelle intenzione del narratore, alcun potere salvifico. Così infatti comincia il capitolo V: <<Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte, nella loggetta della casa che mi sono costruito nei lunghi anni della mia laboriosa esistenza>>. Eppure l'autore Satta, dietro il nichilismo della voce narrante, scrive, rievoca, e lo fa con sofferenza, nonostante la sofferenza, scavando, riesumando un mondo ormai morto dal quale è partito ancora giovinetto ma che ha serbato dentro di sé.

Non voglio dilungarmi oltre. Concludo con due parole sulla scrittura: siamo di fronte ad un grande narratore, che sa mettere in campo uno stile denso, partecipato, a tratti addirittura visionario, uno stile che dipinge con tratti memorabili i personaggi e smuove ed emoziona il lettore fino a scuoterlo, che è stile nel senso vero.
Di fronte al piattume che spesso connota tanta scrittura odierna, Il giorno del giudizio è un libro dal sapore forte, da gustare fino in fondo come un cibo raro ormai scomparso.

sabato 30 luglio 2016

Collaborazione con vicenzaingreen.it

Cari amici lettori,
una brevissima comunicazione per mettervi al corrente che ho iniziato a collaborare alla pagina vicenzaingreen.it, un sito che punta a promuovere ecologia e sostenibilità nel territorio vicentino. I miei interventi dovrebbero avere cadenza mensile e riguardare argomenti storici, culturali, letterari e di riflessione. 
Al link che segue trovate il primo articolo, uscito qualche giorno fa: http://vicenzaingreen.it/veneto-terra-corre-pace-non-trova/.
Buona lettura e a presto!


domenica 10 luglio 2016

La vita di Mario Rigoni Stern: una biografia che si legge come un romanzo

Ho terminato ormai da qualche settimana la lettura di Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri, biografia del "Vecio dell'altipiano" scritta da Giuseppe Mendicino. L'autore, studioso per passione e non per professione, grande conoscitore dello scrittore asiaghese, aveva già curato due raccolte di scritti di Rigoni Stern: Dentro la memoria. Scritti dall'Altipiano (Editoriale Domus, 2007, allegato alla rivista "Meridiani Montagne") e Il coraggio di dire non. Conversazioni e interviste 1963-2007 (Einaudi, 2013).

Avevo acquistato il volume il 12 giugno scorso ad Asiago, di ritorno dalla splendida passeggiata fra memoria e letteratura in compagnia di Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu (di cui ho scritto qui). Una settimana dopo ho avuto l'onore di incontrare di persona Mendicino, nel corso di una suggestiva presentazione organizzata dalla Libreria Liberalibro di Valdagno.

Mario Rigoni Sern nel celebre ritratto di Adriano Tomba
L'incontro e una veloce ma intensa chiacchierata con l'autore mi hanno acceso ancor più il desiderio di leggere il libro. Ho dovuto attendere però ancora qualche giorno, a causa delle incombenze legate agli esami di terza media. Conclusi gli esami, licenziati i miei ragazzi, non ho avuto più impedimenti e in pochi giorni ho percorso le 345 pagine sulla vita dello scrittore. Lo confesso: ero pieno di curiosità e carico di aspettative. Chi mi conosce sa quanto ami i libri di Rigoni Stern e quanto l'abbia seguito nei suoi ultimi anni. A lui devo molto, come scrittore ma anche come uomo.

La copertina del libro
Il lavoro di Mendicino non ha deluso le aspettative. Da ottimo conoscitore dei testi e da amico ed estimatore di Rigoni, che frequentò fino a pochi mesi prima della scomparsa, nel giugno 2008, Mendicino, che ha lavorato per sette anni all'opera, ha compiuto un lavoro meticoloso e preciso; accanto a ciò spiccano l'umanità con cui l'autore si è dedicato alla scrittura e il profondo affetto per lo scrittore. Quest'ultimo aspetto dà, a mio avviso, un sapore particolare al libro: non un arido saggio accademico ma un libro vivo, preciso nelle ricostruzioni, basato in buona parte sugli scritti dell'autore oltre che sulle informazioni reperite consultando la famiglia e i documenti, ma anche, ripeto, profondamente umano, profondamente vivo.

Altro aspetto che mi ha colpito è la tensione etica che traspare nelle pagine di Mendicino, una tensione frutto di quello stesso afflato che sosteneva la vita e la scrittura di Rigoni Stern. Di lui si legge a tal proposito nell'Introduzione: <<Lo indignavano le ingiustizie e le prepotenze verso i deboli e verso la natura, aveva un codice di valori solido e coerente, che lo guidava nella vita di tutti i giorni come nella scrittura. 
Anche quando le sue storie rievocano vite e luoghi portati via dal tempo, la tensione etica che le attraversa le rende attuali, perché guerre, distruzione dell'ambiente e ingiustizie non sono regredite rispetto al secolo passato. La nitidezza della sua scrittura e la narrazione dei fatti come davvero avvenuti sono un piccolo viatico di civiltà contro retorica e superficialità, oltre a essere una piacevole compagnia>>. Non serve aggiungere altro; qui c'è tutto Mario Rigoni Stern.

Rigoni Stern con Giuseppe Mendicino
Fra i capitoli per me più appassionanti del libro figurano il secondo, dedicato alla scuola militare di alpinismo di Aosta (1938-39), il terzo, che narra delle campagne di Francia e Grecia (1940-41) il quarto e il quinto, relativi alla campagna di Russia (1941-43) e alla tristemente nota ritirata. Altrettanto interessante il capitolo nono, dedicato alle grandi amicizie di Rigoni Stern: con Elio Vittorini, coi compagni di guerra e di prigionia, con Nuto Revelli e, soprattutto, con Primo Levi.

Il libro si distingue per una scrittura piana e scorrevole, caratteristiche che ricordano lo stile stesso di Rigoni Stern, e per un ricco apparato fotografico. Insomma, una lettura che non può mancare per gli estimatori del "Vecio". A ormai otto anni dalla scomparsa di Rigoni, il libro di Mendicino restituisce con sapienza una figura unica della nostra terra, grande scrittore e grande uomo, in una biografia che si legge col gusto di un romanzo.




domenica 12 giugno 2016

Sull'altipiano di Lussu fra silenzio, parole e memoria

<<Tra i libri sulla Prima Guerra Mondiale Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu è, per me, il più bello>>. Così scriveva nel febbraio 2000 Mario Rigoni Stern introducendo l'edizione tascabile di quello che è un classico della letteratura italiana del Novecento. E davvero sono pochi quelli che non abbiano letto il libro di Lussu, che un tempo si proponeva alla scuola media (qualcuno lo fa ancora) o almeno visto Uomini contro, il film che, pur molto diverso dal libro, da esso trasse Francesco Rosi nel 1970. 

Un anno sull'altipiano è, secondo quanto ci dice lo stesso Lussu, un libro di memoria. Senza tesi, si pone come nuda testimonianza sulla guerra, la Grande Guerra. Non serve aggiungere altro: come tutte le testimonianze, anche questa andrebbe solo ascoltata e meditata. Con questo spirito domenica scorsa, assieme ad una trentina di amici dell'Associazione culturale Luigi Meneghello di Malo (Vi), sono salito sui luoghi in cui è ambientato il libro di Lussu: monte Castelgomberto, monte Spill e, soprattutto, monte Fior, il tristemente noto monte Fior. Il programma della giornata era semplice ma denso di significato: un'escursione sui luoghi del libro con alcune tappe, sette in tutto, di lettura. 

Scendendo dal monte Castelgomberto...
La partenza è avvenuta in tarda mattinata da malga Slapeur, a m. 1600 s.l.m. Abbiamo affrontato il percorso, che si snoda ad anello, in senso orario: dalla malga, salita alla sella che separa monte Fior dal monte Castelgomberto, quindi salita a monte Fior, monte Spill e  discesa attraverso la cosiddetta "città di roccia". Una pioggia fitta e sottile ha accompagnato la salita fino alla sella fra i due monti; poi il tempo è andato migliorando, la pioggia è cessata e le nubi ci hanno concesso a tratti qualche timido raggio di sole. 

Procedendo il gruppo conversava, osservava, qualcuno dava informazioni storiche o paesaggistiche; poi, nei momenti e nei luoghi prestabiliti, ci si raccoglieva attorno ai lettori per ascoltare le parole di Lussu. Sette tappe, dicevo: sette momenti di incredibile intensità. I luoghi, si sa, sono parte delle storie che in essi sono ambientate, specie se si tratta, come in questo caso, di avvenimenti realmente accaduti. Ascoltare un'opera già di per sé forte come quella di Lussu nei luoghi ove avvennero i fatti narrati è stata un'esperienza che anche ora, a una settimana di distanza, torna a scuotermi e ad emozionarmi. 

Dopo la prima tappa di lettura, avvenuta fra i due monti, siamo saliti sul Castelgomberto e da lì siamo scesi attraverso la trincea di prima linea, restaurata negli ultimi anni. La roccia bagnata mandava un odore caratteristico, il bosco sotto di noi verdeggiava silenzioso. 
Tappa di lettura a monte Fior
Sulla vetta di monte Fior nuova lettura e nuove emozioni grazie anche alla preparazione dei lettori. Altri gruppi, di passaggio, si fermavano incuriositi, le "ciacole" si zittivano. Ora è Lussu a parlare. E davvero ci pareva di essere con lui nel 1916. <<Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte>>: queste le parole con cui si apre il capitolo VI, quello che narra dell conquista di monte Fior da parte degli austriaci.
Eccoci sulla vetta di monte Fior cent'anni dopo gli eventi descritti: il cielo si apre, tutt'intorno è silenzio. Qui cent'anni fa ragazzi di vent'anni ubriachi di cognac si sono uccisi a migliaia.

Sulla via del ritorno...
L'escursione è proseguita con la visita a monte Spill, baluardo a sud del Fior, la discesa fino alla Casera Montagna Nuova e il ritorno attraverso la "città di roccia". Lì, fra marmotte che ci scrutavano curiose, abbiamo letto uno degli ultimi capitoli del libro, il XXIX, che narra della visita di Lussu al collega Avellini ormai morente. Non ricordavo quanto fosse struggente quel capitolo: si parla di sogni, di amore, di speranze...

Poco prima di raggiungere le auto, ecco l'ultima tappa di lettura, quindi i ringraziamenti e i saluti. È seguito il pranzo al sacco: un panino con la sopressa, un bicchiere di vino, parole e battute come sempre tra persone amiche in montagna. Cosa posso aggiungere di più? Un ringraziamento all'Associazione culturale Luigi Meneghello e in particolare al suo presidente, Valter Voltolini, per un'esperienza davvero unica e che consiglierò il più possibile agli amici e ai miei studenti. 

Concludo tornando a quell'introduzione al libro firmata da Rigoni Stern, in cui il "vecio" scriveva quanto segue: <<Ora, i giovani di oggi, per i quali la Grande Guerra è più lontana della luna, in questo libro trovano quello che i testi scolastici non dicono, quello che i professori non insegnano, quello che la televisione non propone>>. Faccio mio l'augurio di leggere (o rileggere) Un anno sull'altipiano, aggiungendovi quello di recarsi, libro alla mano, sui luoghi. Le emozioni e le riflessioni non mancheranno. Negli anni del centenario sarà inoltre un gesto piccolo ma di valore mentre tanto si celebra e forse poco si medita. Un modo umile per accostarsi alla storia e per fare memoria di quei ragazzi di vent'anni rimasti, per citare Paolo Monelli, con le scarpe al sole.





lunedì 6 giugno 2016

Dopo tanto silenzio... una novità: in arrivo "La pietra del sole"!

Cari amici lettori,
rompo finalmente il silenzio di questi ultimi mesi. Purtroppo gli impegni sono stati davvero numerosi e frenetico il ritmo per sostenerli: per questo mi sono trovato costretto a sospendere questo dialogo con voi. 

La copertina de La pietra del sole
Riprendo dunque ora a scrivere per darvi una lieta notizia: a giorni uscirà un mio nuovo libro per ragazzi. Dopo L'eco delle battaglie, pubblicato da Raffaello Editrice all'inizio del 2014 e avente come argomento di fondo la Grande Guerra (ne avevo scritto qui qui), la scorsa estate, dopo le peripezie legate al Tirocinio Formativo Attivo, sono tornato a cimentarmi con la storia antica, in particolare con le civiltà dell'Italia preromana. 

È nato così La pietra del sole, racconto che, attraverso le vicende di un amuleto d'ambra dai poteri eccezionali, descrive la vita di alcuni dei molti popoli che nel primo millennio a.C. erano stanziati nella penisola. 

Alcune di origine autoctona, altre stanziatesi a seguito di migrazioni, le popolazioni italiche diedero vita a civiltà fiorenti e variegate, in continuo contatto l’una con l’altra. Da nord a sud popoli come i Celti, i Liguri, i Veneti, gli Etruschi, i Latini, gli Umbri, i Piceni, i Sanniti e molti altri si incontravano, commerciavano, si influenzavano e combattevano.

La pietra del sole è un'avventura rivolta ai ragazzi degli ultimi anni della scuola primaria e fa parte delle nuove uscite della collana "Un tuffo nella Storia". Per qualsiasi informazione potete scrivermi utilizzando il modulo a fianco. A presto!


domenica 24 gennaio 2016

Giorno della Memoria: la necessità di comprendere per continuare a vigilare

Mercoledì sarà il Giorno della Memoria, ricorrenza sancita in Italia dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000, <<al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati>>. 
Come sanno i miei lettori, si tratta di una ricorrenza sulla quale ho sempre speso qualche parola. Senza pretese, con il semplice desiderio di condividere alcune riflessioni su un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Negli ultimi anni nel nostro paese sono fiorite le iniziative legate al ricordo della Shoah: pubblicazioni di libri per adulti e ragazzi, proiezioni di film e documentari, approfondimenti di vario genere da parte delle emittenti televisive e degli altri mezzi di comunicazione. Col tempo, insomma, la data del 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa, è diventata istituzione riconosciuta e condivisa. Non voglio perciò affrontare questioni che saranno ampiamente trattate nei prossimi giorni, solo ribadire un paio di punti su cui sento la necessità di soffermarmi. 

Scrivevo l'anno scorso su questo blog (potete risalire all'articolo cliccando qui) che intravedo infatti alcuni rischi nel rendere la Memoria, dovere imprescindibile di tutti, un qualcosa di ufficiale: innanzitutto il rischio di perdere il senso profondo del ricordare, rendendo alla lunga il gesto qualcosa di ripetitivo e stanco, fatto più per dovere che per reale e radicata convinzione; in secondo luogo il fatto di lasciarsi eccessivamente suggestionare dalle emozioni, dalle immagini, dalle cifre, lasciando la mente lontana e limitandosi agli aspetti più sentimentali, quando non addirittura macabri o raccapriccianti, che inevitabilmente sono legati alla Shoah
Sia chiaro, non sto demonizzando le emozioni né dicendo che istituzionalizzare una ricorrenza come quella in questione sia sbagliato, occorre però mantenere vigile la mente, comprendere per giudicare e rendere vivo il ricordo affinché sia monito per il presente. Questo mi ha insegnato la frequentazione assidua degli scritti di Primo Levi e la conoscenza diretta di sopravvissuti ai campi di concentramento e alle vicissitudini della Seconda guerra mondiale. 

Nei prossimi giorni ci sarà un gran parlare di quanto accaduto poco più di settant'anni fa. Facciamo allora in modo che la Memoria non rimanga relegata ad un giorno o ad un'ora prefissati o ad un angolo della nostra interiorità; cerchiamo di approfondire, accogliamo qualche provocazione, usiamo la testa. Per quanto mi riguarda, cercherò di farlo coi miei studenti, ai quali proporrò alcune riflessioni dell'autore di Se questo è un uomo. Proprio ora tengo aperta accanto alla tastiera l'edizione scolastica del libro. Butto quindi l'occhio sulla Prefazione del 1972, redatta da Levi in occasione della prima edizione rivolta alle scuole. Le provocazioni sono numerose e spingono tutte sulla necessità di comprendere la <<meticolosità scientifica>> con cui venne condotta l'uccisione di milioni di persone, a vario titolo considerate diverse. 
Riflettiamo, ad esempio, sugli interessi che spinsero chi sapeva a restare in silenzio o, addirittura, ad assecondare, l'azione dei carnefici. I tempi sono maturi per farlo. Ancora, poniamo attenzione sui rapporti fra fascismo, cui il nazional-socialismo si ispirava, e Shoah. Scrive a tal proposito Levi: <<I campi non erano [...] un fenomeno marginale e accessorio [...]; erano una istituzione fondamentale dell'Europa fascistizzata>>.  
Di qui la necessità pressante di vigilare, oggi più che mai, perché, scrive ancora Levi, <<non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa metterne in dubbio la realtà. [...] Come Brecht ha scritto, "la matrice che ha partorito questo mostro è ancora feconda">>. 
Meditiamo dunque quanto è stato e rimaniamo vigili. Perché come ebbe a dire ancora Levi nell'intervista che propongo di seguito, <<al fascismo di oggi manca soltanto il potere per ridiventare quello che era>>.  










domenica 17 gennaio 2016

Per una scuola che sia giardino di parole: recensione a 'Parole di scuola' di Mariapia Veladiano


Amici lettori,
dopo un periodo di silenzio dovuto - ahimè - ai molti impegni, torno a voi per condividere una recensione del libro di Mariapia Veladiano Parole di scuola (Erikson, Trento 2014). Si tratta di uno scritto redatto durante i mesi di TFA e che è stato poi pubblicato sulla rivista "Rassegna CNOS", 2, 2015 (potete accedervi cliccando qui).
Auguro a tutti una serena continuazione dell'anno da poco iniziato.


 
La metafora del coltivare ricorre spesso quando si parla di scuola, forse perché essa è luogo per eccellenza di formazione, forse perché è legata profondamente alla trasmissione del sapere e di quella che si chiama cultura, parola di stirpe latina che affonda le radici nel colere, verbo deputato a designare l’attività di curare i campi perché portino frutto. Quella dei fiori, del giardino da coltivare è metafora non meno ricorrente, e non meno suggestiva. Un grande scrittore italiano la pose a titolo di un libro sull’educazione uscito nel lontano 1976 ma che molto avrebbe da dire anche ai cittadini del nostro tempo. Il grande scrittore è Luigi Meneghello e il libro sull’educazione s’intitola Fiori italiani. Scrive Meneghello:

«Alla fine si alzò tra l’uditorio un ragazzetto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori” disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”» (Luigi Meneghello, Fiori italiani, Rizzoli, Milano 1976, p. 10).

Non ho scelto a caso la citazione. Oltre trent’anni dopo il libro di Meneghello, saggio e “romanzo” che analizza la cattiva educazione ricevuta da una sorta di alter ego dell’autore sotto il regime fascista, un libro esile di pagine ma denso di contenuti torna a porre accanto alla scuola l’immagine del giardino, un giardino che in questo caso coinvolge soprattutto le parole.

Uscito nel febbraio 2014 per la trentina Erickson, casa editrice legata all’omonimo Centro studi, Parole di scuola di Mariapia Veladiano è un libro sulla scuola e sulle sue parole, un saggio che analizza alcune delle voci più frequenti del lessico scolastico ma che ci consegna al contempo le parole personali di un’autrice che, prima di diventare dirigente e, in seguito, apprezzata scrittrice, nella scuola ha insegnato per trent’anni. Il nucleo del libro è nato, come segnalato in esergo, da un intervento dal titolo “La qualità dell’integrazione scolastica e sociale” pronunciato nel 2013 in occasione di un convegno organizzato dal Centro studi Erickson.

Integrazione, appunto. È questa una delle parole chiave per Mariapia Veladiano, la prima ad essere analizzata dopo un divertente incipit in cui viene descritto Albus Silente, celebre insegnante della saga di Harry Potter, un docente alquanto atipico rispetto agli schemi comuni. Lo spunto ironico cede però abbastanza presto il passo ad una riflessione più seria e preoccupata sulla situazione della scuola italiana di oggi, una scuola che sta divenendo sempre più luogo dell’esclusione, a livello di discenti quanto di docenti. Scrive l’autrice: 

«Come accade che si stia dissipando un tesoro di fiducia di cui la scuola, secondo tutte le indagini, in Italia godeva? […] Dopo le esperienze di partecipazione e inclusione degli anni Settanta, si sta mettendo in discussione tutto» (pp. 10-11).

Dopo aver citato alcuni passi biblici in cui il Paradiso viene definito «Giardino di parole» (Veladiano è laureata in filosofia e teologia), l’autrice presenta l’idea di una scelta di parole ed espressioni importanti per la scuola, luogo che per proprio statuto è casa di parole. Lo fa da amante e studiosa della parola, sia essa quella sacra o quella più prettamente umana, e lo fa non col tono di un predicatore ex cathedra bensì con linguaggio pacato, sommesso, che si apre tuttavia a punte poetiche o più accorate.

Dopo integrazione, parola che l’autrice pone come essenziale nella scuola pubblica per resistere alle spinte disgregatrici, disintegratici della società, viene analizzata la parola paura, troppo spesso divenuta sentimento primo dell’insegnante, costretto in perenne difesa da un sistema pronto a prendersela con lui, e tuttavia chiamato per suo stesso statuto professionale ad andare «oltre tutto, assolutamente tutto quel che è suo stretto dovere professionale». Nonostante ciò, prosegue l’autrice, «la paura può essere alleata della scuola, chiamata a coltivare l’inquietudine verso quell’ottimismo frivolo e senza responsabilità che ci viene somministrato».

Fra le altre parole poste in esame, ciascuna in brevi quanto intensi capitoli, figurano identità, declinata dall’autrice al plurale in quanto molte sono le identità che possiede una stessa persona, timidezza, in cui troviamo la difesa di quei timidi che, fuori moda nella società, dall’insegnante meritano attenzione e «accanito rispetto», e poi libri, che devono essere accessibili davvero, equità, fondamentale in una società che sempre più crea disuguaglianze che la scuola non può permettersi di riprodurre a sua volta, empatia, elogiata perché alla base di un rapporto vero fra docente e discente e che tuttavia non deve scivolare nell’insidia della seduzione. Queste e altre parole (penso, fra gli altri, al bel capitolo sul verbo riparare tanto fuori moda oggi) sono presentate da Mariapia Veladiano allo scopo di uscire dalla triste logica di una scuola «pensata più per studenti che per persone» per arrivare invece ad una scuola che, nell’integrazione delle diversità diventi orto in cui coltivare la società di oggi e, ancor più, quella di domani. Ed ecco che il cerchio si chiude. Ribadendo la necessità di una scuola pubblica si torna all’altra voce, a quell’integrazione di cui, appunto, la scuola pubblica è «formidabile laboratorio».

Chi cerca facili risposte o tesi rivoluzionarie resterà deluso dalla lettura di Parole di scuola: non è qui che risiede la forza del libro. Le riflessioni personali non mancano e neppure mancano le proposte, anzi, ogni voce analizzata si presenta sorretta da profonde convinzioni, che a volte giungono alla sententia. Eppure Veladiano riesce a sostenere le proprie idee senza sposare quel tono volutamente polemico o, addirittura, aggressivo che non di rado caratterizza le discussioni intorno alla scuola e alla sua tanto invocata ma troppo spesso elusa riforma. Il tono del testo resta quello di una persona che ama le parole e la scuola, che coltiva entrambe e che sulla scuola si interroga con l’interesse sincero di chi l’ha vissuta e la vive dall’interno. Senza alzare la voce, con convinzione ma pacatamente, lasciando la forza alle parole, all’autorevolezza fondata sull’esperienza e guardando al contempo con speranza ai piccoli segni di bene che di tanto in tanto appaiono (si veda il capitolo conclusivo, una lettera “speciale” d’inizio anno scritta da un preside agli studenti). Lontano dal rumore e da tanti cicalecci, il lettore forse non troverà confortanti analisi o rassicuranti verità ma potrà porsi importanti domande. Non è questa una competenza che la scuola (quella buona) dovrebbe permettere di imparare?