domenica 12 luglio 2020

Disperazione civica

Anno 2020. Ultimi giorni di giugno, in un liceo della provincia veneta.

Sono arrivato a scuola verso le nove. La riunione era alle dieci. Ne ho approfittato per scambiare qualche parola coi rari colleghi e con le persone che lavorano fra corridoi e uffici, poi sono andato in biblioteca per sistemare alcuni libri: l’aula in cui ho passato interi pomeriggi fra novembre e febbraio ora è silenzioso e scuro magazzino di pagine che a lungo nessuno sfoglierà.

Intorno a me un’aria strana. C’è il solito innaturale silenzio che pervade corridoi e aule prima e dopo le lezioni e ci sono gli ormai consueti visi sudati dietro le mascherine, gli schermi in plexiglas, i distributori di gel affissi ad ogni punto di passaggio e che mi ricordano le armi che decoravano la sala del banchetto nella reggia di Odisseo. Ma nessuna vendetta attende qui di essere celebrata, nessuno scontro finale è imminente. Al contrario l’immagine che presto, per contrasto, si associa alla reggia del figlio di Laerte è quella di un campo di battaglia dopo lo scontro. Intendiamoci: tutto è lindo, brillante, perfettamente sanificato, eppure la sensazione di attraversare il luogo ove si è consumata una battaglia non mi abbandona. Sarà l’architettura razionalista del liceo, saranno i mesi passati a sentire metafore guerresche, saranno stati gli esami svolti secondo un protocollo di sicurezza da fare invidia ai corpi speciali. Ma forse sono anche gli occhi stanchi seminascosti dalle mascherine e che paiono quelli di reduci da una campagna militare, forse sono gli spazi vuoti nelle aule che fanno pensare a cameroni di caserma…

E dopotutto non è stata una “guerra” anche quella della DAD, con la DAD, per la DAD? Nella mia scuola ce la siamo cavata bene: avevamo i mezzi e dai primi giorni di marzo siamo partiti con le videolezioni. Come scrivevo in quei giorni, era importante esserci. Per i nostri ragazzi. Ed è stato importante continuare. Lo abbiamo fatto all’inizio con entusiasmo, qualcuno con titubanza, talora con lo slancio, se vogliamo dirlo ancora per metafore guerresche, dei fantaccini nell’agosto del 1914. Tre mesi dopo, cessata l’euforia della didattica-lampo, trasformatasi la DAD in quotidiano logorio, immobile successione di giorni sempre uguali, abbiamo continuato, con le occhiaie, perdendo il sonno, qualcuno ricorrendo ai sostegni delle erbe o della chimica. Eppure ce l’abbiamo fatta, abbiamo portato a casa un anno. Nonostante tutto.

Esco dalla biblioteca, incontro Davide, uno dei colleghi con cui dovrò confrontarmi. Un sorriso si intravede nonostante la mascherina, poche parole ma che vengono dal cuore. Ci siamo parlati spesso in questi mesi, al telefono o su meet: sentirsi vicini, amici oltre che colleghi, è stato per me uno degli antidoti all’isolamento. Un altro è stato avvertire il sostegno delle famiglie di moltissimi miei studenti. Nella seconda in cui sono coordinatore non ho raccolto che parole di stima e ringraziamento per quanto abbiamo fatto. Tutti. Un frutto dolce da conservare, un dono da non disperdere. Oggi però non c’è tempo per parlarne. Oggi dobbiamo discutere di Educazione civica.

Mentre ci dirigiamo verso l’aula preparata per accoglierci arrivano anche le altre colleghe. Ci troviamo perché formiamo la Commissione nominata dal Collegio docenti per l’Educazione Civica, nuova materia obbligatoria dal prossimo anno nelle scuole di ogni ordine e grado. Ci accomodiamo a due metri di distanza, con le finestre aperte: parliamo a turno, ci scambiamo le opinioni sulle linee guida. La voce però ci esce stanca. Abbiamo passato l’anno della DAD, molti di noi hanno affrontato anche l’ultimo scoglio degli esami; nemmeno il tempo di staccare e siamo di nuovo qui per pensare ai prossimi mesi. La materia è vastissima, molto, è vero, già lo facciamo, si tratta però di definire, strutturare, organizzare, stabilire, programmare. Rileggiamo ancora frammenti delle Linee guida, integriamo con contributi mandatici dalla dirigente: almeno trentatré ore annuali, interdisciplinarietà, contenuti da scegliere-approvare-costruire, curvatura sugli indirizzi, valutazione in decimi, media, criteri da inserire nel PTOF, durata triennale del tutto; poi il Ministero, recependo il nostro lavoro, provvederà per tutti a normare, stabilire, ordinare. Buttiamo giù un’ipotesi di percorso: dipartimenti da coinvolgere, recupero delle attività già in essere scartando ab origine tutte quelle che corrono il rischio di saltare nel caso di un'altra general clausura. Le parole si diradano a mano a mano che tentiamo di venire a capo della cosa, di sintetizzare e di individuare un percorso plausibile, fattibile. Ma dove sono i nostri ragazzi in tutto ciò?

D’un tratto sulla porta, rimasta aperta, si affaccia la dirigente. Sorride, ci chiede come va. Anche lei ha lo sguardo stanco, più di noi: da mesi non fa che studiare decreti e ordinanze. Ci parla delle misurazioni delle aule, pare un geometra: in pratica ha misurato ogni angolo della scuola. Poi ci accenna all’anno prossimo, dice senza mezzi termini che quello che abbiamo fatto è niente rispetto a quello che ci attende. Alla fine ci scambiamo qualche parola di incoraggiamento per i rispettivi compiti e torniamo al lavoro. Scaccio a stento un’immagine che mi si para davanti. È l’orchestrina del Titanic: “Signori, è stato un onore suonare con voi stasera”.

Sono oltre due ore che ci confrontiamo: abbiamo buttato giù un percorso, ma tutto ci pare ancora da costruire. Siamo stanchi. Andiamo avanti un’altra mezz’ora: alla fine, prima di uscire, la proposta di un gruppo whatsapp per sentirsi più agilmente. È l’ennesimo, ma serve. Il nome vien da sé: dopotutto basta guardarsi negli occhi. Ci aggiorneremo fra qualche giorno. Nel frattempo, per quanto possibile, buona estate.

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