Mercoledì scorso era una giornata grigia di inizio autunno, mite la temperatura ma cupo il cielo. Complice la foto postata da un amico riguardante una contrada del mio paesello che sarà presto interessata dal passaggio della tanto vagheggiata (per alcuni) autostrada pedemontana, ho deciso di tornare a percorrere un sentiero antico, una delle vie che un tempo conducevano a Santurbàn dalla Valle dell'Agno e passando attraverso la Valbona. Questo il nome della contrada, Valbona, la valle buona, toponimo attestato sin dal 1206, in un documento riguardante l'allora titolare della
Chiesa di Vicenza, Uberto. Ne parlai in un mio racconto apparso sul sito Iborderline e intitolato Una sera di giugno.
Cose che possono interessare solo a chi ha la pazienza di ascoltare le antiche storie e, magari, di percorrere i sentieri che ancora lambiscono i fianchi del colle. Certo, non "robe da politicanti". Perdonate la licenza, ma ogni testo esige stile confacente ai contenuti. E oggi, come mercoledì scorso, l'ironia cede il passo al silenzio cupo e malinconico di chi ricorda il passato senza poter far nulla per il presente...
Uscito di casa con questo pensiero, sono salito sulla vetta occidentale del monte Costi e ho imboccato poi il sentiero che, unendosi alla carrareccia che parte dal camposanto, scende verso il bosco e la valle. Prima di scendere ho osservato la vallata dell'Agno, valle verde un tempo, grigioverde oggi, dopo l'epoca del progresso. Versi celebri s'insinuavano tra i pensieri rendendo ancor più forte, vivida l'osservazione. Il verde sembra davvero dare fastidio a questa nostra civiltà. Luigi Meneghello, Congedo: <<Intorno si vede sorgere / un mondo di cose nuove,/ questa roba si spazza via / trionfa un rigoglio / banale e potente>>. Questa roba si spazza via...
Abbassatomi di poche decine di metri, trovo l'imbocco del sentiero. Il bosco è vecchio, avrebbe bisogno di essere tagliato, accompagnato. Ma a chi interessa? Mi avvio e penso a Dante, alla discesa assieme a Virgilio tra i gironi infernali e, ancor più, all'inizio della Commedia che, imparato da bambino, torna a volte a visitarmi:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Citazione impropria, me ne rendo conto, ma spontanea. Intorno, il bosco si va vestendo dei colori autunnali, l'aria è rarefatta, pochi i rumori. Il rombo dei motori, ben percepibile dai prati più alti, rimane fuori, sulla porta. Proseguo attraverso il sentiero, piuttosto ripido in questo punto. Giungo al costone dei castagni, e mi commuovo. Dopo due anni di pena, dovuti a un parassita giunto dall'estremo oriente, i castagni hanno ripreso a fiorire e quest'anno hanno prodotto frutto. Una speranza che un sole timido, spuntato per pochi istanti, sembra corroborare.
Riprendo il cammino svoltando a sinistra e procedendo verso la pianura. Il terreno è umido e devo fare attenzione se non voglio scivolare. Terra umida, *Brunno in antico germanico, da cui, probabilmente, Bruna, altro nome di questa valle, tramandato oralmente come un antico poema finché un caro amico, esperto di toponomastica, non l'ha registrato in un suo libro (cfr. Luciano Chilese, Toponomastica di Montecchio Maggiore, Francisci Editore, Abano Terme 1988, p. 304). Ma ecco ormai che il bosco si apre. Con le prime case compaiono i segni degli imminenti lavori per l'autostrada che qui passerà.
Lo sconforto mi prende. Altri versi, quelli di un Franco Fortini disilluso e stanco, subentrano ai precedenti:
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare...
Eccolo il progresso, in quei cumuli di terra allineati come un agmen, un'armata in marcia. Scendo ancora, incontro le case della contrada e scambio qualche parola con una paesana: parole semplici ma che fanno bene come una tazza di tè in una sera d'inverno. La saluto e proseguo. Sulla sinistra della strada, la vecchia casa e la stalla del "Barba" stanno cedendo al tempo e all'abbandono.
Percorro la strada che scende fino a congiungersi con la provinciale. A poche decine di metri da me auto e camion sfrecciano in velocità. Arrivo all'antica fontana della contrada e mi rattristo non poco al vedere le condizioni in cui è tenuta. Quasi non si vede, soffocata da erbacce e rovi. E pensare che nello stesso libro che ho citato sopra si parla della leggenda legata a questa fontana, leggenda secondo la quale, guardando nell'acqua, apparirebbe sul fondo la città scomparsa... Rovi ed erbacce sembrano una metafora, l'ennesima, di quanto avviene anche per il bosco e per tutto il resto. Dai versi di Fortini il pensiero salta a quelli di Bertolt Brecht, in particolare al coro finale dell'Opera da tre soldi:
Meditate la tenebra e l'inverno
di questa valle percossa dal pianto.
Proseguo per qualche altra decina di metri, supero il piccolo monumento ai partigiani. In questo luogo il 26 aprile 1945 due giovani, di cui uno del mio paese, persero la vita in un'azione contro i tedeschi. Leggo la lapide; mi colpisce l'invito finale: <<Passante inchinati e prega>>. Memorie recenti si intrecciano al passato più antico. In una stele greca o romana non avrei trovato parole troppo diverse. Eppure, tutto passa e va. Cose non fatte per l'era della velocità che tutto lascia inghiottire dal Lete, il fiume che nel mito sancisce la dimenticanza e l'oblio.
Lo sconforto mi prende. Altri versi, quelli di un Franco Fortini disilluso e stanco, subentrano ai precedenti:
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare...
Eccolo il progresso, in quei cumuli di terra allineati come un agmen, un'armata in marcia. Scendo ancora, incontro le case della contrada e scambio qualche parola con una paesana: parole semplici ma che fanno bene come una tazza di tè in una sera d'inverno. La saluto e proseguo. Sulla sinistra della strada, la vecchia casa e la stalla del "Barba" stanno cedendo al tempo e all'abbandono.
Percorro la strada che scende fino a congiungersi con la provinciale. A poche decine di metri da me auto e camion sfrecciano in velocità. Arrivo all'antica fontana della contrada e mi rattristo non poco al vedere le condizioni in cui è tenuta. Quasi non si vede, soffocata da erbacce e rovi. E pensare che nello stesso libro che ho citato sopra si parla della leggenda legata a questa fontana, leggenda secondo la quale, guardando nell'acqua, apparirebbe sul fondo la città scomparsa... Rovi ed erbacce sembrano una metafora, l'ennesima, di quanto avviene anche per il bosco e per tutto il resto. Dai versi di Fortini il pensiero salta a quelli di Bertolt Brecht, in particolare al coro finale dell'Opera da tre soldi:
Meditate la tenebra e l'inverno
di questa valle percossa dal pianto.
Proseguo per qualche altra decina di metri, supero il piccolo monumento ai partigiani. In questo luogo il 26 aprile 1945 due giovani, di cui uno del mio paese, persero la vita in un'azione contro i tedeschi. Leggo la lapide; mi colpisce l'invito finale: <<Passante inchinati e prega>>. Memorie recenti si intrecciano al passato più antico. In una stele greca o romana non avrei trovato parole troppo diverse. Eppure, tutto passa e va. Cose non fatte per l'era della velocità che tutto lascia inghiottire dal Lete, il fiume che nel mito sancisce la dimenticanza e l'oblio.
Proseguo ancora un po', fintanto che il rumore della provinciale non diventa troppo forte. Poi inverto la marcia, torno sui miei passi. Accanto alla stradina di contrada brilla il futuro che attende questi luoghi. Mi fa sorridere amaro il gesto di alcuni che vivono oltre la provinciale, i quali hanno esposto davanti alle loro case il vessillo di San Marco, moderna, farsesca rivisitazione di un mito che negli ultimi anni dalle mie parti ha intercettato senza troppa fatica il malcontento e la rabbia di una certa parte del leghismo. Sorrido amaro pensando alla distanza che separerà quelle bandiere dalla colata di asfalto e cemento ormai imminente. E scuoto la testa.
Ritrovo il monumento con la sua piccola stele, poi le case della contrada, l'imbocco del sentiero, il bosco. Un'ultima citazione dalla letteratura mi ritorna mentre fatico per risalire il sentiero. Nel capitolo 30 dell'Agricola, lo storico romano Tacito dà voce al capo dei Caledoni, Calgaco. Siamo nella Britannia di fine I secolo d.C.: i Romani, guidati da Agricola, stanno sottomettendo l'isola e le sue popolazioni. Nell'imminenza della battaglia decisiva, il Calgaco tacitiano esorta i suoi con parole rimaste scolpite nella storia e, descrivendo i Romani, termina così:
«Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur; si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit; soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant».
Rapinatori del mondo, dopo aver devastato ogni cosa, non essendoci più terre, frugano il mare; se il nemico è ricco sono avidi, se è povero, pieni d'ambizione, essi, che né l'Oriente né l'Occidente potrebbero mai saziare, gli unici che bramano con pari veemenza di avere ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, con falso nome lo chiamano impero e là dove fanno il deserto la chiamano pace (traduzione mia).
Scuoto la testa un'ultima volta. Solo pensieri i mei, in fondo. E me ne torno verso casa.