Grazie al post di un amico su facebook, qualche giorno fa sono venuto a conoscenza di un film in questi giorni nelle sale italiane, invero non molto pubblicizzato. S’intitola “Denial”, reso in italiano con “La verità negata” e racconta la storia vera della professoressa Deborah E. Lipstadt, storica statunitense, la quale, negli anni Novanta del secolo scorso, dovette affrontare un processo per diffamazione intentatole da David Irving, “padre” del negazionismo.
Interessato come sono alle tematiche inerenti al Novecento, dopo aver guardato il trailer, visto il cast notevole e letto qualche recensione molto positiva, ho trovato un cinema – l’unico in provincia – in cui il film fosse presente. Ieri sera, quindi, mi sono regalato una serata davanti al grande schermo, la prima dopo mesi di forzato digiuno cinematografico.
Interessato come sono alle tematiche inerenti al Novecento, dopo aver guardato il trailer, visto il cast notevole e letto qualche recensione molto positiva, ho trovato un cinema – l’unico in provincia – in cui il film fosse presente. Ieri sera, quindi, mi sono regalato una serata davanti al grande schermo, la prima dopo mesi di forzato digiuno cinematografico.
Nel clima “da Cinema Paradiso” che sempre mi avvolge all’“Odeon” di Vicenza (così svelo anche dove avviene la proiezione, se qualcuno fosse interessato), mi sono gustato una pellicola da subito coinvolgente. Grazie alla bravura dell’attrice protagonista, Rachel Weisz, e di grandi attori quali Tom Wilkinson, nei panni dell’avvocato Richard Rempton, e di Timothy Spall in quelli di David Irving, grazie ad una buona regia ma, soprattutto, ad un’ottima sceneggiatura (firmata da David Hare), il film scorre trascinando lo spettatore nel vortice della storia.
La protagonista, americana, viene citata in giudizio in un tribunale inglese e da subito deve fare i conti con le regole delle corti britanniche. Carattere forte <<spirto guerrier>>, coinvolta particolarmente anche perché ebrea, accetta a stento le regole di una cultura, forense e non solo, diversa e si trova nella situazione paradossale di dover dimostrare che la Shoah sia veramente avvenuta. Spesso in tensione col gruppo di avvocati che la assistono sulle modalità di conduzione del processo – dovrà ad esempio accettare di non far comparire testimoni diretti – alla fine riesce a vincere la causa ma non senza colpi di scena e momenti critici.
Dall’altra parte del banco di tribunale siede David Irving, impersonato da un bravissimo Timothy Spall, che avevo molto apprezzato, qualche tempo fa, nel film “Turner”, dedicato al grande pittore inglese. Spall è davvero in gamba nel rendere il personaggio dello storico dilettante negazionista, razzista e vicino all’estrema destra che decide di difendersi da solo in tribunale.
Suo grande avversario è l’avvocato Rampton, impersonato da un altrettanto bravo Tom Wilkinson, un legale scrupoloso e vòlto fino in fondo a dimostrare con prove e nei minimi dettagli la verità di fronte al giudice. Intensa in tal senso è la parte del film in cui Rampton si reca ad Auschwitz assieme a Deborah Lipstadt e raccoglie minuziosamente, come in ogni scena del crimine, ogni dato che possa aiutarlo a provare la verità in tribunale, anche suscitando in un primo momento la protesta della storica, che lo accusa di scarsa umanità.
Altro aspetto notevole, come accennato all’inizio, è la sceneggiatura: i dialoghi, molto ben costruiti, sono un emblema della potenza duplice della parola: la parola volgare ma ammaliatrice di Irving, quella retta ma impetuosa della professoressa Lipstadt, quella misurata e ponderata di Rampton. La parola è dunque un’altra vera protagonista della pellicola: la parola usata in un tribunale per dimostrare ciò che dovrebbe essere certo ma che, a causa di un’altra parola, malevola e subdola, può essere messo in discussione; la parola di fronte alla storia; la parola di fronte al silenzio dei “sommersi”, di coloro che, come ha scritto Primo Levi, sarebbero i veri testimoni da ascoltare. Emblematiche in tal senso sono le scene in cui la professoressa Lipstadt si trova a dialogare con una sopravvissuta; in esse riaffiora il drammatico tema leviano della delega di testimonianza che i “sommersi” affidano e silentio ai “salvati”.
Insomma, “La verità negata” è un film che affronta tematiche inerenti alla Shoah con il ritmo del film drammatico di ambientazione giudiziaria ma, come ha scritto Anna Maria Pasetti (qui la recensione), le innalza ad un livello simbolico. In un mondo in cui la parola è spesso vituperata, asservita, plagiata, in cui, complice la scarsa memoria di molti, trionfa il discorso becero, il malevolo, il furbo, il volgare, “La verità negata” ci riporta all’importanza della parola onesta e retta quale strumento di conoscenza del reale, di giudizio sul passato e di scommessa per il futuro.
Altro aspetto notevole, come accennato all’inizio, è la sceneggiatura: i dialoghi, molto ben costruiti, sono un emblema della potenza duplice della parola: la parola volgare ma ammaliatrice di Irving, quella retta ma impetuosa della professoressa Lipstadt, quella misurata e ponderata di Rampton. La parola è dunque un’altra vera protagonista della pellicola: la parola usata in un tribunale per dimostrare ciò che dovrebbe essere certo ma che, a causa di un’altra parola, malevola e subdola, può essere messo in discussione; la parola di fronte alla storia; la parola di fronte al silenzio dei “sommersi”, di coloro che, come ha scritto Primo Levi, sarebbero i veri testimoni da ascoltare. Emblematiche in tal senso sono le scene in cui la professoressa Lipstadt si trova a dialogare con una sopravvissuta; in esse riaffiora il drammatico tema leviano della delega di testimonianza che i “sommersi” affidano e silentio ai “salvati”.
Insomma, “La verità negata” è un film che affronta tematiche inerenti alla Shoah con il ritmo del film drammatico di ambientazione giudiziaria ma, come ha scritto Anna Maria Pasetti (qui la recensione), le innalza ad un livello simbolico. In un mondo in cui la parola è spesso vituperata, asservita, plagiata, in cui, complice la scarsa memoria di molti, trionfa il discorso becero, il malevolo, il furbo, il volgare, “La verità negata” ci riporta all’importanza della parola onesta e retta quale strumento di conoscenza del reale, di giudizio sul passato e di scommessa per il futuro.
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