Ci sono luoghi che ci chiamano, luoghi di silenzio gremito di memoria a cui si ritorna con l'animo del pellegrino. L'Altipiano è per me ricco di questi luoghi. E fra essi Malga Fossetta è certo uno dei più importanti. Fu questa infatti la base del gruppo partigiano di Antonio Giuriolo, Capitano Toni, nel maggio 1944.
Qui, all'estremo margine nord-orientale dell'Altipiano, dove già era passata la storia con la Grande Guerra, vissero per alcune settimane quegli studenti alla macchia che divennero i Piccoli Maestri. Qui per diversi anni si sono ritrovati, e con loro quanti hanno amato e amano le pagine dei Piccoli maestri, e leggono, e studiano questo piccolo capitolo di una grande storia. Qui, fino a un paio d'anni fa, l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea "Ettore Gallo" organizzava, nel mese di giugno, un pellegrinaggio civile che richiamava persone da tutta la regione, e spesso anche da fuori. Speriamo si possa riprendere presto: ne abbiamo bisogno.
Oggi però non c'è nessuno. Per tutto il giorno non un'anima sul nostro percorso. Lasciamo la macchina parecchio indietro, a causa di lavori di sistemazione che bloccano l'accesso all'ultimo tratto di strada che sale dalla Val Campomulo. E camminiamo. Camminiamo nel bosco di giugno, attraverso vallette e teatri di rocce in cui la tempesta Vaia ha lasciato segni profondi.
Un'ora di strada, poi Malga Fossetta. Poco prima dell'edificio la tabella che racconta in breve la storia del gruppo.
Malga Fossetta è lì, dietro una curva. Immersa nel silenzio, in un triste abbandono. Così la descrive Meneghello nel cap. 5 del suo libro: «La malga era vuota, nuda: in tutta la zona alta dell’Altipiano le
malghe quell’anno furono senza occupatori, naturalmente la gente aveva paura, e
inoltre le autorità facevano i loro divieti, contando di affamarci. Questo era
un errore, fame ne avevamo già tanta che affamarci di più era praticamente
impossibile, ma le autorità tentavano, tentare non nuoce. A noi delle autorità
non ce ne interessava niente, e si prendeva per naturale che le malghe fossero
vuote.
Questa malga però era singolarmente vuota e nuda, e c’era intorno
una pulizia, una povertà una lindura che mi turbarono. Sentivo un fondo di
contentezza turbata, piacere fisico di dire qualche parola in inglese, pudore.
Antonio e gli inglesi si aggiravano di qua e di là con aria quieta e
circospetta, rosicchiando quello che avevamo portato, e chiacchierandoci un
po’; notai che parlavano tutti sottovoce».
Il tempo la divora a poco a poco: l'erba alta invade lo spiazzo, dal tetto penzola un pezzo di grondaia, qualche vandalo ha danneggiato la staccionata sul retro. Silenzio.
Dopo alcune letture e mezzo panino ripartiamo verso cima Incudine e cima Isidoro: è il loro sentiero, il sentiero dei Piccoli Maestri.
Lungo la via si incontrano cartelli con citazioni da Meneghello o da Giuriolo. Scrive ancora Meneghello: «Senza di lui non avevamo veramente senso,
eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutta un’altra cosa [...] Sospiravamo di
soddisfazione perché era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco,
pareva che se ne vedesse un segnale».
Non è un percorso impegnativo ed è particolarmente suggestivo da percorrere in questo giorno nuvoloso, con il sole che fa capolino a tratti, quasi con ironia.
Arriviamo al margine ultimo dell'Altipiano. Oltre i dirupi, il salto di vuoto sulla Valsugana. Qui si ritirarono, pressati dal rastrellamento, diversi dei partigiani di capitano Toni. Ancora dai Piccoli maestri: «Antonio con un paio di squadre si avviò direttamente a nord. Forse ci dicemmo “ciao” con Antonio, ma non mi ricordo. Finiva la notte. Questo è il
punto che lui se ne va, per le sue strade, col braccio al collo, fuori della mia
vita […]. Il resto che è accaduto su quello spalto davanti alla Valsugana,
dove restarono uccisi Nello e il Moretto, e tanti altri nostri compagni, non
lo abbiamo mai voluto ricostruire. Alcune cose si sanno, e sono altamente
onorevoli e perfino leggendarie. Ma io non ne parlerò. Antonio non morì
qui, ma lontano, fuori della nostra vita, non rastrellato ma in combattimento aperto, com’era più giusto».
Saliamo ancora, stavolta attraverso il ripido sentiero che porta a cima Incudine. Da lì qualche volta sono sceso fino alle lapidi poste lungo il pendio, nel punto in cui caddero diversi di quei ragazzi di vent'anni.
Alcuni di loro si salvarono perché trovarono rifugio in una nicchia di roccia. I rastrellatori non scesero fin là.
Infine ecco la lapide comune che li ricorda: «Durante la battaglia che su questi monti avvampò nel mese di giugno del 1944, in una guerra nella quale avevano scelto con l'entusiasmo dei giovani e con la consapevolezza degli uomini civili la parte della libertà, combattendo nel reparto guidato dal capitano Toni Giuriolo, che di libertà fu maestro e che sull'Appennino emiliano trovò morte gloriosa, onorata con la medaglia d'oro al Valore Militare, caddero».
E seguono i loro nomi:
Rodino Fontana di anni 19
Gaetano Galla di anni 22
Siro Lozer di anni 19
Ferruccio Piccioni di anni 21
Rinaldo Rigoni di anni 20
Giobatta Thiella di anni 19
Ancora in silenzio per qualche istante. Intorno solo i rumori del bosco. Dalla Valsugana sale una nebbiolina leggera. Proseguiamo fino alla nuova lapide del Moretto, Rinaldo Rigoni, del quale scrisse anche Mario Rigoni Stern in un bellissimo racconto intitolato Un ragazzo delle nostre contrade, testo inserito nella raccolta Ritorno sul Don.
Torniamo infine alla malga. Superiamo la cappella edificata dai soldati nell'autunno 1916, quindi eccoci di nuovo sullo spiazzo erboso. Appena il tempo di una foto, poi riprendiamo la strada per ritornare in pianura. Nella testa ancora le parole di Gigi:
«Fu in queste settimane, credo, che ci entrò così profondamente
nell’animo il paesaggio dell’Altipiano. In principio, di esso si avvertiva
piuttosto ciò che è difforme, inanimato, inerte: ma restandoci dentro, e
acquistando via via un certo grado di fiducia e di vigore, anche l’ambiente
cambiava. […] Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti
veramente liberi, e quel paesaggio s’è associato per sempre con la nostra idea
della libertà».