Sono arrivato a scuola verso le
nove. La riunione era alle dieci. Ne ho approfittato per scambiare qualche
parola coi rari colleghi e con le persone che lavorano fra corridoi e uffici, poi
sono andato in biblioteca per sistemare alcuni libri: l’aula in cui ho passato
interi pomeriggi fra novembre e febbraio ora è silenzioso e scuro magazzino di
pagine che a lungo nessuno sfoglierà.
Intorno a me un’aria strana. C’è
il solito innaturale silenzio che pervade corridoi e aule prima e dopo le
lezioni e ci sono gli ormai consueti visi sudati dietro le mascherine, gli
schermi in plexiglas, i distributori di gel affissi ad ogni punto di passaggio
e che mi ricordano le armi che decoravano la sala del banchetto nella reggia di
Odisseo. Ma nessuna vendetta attende qui di essere celebrata, nessuno scontro
finale è imminente. Al contrario l’immagine che presto, per contrasto, si
associa alla reggia del figlio di Laerte è quella di un campo di battaglia dopo
lo scontro. Intendiamoci: tutto è lindo, brillante, perfettamente sanificato,
eppure la sensazione di attraversare il luogo ove si è consumata una battaglia non
mi abbandona. Sarà l’architettura razionalista del liceo, saranno i mesi
passati a sentire metafore guerresche, saranno stati gli esami svolti secondo
un protocollo di sicurezza da fare invidia ai corpi speciali. Ma forse sono
anche gli occhi stanchi seminascosti dalle mascherine e che paiono quelli di
reduci da una campagna militare, forse sono gli spazi vuoti nelle aule che fanno
pensare a cameroni di caserma…
E dopotutto non è stata una “guerra”
anche quella della DAD, con la DAD, per la DAD? Nella mia scuola ce la siamo
cavata bene: avevamo i mezzi e dai primi giorni di marzo siamo partiti con le
videolezioni. Come scrivevo in quei giorni,
era importante esserci. Per i nostri ragazzi. Ed è stato importante continuare.
Lo abbiamo fatto all’inizio con entusiasmo, qualcuno con titubanza, talora con
lo slancio, se vogliamo dirlo ancora per metafore guerresche, dei fantaccini
nell’agosto del 1914. Tre mesi dopo, cessata l’euforia della didattica-lampo,
trasformatasi la DAD in quotidiano logorio, immobile successione di giorni
sempre uguali, abbiamo continuato, con le occhiaie, perdendo il sonno, qualcuno
ricorrendo ai sostegni delle erbe o della chimica. Eppure ce l’abbiamo fatta,
abbiamo portato a casa un anno. Nonostante tutto.
Esco dalla biblioteca, incontro
Davide, uno dei colleghi con cui dovrò confrontarmi. Un sorriso si intravede
nonostante la mascherina, poche parole ma che vengono dal cuore. Ci siamo parlati
spesso in questi mesi, al telefono o su meet: sentirsi vicini, amici oltre che
colleghi, è stato per me uno degli antidoti all’isolamento. Un altro è stato
avvertire il sostegno delle famiglie di moltissimi miei studenti. Nella seconda
in cui sono coordinatore non ho raccolto che parole di stima e ringraziamento
per quanto abbiamo fatto. Tutti. Un frutto dolce da conservare, un dono da non
disperdere. Oggi però non c’è tempo per parlarne. Oggi dobbiamo discutere di
Educazione civica.
Mentre ci dirigiamo verso l’aula
preparata per accoglierci arrivano anche le altre colleghe. Ci troviamo perché
formiamo la Commissione nominata dal Collegio docenti per l’Educazione Civica,
nuova materia obbligatoria dal prossimo anno nelle scuole di ogni ordine e
grado. Ci accomodiamo a due metri di distanza, con le finestre aperte: parliamo
a turno, ci scambiamo le opinioni sulle linee guida. La voce però ci esce
stanca. Abbiamo passato l’anno della DAD, molti di noi hanno affrontato anche
l’ultimo scoglio degli esami; nemmeno il tempo di staccare e siamo di nuovo qui
per pensare ai prossimi mesi. La materia è vastissima, molto, è vero, già lo
facciamo, si tratta però di definire, strutturare, organizzare, stabilire,
programmare. Rileggiamo ancora frammenti delle Linee guida, integriamo con
contributi mandatici dalla dirigente: almeno trentatré ore annuali,
interdisciplinarietà, contenuti da scegliere-approvare-costruire, curvatura
sugli indirizzi, valutazione in decimi, media, criteri da inserire nel PTOF,
durata triennale del tutto; poi il Ministero, recependo il nostro lavoro,
provvederà per tutti a normare, stabilire, ordinare. Buttiamo giù un’ipotesi di
percorso: dipartimenti da coinvolgere, recupero delle attività già in essere
scartando ab origine tutte quelle che corrono il rischio di saltare nel
caso di un'altra general clausura. Le parole si diradano a mano a mano che
tentiamo di venire a capo della cosa, di sintetizzare e di individuare un
percorso plausibile, fattibile. Ma dove sono i nostri ragazzi in tutto ciò?
D’un tratto sulla porta, rimasta
aperta, si affaccia la dirigente. Sorride, ci chiede come va. Anche lei ha lo
sguardo stanco, più di noi: da mesi non fa che studiare decreti e ordinanze. Ci
parla delle misurazioni delle aule, pare un geometra: in pratica ha misurato
ogni angolo della scuola. Poi ci accenna all’anno prossimo, dice senza mezzi
termini che quello che abbiamo fatto è niente rispetto a quello che ci attende.
Alla fine ci scambiamo qualche parola di incoraggiamento per i rispettivi
compiti e torniamo al lavoro. Scaccio a stento un’immagine che mi si para
davanti. È l’orchestrina del Titanic: “Signori, è stato un onore suonare con
voi stasera”.
Sono oltre due ore che ci
confrontiamo: abbiamo buttato giù un percorso, ma tutto ci pare ancora da
costruire. Siamo stanchi. Andiamo avanti un’altra mezz’ora: alla fine, prima di
uscire, la proposta di un gruppo whatsapp per sentirsi più agilmente. È
l’ennesimo, ma serve. Il nome vien da sé: dopotutto basta guardarsi negli
occhi. Ci aggiorneremo fra qualche giorno. Nel frattempo, per quanto possibile,
buona estate.