domenica 20 luglio 2014

Letture per l'estate: una "top ten" siglata TFA

Dopo le riflessioni serie di domenica scorsa, il post di oggi ha un sapore più estivo. Colpa, forse, della settimana trascorsa, assai intensa, per me come per decine di migliaia di colleghi che in tutta Italia hanno sostenuto il "quizzone", prima delle tre prove necessarie per accedere al Tirocinio Formativo Attivo, natural burella obbligatoria per chi (ancora) punta all'insegnamento. Mentre proseguono le prove per le altre classi di concorso e in attesa di conoscere gli "eletti" ad affrontare il prossimo giro di prove, offro una simpatica classifica di letture per l'estate, suggeritami da alcune delle domande presenti nei test delle classi A43, A50, A51, A52. L'ordine è stato determinato principalmente dal grado di apprezzamento mostrato dalle prove (sempre che si possa stabilire in esse una volontà propria) verso taluni autori e/o opere. Il tono sarà leggero, talora persino irriverente, con tanto di autorevole plurale maiestatico. Non me ne vogliano i seri cultori delle patrie Lettere, non è forse Leopardi a scrivere che <<chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo>>? Dunque, cominciamo:

10) al decimo posto, per tutti gli amanti del genere "storie rosa ad esito infausto", si suggerisce la lettura o rilettura delle novelle contenute nella quarta giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio: in compagnia di Tancredi e Ghismunda, Elisabetta da Messina e molti altri simpatici casi d'amore e morte il vostro umore ne risulterà risollevato: c'è sempre chi sta peggio di voi, in fondo;

9) al nono posto proponiamo Tigre reale di Giovanni Verga, altra storia d'amore ad esito infausto, con aggiunta di tubercolosi e tradimenti. In alternativa, per chi si sentisse più attratto dalla narrativa verista, suggeriamo il primo romanzo dell'omonima corrente letteraria, Giacinta di Luigi Capuana;

8) all'ottavo posto si coltiva la poesia. Suggeriamo Leopardi e in particolare il suo Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: il TFA lo rispolvera sempre e ciò rappresenta un motivo più che valido per riscoprirlo;

7) al settimo posto un classico della storiografia cinquecentesca, la Storia d'Italia di Francesco Guicciardini. Chi non si sentisse guicciardiniano può optare, ma in via del tutto eccezionale, per Machiavelli, rileggendo per intero i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio: qualunque sia la scelta, il fortunato lettore di certo ne avrà per tutta l'estate e forse anche per l'autunno;

6) al sesto posto suggeriamo un classico dell'Illuminismo italiano, opera che senz'altro i giuristi ben conosceranno: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, uscito nel 1764. Raccomandiamo, qualora qualcuno lo leggesse nella prima edizione, di evitare di portarlo in spiaggia. Se, come mostra il ridente mondo contemporaneo, non riusciamo a rispettare i contenuti, rispettiamo almeno le prime edizioni delle opere;

5) al quinto posto poniamo un classico dei volgarizzamenti medievali, la Rettorica di Brunetto Latini, maestro di Dante e organizzatore (pare!) dei primi pride in Italia. Dall'argomento 1 dell'opera attingo la seguente citazione, non certo sciocca come quanto vado scrivendo: <<Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se lla copia del dicere e lo sommo studio della eloquenzia àe fatto più bene o più male agli uomini et alle cittadi; però che quando io considero li dannaggii del nostro comune e raccolgo nell'animo l'antiche aversitadi delle grandissime cittadi, veggio che non picciola parte di danni v'è messa per uomini molto parlanti sanza sapienza>>. Chissà cosa direbbe il caro Brunetto di fronte alla nostra modernità, in ogni caso parole sante, le sue;

4) al quarto posto poniamo le Satire di Ludovico Ariosto: per entrare nel vivo, secondo il genere satirico, nelle grane più o meno fastidiose del povero poeta alla corte degli Estensi. In alternativa, si rilegga per esteso L'Orlando Furioso, compresi i Cinque canti

3) entriamo in zona podio suggerendo un'opera latina. Non potendo, per ovvi motivi, leggere o rileggere il Bellum poenicum di Nevio, suggeriamo un'altra opera di certo apprezzatissima, il Carmen saeculare di Orazio, insigne esempio di poesia celebrativa. Chissà che l'età dell'oro tanto decantata ci faccia dimenticare almeno per un po' le miserie di questa età dalle tinte assai meno luminose;

2) al secondo posto il super quotato Ugo Foscolo, immancabile nei test ministeriali. Suggeriamo in particolare la riscoperta del carme Dei sepolcri, possibilmente accompagnato dalla lettura dell'editto di Saint Cloud (in originale francese) e dal meno fortunato poemetto omonimo di Ippolito Pindemonte, un altro autore gettonatissimo nei quiz. Letture adatte in special modo come preparazione per tour cimiteriali o visite catacombali;

1) il primo posto assoluto, attinto dal quiz della classe A52, ci riporta alla poesia d'amore, con uno dei suoi più insigni esponenti. Chi? Ma lui, il <<grand traduttor de' traduttor d'Omero>>, come lo definì l'avversario da noi collocato al secondo posto, il Vincenzo Monti autore dei Pensieri d'amore.

Un repertorio ricco e variegato, non trovate? Qualcuno potrebbe dire che rappresenta la spia di una certa concezione di letteratura e, forse, di cultura. Ma oggi non siamo qui per far polemiche; abbiamo suggerito classici immancabili tra le letture estive, e questo ci basta. Buona estate, dunque. E buona lettura.



domenica 13 luglio 2014

Discussioni su facebook: quando il sonno della ragione genera mostri

Resto sempre più basito nel seguire fantomatici dialoghi e confronti sui social network, in special modo su facebook. In un "luogo" in cui tutti vedono, pochi leggono e ciascuno può dire la sua, la quantità di stupidaggini su cui sempre più spesso mi trovo a posare gli occhi mi lascia addosso un'incredibile inquietudine, che non di rado si muta in rabbia, più ancora diviene frustrazione. L'ultimo caso, alcuni giorni fa. Una simpatica signora, amica di un amico di un'amica di un amico, scrive in uno di quegli spassosi gruppi "Sei del posto tale se..." che al mercatino organizzato dalla scuola del suo paese, in fila per scambiare i libri non ha visto nemmeno uno straniero. Apriti cielo! La discussione che segue merita di essere riportata.
A risponderle per primo è un signore che si affretta a precisare come i veri poveri <<siamo noi mica quelli che sbarcano a migliaia e che il governo mantiene a nostre spese>>. L'autrice del post rincara subito dopo la dose, ipotizzando testi pagati dal Comune (come le bollette del resto): e di qui le danze del libero pensiero hanno inzio. Chi dà ragione, chi dice che è solo un caso. Il signore torna a commentare: <<Che siano analfabeti?>> scrive, subito quotato da altri. Chi dice che alla Caritas pure è così, chi si mette a pubblicare articoli su stupri commessi da stranieri e così via. La simpatica signora, che commento dopo commento  rivela, nei toni e nelle parole, il motivo di questo suo non troppo arguto post, tiene a sottolineare che non è razzista, si dice anzi aperta ad ogni cultura che non sia la propria, ha scritto solo per mostrare come ormai i veri poveri siano gli italiani. E subito chi le fa eco, che non è questione di razzismo, ma-di-noi-veneti-che-paghiamo-sempre-per-tutti. Qualcuno prova a ribattere, i commenti si scaldano. La grammatica, già spesso un'opinione in queste discussioni, si piega, con le buone o con le cattive, alle esigenze espressive.

Ora, mi si dirà che perdo tempo a preoccuparmi di queste cose: fatti del genere sono all'ordine del giorno della galassia di internet. Concordo, e aggiungo che un mondo virtuale tenderà inevitabilmente a riprodurre la molteplicità vorticante del mondo reale, diversità di opinioni inclusa. Il fatto che mi lascia sempre più impietrito è come i tanti gruppi detti "di discussione" non servano in realtà nemmeno a confrontarsi civilmente. A velocità incredibile si scivola nell'attacco, nell'offesa o nell'anatema. Il tutto condito con luoghi comuni, con slogan più o meno datati, più o meno palesi, più o meno consapevolmente usati. Ma non basta. Noto con crescente preoccupazione come tali sedicenti gruppi divengano un veicolo di intolleranza, di razzismo e di vero e proprio odio, spesso nemmeno troppo velato. Non faccio fatica a pensare cosa mi risponderebbero molti: ciascuno è libero di scrivere ciò che vuole. Da parte mia non sto invocando la censura, non sia mai. Ma mi domando come sia possibile che, giunti ad un certo limite, non scatti almeno un'auto censura. Siamo davvero sicuri che scrivere tutto quanto ci passa per la testa sia segno di libertà e democrazia?

Questa continua esibizione di sé, delle proprie opinioni, anche di quelle che uno farebbe meglio a tenersi in domo sua, unita ad una malizia di fondo, denota più spesso un'istintualità, un "ragionare di pancia" che bene non può fare ad un confronto sano. Il quadro che si denota è quello di un'arena continua, in cui ognuno dice la propria, col tono e il linguaggio che vuole o gli è consentito, quasi mai tendendo ad un confronto che arricchisca tutti, più spesso aspirando all'approvazione di quanti seguono. E tutti, ovviamente, forti e sicuri dietro lo schermo di un computer o quel che è. Per raccogliere una manciata di "mi piace" in fondo non serve argomentare civilmente e razionalmente, può essere anzi d'impaccio. Meglio gridare, insultare, ragionare a slogan e frasi fatte. Tanto più che,se anche si tenta di argomentare con raziocinio, quasi mai nelle discussioni uno ammette il proprio errore o modifica una posizione. 
Quanto siamo lontani dalla dialettica antica, dal confronto socratico! Per Socrate, uno dei padri della filosofia occidentale, confutare l'errore era d'obbligo nel cammino verso la verità, e ciascun confronto dialettico doveva implicare anche un innalzamento morale. Dov'è andato il demone che, secondo il filosofo, dovrebbe spingere e, ancor più, trattenere l'uomo?

Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1797.
Il preoccupante panorama che si delinea in discussioni come quella riportata è di un sonno sempre più profondo della ragione, un sonno in cui, nascondendosi dietro pretese apologie di democrazia e libertà di pensiero, possono prendere voce anche i mostri più inquietanti. Fortunatamente, nel caso sopra descritto qualcuno è riuscito a far zittire tutti con la forza della razionalità: un signore ha commentato spiegando come le famiglie straniere tendano a scambiarsi tra loro i testi usati. La signora ha provato a ribattere, ma senza riuscire a contrastare efficacemente, finendo per spostare il discorso su aspetti minori, tra l'altro esponendo in maniera poco chiara. Sono uscito dal programma lievemente rasserenato, tuttavia la preoccupazione resta. Dove porta il sonno della ragione, in molti, anche in letteratura, ce l'hanno mostrato. Ecco perché, come continuo a scrivere, occorre restare vigili, prima di tutto verso noi stessi, <<affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono "belle parole" non sostenute da buone ragioni>> (Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007, p. 164).

domenica 6 luglio 2014

Sulle note della marcia di Radetzky

La marcia di Radetzky non è solamente il celebre brano musicale di Strauss padre che chiude i concerti di Capodanno nel Musikverein di Vienna, è anche il titolo del romanzo più noto di Joseph Roth, scrittore di cui ho già parlato qualche volta. Ebreo viennese, scrittore e giornalista, vide la fine dell'impero degli Asburgo, l'avvento della modernità, l'ascesa dei totalitarismi. Esule, morì a Parigi nel 1938, solo e dimenticato. La marcia di Radetzky, apparso nel 1932, è il romanzo del crepuscolo di un'epoca: attraverso tre generazioni, dal 1859 al 1914, Roth dipinge gli ultimi decenni dell'impero austro-ungarico e, con esso, la fine degli ideali stessi su cui esso si fondava, in primis la fedeltà a quel <<vecchio imperatore dalla barba bianca>> che rappresenta per tutto il testo la stabilità di quanto è immutabile. Tutto incomincia con una battaglia, quella di Solferino, e termina con i primi scontri in Galizia, regione al centro di immani battaglie nel corso dei primi mesi della Grande Guerra.

In Galizia è di stanza Carlo Giuseppe, ultimo rampollo della famiglia Trotta e protagonista del romanzo. Per gli ultimi giorni del giugno 1914 è prevista una festa militare nel piccolo paese di confine: si festeggia un reggimento di cavalleria lì stanziato. Momento culminante dei festeggiamenti è un ricevimento che si svolge la sera del 28 giugno. Come accennavo domenica scorsa, è durante questo ricevimento che viene portata la notizia dell'attentato contro l'erede al trono Francesco Ferdinando. La scena, dicevo, è memorabile, vero capolavoro letterario, tanto l'istante in cui apprendiamo cosa rechi il misterioso messaggero giunto a cavallo quanto le scene che immediatamente seguono.

<<Il dragone scese da cavallo e chiese del colonnello Festetics. Gli fu risposto che il colonnello era già entrato. Un momento dopo il colonnello usciva, prendeva una lettera che l'ordinanza gli consegnava e ritornava in casa. Nell'anticamera dove non c'era una lumiera appesa al soffitto, si fermò. Un servitore gli si mise alle spalle con un candelabro in mano. Il colonnello strappò la busta (La marcia di Radetzky, Longanesi, 1953, p. 345)>>.

Sarà dallo sguardo incredulo di questo giovanissimo servitore, che non riesce a fare a meno di sbirciare, che apprenderemo il contenuto della busta recapitata all'ufficiale.

<<Senza che egli avesse affatto cercato di leggere al disopra delle spalle del colonnello, il testo della lettera cadeva nel campo visivo dei suoi occhi bene educati, un'unica frase di poche parole scritte con un lapis turchino a lettere grandi e distinte [...]: "Corre voce successore al trono ucciso a Serajevo" dicevano le lettere>> (Ibidem, p. 346).

Joseph Roth Radetzkymarsch 1932.jpgQuanto segue è una serie di scene che ha dell'incredibile. Mentre un terribile temporale sta per scoppiare, all'interno del palazzo in cui si svolge il ricevimento avvengono le reazioni più disparate. Il colonnello convoca gli ufficiali: chi è incredulo, chi scioccato, chi, come gli ufficiali ungheresi, è lieto che il <<porco>> sia morto. La festa continua, almeno per un po'. E il clima diviene grottesco, nessuno sa cosa fare, il caos regna sovrano, d'un tratto le due bande presenti nella sala dal ballo smettono coi valzer e attaccano la marcia funebre di Chopin, ma è un disastro: direttori e musicisti sono brilli, non riescono ad andare a tempo. La marcia funebre acquista velocità, gli ufficiali ungheresi ballano ora senza curarsi di nasconderlo. Il tutto mentre fuori il temporale ormai infuria, e l'immagine metereologica della tempesta in atto si sovrappone perfettamente alla tempesta che sta per abbattersi sull'impero e sui personaggi. Quando finalmente si decide di interrompere la festa, si rinnovano le scene grottesche: ciascuno viene letteralmente allontanato; persino gli strumenti vengono portati via ai musicisti che però rimangono a ripetere i movimenti del suonare come automi: <<Quando fu portato via al suonatore di grancassa il suo pesante strumento, egli continuò a manovrare nell'aria le bacchette e i battagli. I maestri banda, che avevano bevuto più degli altri, furono finalmente trascinati via, da due servitori ciascuno, come i loro strumenti. Gli ospiti risero forte. Poi vi grande silenzio. Nessuno più parlò. Tutti erano rimasti nella posizioneche avevano avuto prima e nessuno più si mosse. Dopo gli strumenti, furono portate via anche le bottiglie. E a questo o a quello, che aveva ancora in mano il bicchiere mezzo vuoto, fu portato via il bicchiere>> (Ibidem, pp. 356-357).

Ecco che il sipario cala. La farsa è finita, il temporale passato. Gli ufficiali di grado più alto siedono sui gradini dell'ingresso: <<alcuni pezzetti di carta erano rimasti appiccicati alle loro spalle e non se ne andavano più>>.