Ci sono momenti nella storia che si imprimono nella memoria come sigilli sulla cera lacca, a livello collettivo e a livello personale. Momenti fatali, direbbe Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco costretto all'esilio dall'avvento delle orde hitleriane e morto suicida in una sperduta cittadina brasiliana in piena Seconda guerra mondiale. Zweig, eterno esiliato, sapeva bene cosa significassero le svolte epocali e da grande amante della storia ne diede ampio spazio nella sua opera.
A partire dal tema delle memorie, riflettevo in questi giorni su come noi, cittadini globalizzati e tecnologici, viviamo questi momenti fatali, e concludevo che forse proprio grazie alle tecnologie ancora più di un tempo tali momenti si fissano nell'immaginario collettivo, che si tratti dell'orchestrina del Titanic che suona fino a quando l'acqua non lambisce i piedi dei musicisti, del ragazzo di piazza Tiennammen immobile davanti ai carri armati o degli aerei che centrano le Torri gemelle, l'11 settembre 2001. Ma anche a livello personale la faccenda non è diversa. E per quanto mi riguarda molti sono i momenti fatali che porto con me. Uno accadeva esattamente cento anni fa.
La storia di quanto accadde a Sarajevo il 28 giugno 1914 non è certo un mistero. Libri, interviste, documentari hanno descritto praticamente minuto per minuto quanto avvenne. Personalmente ho letto, guardato, ascoltato molto a riguardo, eppure, ogni volta che mi capita di entrare nell'argomento, provo un brivido, quasi leggessi il copione di un dramma. Rivedo davanti a me gli attori:
da una parte Francesco Ferdinando stretto nella sua divisa azzurrina,
una cascata di piume ricade a fontana sul copricapo militare, al suo
fianco l'amata moglie Sofia, la autorità civili e militari, i kepì dei
poliziotti e degli ufficiali; dall'altra gli attentatori, tratti
balcanici, volti duri, dai lineamenti solo in apparenza distesi,
l'occhio vigile, un unico pensiero in testa. Vi sono poi gli oggetti: le
bombe a mano pronte ad esplodere, la pistola di Princip, la divisa di
Francesco Ferdinando, l'automobile... Divisa e automobile sono oggi
conservate a Vienna, l'ho scoperto leggendo Gli anelli di Saturno di Winfried Sebald. Precisione austriaca e culto delle reliquie, mi pare fosse il commento dello scrittore.
C'è chi fra gli storici parla di complotti, chi addirittura vede dietro a tutto la mano dei tedeschi. Che ci fosse un'organizzazione segreta di matrice serba denominata "Mano nera" è ormai assodato. Ma il resto suscita ancora discussione e dibattiti. Torno ai fatti, torno là, a quel giorno. Seguo un testo che fin da ragazzo mi ha sempre molto impressionato, La grande storia della prima guerra mondiale, di Martin Gilbert. Vedo la bomba lanciata in quel mattino di sole: rimbalza, lascia illesi Francesco Ferdinando e la moglie e ferisce due ufficiali nella seconda auto del corteo. Dopo la visita in municipio l'erede al trono dell'impero austro-ungarico decide di andare a trovarli in ospedale. L'autista, com'è noto, sbaglia strada, infila un vicolo cieco. Mentre l'auto fa manovra uno degli attentatori, il dicicannovenne Gavrilo Princip, si trova per caso a passare di lì. Estrae la pistola, spara.
Ad aiutarmi a figurare la scena concorre ora un'immagine che era presente nel mio sussidiario delle elementari, la celeberrima tavola di Achille Beltrame. E con me, ne sono sicuro, milioni di persone se la sono figurati e se la figurano così. A colori, a differenza delle foto scattate prima e dopo l'attentato. Il giovanissimo attentatore è di spalle, il gioco della prospettiva mi faceva pensare, da bambino, che stesse sparando in aria. Intorno, gli sguardi atterriti e impotenti degli uomini della scorta. A terra un fez abbandonato. Rosso, come rossa diverrà presto la giacca dell'arciduca. Sullo sfondo, un cavaliere che galoppa a sciabola sguainata. Pochi mesi dopo la Galizia diverrà l'ecatombe delle cavallerie dell'Ottocento. Ma ecco che il dramma si compie, l'attentato è già fatto. Ora ci sarà un mese di tempo prima che tutto abbia inizio, e la vecchia Europa abbia fine. La memoria corre ad altre letture, ad altri passi ed episodi. Un altro grande scrittore del Novecento, Joseph Roth, testimone, come Zweig, del tramonto della vecchia Austria e come Zweig destinato al tristo esilio, racconta nel suo capolavoro, La marcia di Radetsky, come fu accolta la notizia dell'attentato in una lontana guarnigione ai confini della Galizia. Si tratta di una scena di grande potenza narrativa, in cui la tragicità si mescola alla commedia, alla beffa, al grottesco, una scena, insomma, di grande impatto e assolutamente verosimlie. Lo spazio è tiranno: magari ne parlerò la settimana prossima, ma invito nel frattempo a riscoprirla. Tra un articolo e l'altro, tra le tanti voci che stiamo udendo e ancora udremo riguardo ai fatti di cento anni fa, nulla potrà eguagliare le voci di chi c'era e ha scritto.