domenica 16 novembre 2014

Sull'altopiano dove... torneranno i prati

Ieri sera sono andato a vedere tornerranno i prati, l'ultimo film di Ermanno Olmi, storia di una notte trascorsa da un gruppo di soldati in un avamposto avanzato di montagna durante la Grande Guerra. L'aspettativa era molta, sia perché da sempre apprezzo le pellicole del grande regista sia perché gli argomenti e i luoghi della vicenda narrata sono gli stessi de L'eco delle battaglie. Sembra incredibile, ma è così: il set del film non è lontano dalla parte di altopiano in cui ho immaginato che si svolga la vicenda di Irene ed Emanuele.
Con tredipazione e attesa, dunque, mi sono recato al cinema. Sceso il buio in sala, sin dalle prime primissime scene ho riconosciuto la mano del regista, il suo stile e il suo modo di osservare e ritrarre la realtà nonché il messaggio forte che egli intendere trasmettere. Il film torneranno i prati, dal titolo scritto volutamente in minuscolo, è un film contro la guerra, le sue assurdità, la disumanizzazione che crea in coloro che la subiscono, temi cari ad Ermanno Olmi com'erano cari anche a Mario Rigoni Stern. E a mio avviso numerosi sono i riferimenti e le citazioni che il film rivolge allo scrittore asiaghese amico del regista, a partire proprio dal titolo, che rievoca un antico detto cimbro presente in più libri del "vècio":

Sette volte bosco, sette volte prato
poi tutto tornerà com'era stato.

Anche il luogo in cui la vicenda si svolge rimanda a pagine celebri di Rigoni Stern: il film si svolge in una trincea coperta e nel bunker annesso in cui i soldati riposano. Difficile non ritrovare in essi quel caposaldo sulle rive del Don in cui è ambientata la prima parte de Il sergente nella neve (e anche nel film arriverà, ad un dato momento, un ordine di ritirata). L'insistenza poi delle inquadrature sulle travi di legno del bunker, sulle foto di ragazze e sulle cartoline appuntate un po' ovunque mi sono parsi ulteriori elementi in tal senso. Certo, si tratta in fondo di particolari che sempre sono presenti nella guerra, sia essa reale o rappresentata dalle arti, e che, accomunando conflitti diversi, rivelano tratti comuni ad ogni conflitto, di ieri e di oggi.

La vicenda non si sposta mai dal caposaldo d'alta quota e il clima di soffocamento di cui diversi recensori hanno parlato viene reso magistralmente: soffitti bassi, spazi angusti, luce fioca rendono l'ambiente davvero una <<tana>>, per usare ancora un termine tratto dal Sergente. In questi pochi metri si svolge la vicenda, in realtà non del tutto chiara. La trama mi è parsa infatti l'aspetto più debole del film, tralasciata forse per privilegiare i ritratti dei personaggi: volti smunti, sporchi, trasandati, malati, volti che rappresentano bene le sofferenze e il male della guerra. Eppure, a mio avviso, il film paga la mancanza di una trama ben definita. Il ritmo manca o s'inceppa, a tratti tentenna. Vi sono elementi tipici della Prima guerra mondiale e delle opere che l'hanno narrata: ordini assurdi (tutta la prima parte del film ruota attorno all'esecuzione di un ordine assurdo e irrealizzabile), comandi presenti solo per dare ordini di morte, il fatalismo, la rassegnazione, il nullo valore attribuito dalle gerarchie alla vita umana e, di contro, la voglia di vivere troncata da un destino sordo e crudele. A volte, però, tali elementi non sono ben coesi o assumono tratti didascalici, come il riferimento alla mina nella seconda parte. Troppa roba. Nel complesso, però, il clima che si respira è quello di una fortezza Bastiani in cui nulla succede. Il nemico c'è, manda i suoi strumenti di morte, fa sentire la propria voce ma non compare mai; l'unico vero "nemico" che si vede non è davanti ai personaggi, ma dietro e telefona o manda ordini da firmare per ricevuta.

Ben delineati, nel complesso, i caratteri dei personaggi principali, anche se con differenze di interpretazione su cui ciascuno potrà giudicare: su tutti, indistintamente, grava il peso di un destino enorme e dal volto di Medusa, contro il quale ciascuno reagisce come può. Anche qui tuttavia emerge forte il messaggio del regista: solo strappandosi i gradi il capitano che comanda la postazione può uscire dal circolo vizioso di un meccanismo di morte e di annullamento dell'uomo per ritrovare, prima di morire a sua volta, la propria dignità. Questo e altri elementi mi hanno fatto ricordare le atmosfere cupe di Uomini contro di Francesco Rosi, tratto dal memorabile Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu. Se nel film di Rosi c'era ancora spazio per qualche momento epico, persino trionfale (ricordo la celebre anche se poco attendibile carica di cavalleria), in torneranno i prati l'unica epica possibile è quella delle piccole cose, l'unica celebrazione possibile quella del dolore e del ricordo per i morti. In uno sfondo di inenarrabile bellezza (la fotografia è a dir poco mozzafiato), sommersi dalla neve, vivono i ricordi dei soldati, le loro memorie. Sono ombre, fantasmi del passato quelli che prendono la parola nel film di Ermanno Olmi. Parlano col tono sommesso degli spiriti, forse come quelli che, racconta ancora Rigoni Stern, si ritrovano nelle notti d'inverno tra le pareti dell'osteria di confine (cf. Sentieri sotto la neve) o tra i boschi dell'altipiano. 

Devo ammetterlo: pur riconoscendo l'importanza del messaggio della pellicola, pur apprezzandone alcuni aspetti, sono uscito dal cinema un poco deluso. Forse mi aspettavo qualcosa di diverso, forse sono caduto nell'errore di questo tempo, che chiede storie, trama, azione. Le storie ci sono nel film, ma sono quelle che traspaiono dai volti e dalle poche sommesse parole che i personaggi scambiano. C'è comunque poesia, molta, in torneranno i prati, c'è una denuncia contro la guerra che ha il tono dell'imprecazione della povera gente che la guerra deve subirla, c'è la malinconia dei tanti che sono morti e l'ansia di testimoniare ciò che è stato. C'è, infine, uno sguardo lento, che si posa con attenzione e profondità sulle cose. Bene, dunque, nel complesso, anche se avrebbe potuto esserci  qualcosa di più.




domenica 2 novembre 2014

Fra il bandolo e il dubbio in (buona) compagnia di due poeti

Questo è soprattutto un blog di riflessioni sui libri e sulla letteratura. Tuttavia, come sanno i miei lettori, a volte mi piace cercare (e creare) punti di contatto e cortocircuiti tra le parole scritte e le parole di quella che chiamiamo realtà, convinto che non di mondi separati si tratti ma solamente di facce diverse di un'unica esperienza.
Questa settimana ho dunque provato, nonostante il poco tempo a disposizione per riflettere, a trovare nei libri una risposta ai tanti quesiti che dalla cronaca, nazionale ed internazionale, mi sorgevano, ai dubbi, alle incertezze: proteste che finiscono sotto i manganelli, sentenze che lasciano interdetti, riunioni politiche e dichiarazioni in rima; e poi l'Ebola, la questione in Medio Oriente, l'Europa, la Russia di Putin, la Pedemontana che passerà sotto il mio colle...
Lo so, mi si potrebbe facilmente chiedere perché me la prenda tanto. Non si tratta in fondo sempre delle solite cose? Non siamo forse oberati di notizie più o meno catastrofiche in ogni momento? Annuisco e chino la fronte. A volte però capita, per citare Camus, <<che la scena si sfasci>> (cf. Le muraglie assurde ne Il mito di Sisifo), che, senza bisogno di evocare visioni apocalittiche e crisi insuperabili, si senta la necessità di trovare un minimo di ordine in tutto il caos che ci circonda.

<<Come trovare il bandolo in un gomitolo tanto aggrovigliato?>> mi sono chiesto ieri, mentre aiutavo mio padre a raccogliere le poche olive che l'annata cattiva ha concesso. D'impulso sono corso agli studi fatti, ai libri letti; d'impulso ho cercato una risposta. Il vento e il rumore delle mani tra le fronde, accompagnati dal volo di un pettirosso, mi hanno presto distratto dal mio intento. Sono tornato a pensarci più tardi. Eppure, pur non avendo distrazioni, non ho trovato risposte. Forse la stanchezza, forse lo stress...

Forse è inutile cercare nei libri una risposta. Possiamo raggranellare spunti, esempi, dati, indurci a porre, a porci altre domande. A volte possiamo, incerti, proporre uno schema che, dopo cinque minuti, saprà già di vecchio e sarà da buttare. Così, non ne usciamo, lo so. E laggiù continuano a parlare e parlare, a fare ciò che hanno sempre fatto, incuranti della nostra presenza. Ma allora a che serve? Sposto il baricentro. Mi aggrappo alla convinzione che interrogarsi sia comunque giusto. Per noi, per me. Per restare a galla. Ripenso ad una mia insegnante del liceo che un giorno ci stupì, adolescenti alle prese col nostro piccolo mondo, esclamando con occhi quasi sbarrati le seguenti parole: - Mio compito, ragazzi, non è darvi certezze ma seminare dubbi!
Ripenso ad allora e mi domando se si possa ancora coltivare un po' di sano dubbio in mezzo a tanti che strillano ai quattro venti le loro verità. Giro a voi la domanda e propongo due testi di poeti a me cari che sono andato a riscoprire ieri sera.

Il dubbio è uno dei punti fondamentali del percorso poetico e filosofico di Giacomo Leopardi, che così scriveva il giorno 8 settembre 1821 nel suo Zibaldone:  <<Il mio sistema introduce non solo uno scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana, per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero [...] ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere>>.
 
Con gioia ho ritrovato queste parole nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, che pure non mi ha entusiasmato ma sul quale non mi soffermerò oggi. L'altro testo che propongo è una poesia di Bertolt Brecht nella classica traduzione di Franco Fortini. Non mi dilungo a introdurla. Dico soltanto che mi ha confortato quel richiamo all'azione presente verso la fine. Chi tra voi non fosse riuscito, come non c'è riuscito il sottoscritto, a risolvere questa impasse del dubbio, potrà almeno dire (ancora una volta) di essere in buona compagnia. E magari, tra un dubbio e l'altro, a nutrire un pur timido barlume di speranza.
 

Colui che dubita

Sempre, ogni volta che
ci pareva di aver trovato la risposta a un problema,
uno di noi scioglieva, sulla parete, il nastro dell'antico
rotolo cinese sì che svolgesse e
visibile apparisse l'Uomo Seduto che                                               
tanto dubitava.

Io, ci diceva,
sono Colui che dubita. Dubito che
sia riuscito il lavoro che v'ha inghiottiti i giorni.
Che, quel che avete detto, se detto peggio valga tuttavia                   
                                         per qualcuno.
Che lo abbiate detto bene e che forse un po' troppo
vi siate, alla verità di quanto avete detto, affidati.
Che sia ambiguo: per ogni possibile errore
vostra sarebbe la colpa. Può anche essere troppo univoco               
e allontanar dalle cose la contraddizione; non è troppo univoco?
Allora quel che dite è inutilizzabile. Le cose vostre sono
                                       inanimate, allora.
Siete realmente nel corso degli eventi? Compresi con tutto
quel che diviene? Siete ancora in divenire, voi? Chi siete? A chi           
parlate? A chi serve quel che state dicendo?
E, fra parentesi:
vi lascia sobri? Si può leggerlo di mattina?
È anche congiunto al presente? Le tesi
davanti a voi enunciate son messe a profitto o almeno con-               
                                          futate? Tutto
è documentabile?
Per esperienza? Di chi?
Ma prima di tutto
e sempre, e ancora prima d'ogni cosa: come si agisce                       
se si crede a quel che dite? Prima di tutto: come si agisce?

Pensierosi noi si considerava con curiosità
l'uomo Turchino dubitare dal quadro, ci si guardava e
da capo si ricominciava.

Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1959, pp. 200-201.