domenica 13 ottobre 2019

Fontane perdute, fontane ritrovate


Pubblico di seguito un breve articolo uscito sul fascicolo della Sagra di S. Eurosia di S. Urbano.


«Il primo che venne ad abitare quassù pare sia stato un certo Biasio Massignan, il quale proveniente da Marsiglia, dapprima si fermò a Novale di Valdagno, pascolando le pecore, dipoi passò a S. Urbano, dove, trovata l’acqua necessaria per il bestiame, pose sede». Così Agostino Agosti descriveva, all’inizio del Novecento, le origini dell’abitato di S. Urbano nel suo Memorie storiche di Montecchio Maggiore (Arzignano, Tip. Dal Molin 1909). Se oggi gli studi storici e le scoperte archeologiche hanno posto ben più indietro nel tempo i primi insediamenti di quello che sarebbe in seguito divenuto S. Urbano, su un dato l’Agosti aveva ragione: quell’acqua che il pastore Biasio trovò per le sue pecore è da sempre una ricchezza che ha consentito la vita sui nostri colli, favorendo la pratica dell’agricoltura e lo sviluppo delle contrade.

Oggi che le memorie vanno svanendo, soffocate dalla fretta, dalla distrazione e dagli interessi economici per essere spesso sostituite da storie che poco hanno a che vedere con la civiltà contadina, a testimoniare il rapporto antico fra uomo e acqua restano le nostre fontane, ben tre quelle dell’abitato principale – la fontana del prete, del prà de Bepo, del Lavello – e quelle sparse per le contrade del colle e della pianura. Così l’escursionista domenicale che, partendo dal centro del paese, voglia raggiungere i Bernuffi costeggiando l’antico confine fra Montecchio e Sovizzo sul monte Sarolo percorre appunto il sentiero “delle fontane”; e qualora volesse proseguire altre ne troverebbe, tanto proseguendo verso i Bernuffi quanto scendendo verso la Valbona lungo l’antica Strada degli asini, ripulita, come altri sentieri, dal “Gruppo trodi M. Pellizzari”.

E qui giova riflettere un istante sui toponimi. Valbona, la valle buona, la valle dai campi fertili, è nome che rivela ancora una volta l’importanza dell’acqua per la vita nel nostro territorio, nome attestato, per quanto sappiamo, sin dal 1206. Da un documento conservato presso l’archivio diocesano si apprende infatti che l'allora titolare della Chiesa di Vicenza, il vescovo Uberto, al fine estinguere un cospicuo debito in cui versava l’episcopato, ottenne dal patriarca di Aquileia, suo superiore, di vendere ai canonici della cattedrale alcune proprietà vescovili, tra cui un feudo che, comprendendo i territori di Montemezzo, Monteviale e Gambugliano, proseguiva attraverso la valle e i colli «sino alla Valle Bona […] e dalla stessa Valle Bona risalendo per il Turrino sino a Bocca delle Mole» (A. Morsoletto, Signori e popolo nelle prime valli del Retrone nell’Età di Mezzo, in Sovizzo e le sue genti. Storia di un villaggio rurale alle sorgenti del Retrone, a cura di A. Dani, Edizione del Comune di Sovizzo 1994). Altro nome per la contrada, tramandato dalle memorie orali, è Valbruna, probabilmente dall’antico germanico *Brunno, cioè “sorgente” (Luciano Chilese, Toponomastica di Montecchio Maggiore, Francisci Editore, 1988). La valle buona, la valle della sorgente. Ecco cos’era la Valbona, prima che l’acqua si accompagnasse negli ultimi anni al pensiero dell’inquinamento, delle falde compromesse, dei PFAS…

La fontana perduta...
Giunto infine in Valbona, il nostro escursionista potrebbe oggi godere di una piacevole scoperta e, al contempo, soffrire la scomparsa di un altro capitolo della nostra storia. Due erano infatti le fontane di Valbona conosciute: due almeno fino allo scorso anno. Di una, più in alto, si erano in realtà da tempo perse le tracce, dal momento che un canneto, cresciuto fin troppo rigoglioso, aveva soffocato l’antico sito; l’altra era invece visibile dalla strada che conduceva alla contrada, seppur negli ultimi tempi coperta dall’erba alta e da qualche russa spuntata attorno. A pochi passi da quest’ultimo manufatto sorgeva la lapide, oggi spostata sull’altro lato della carreggiata, che ricorda Marziano Salvato e Sereno Patalfi, caduti il 26 aprile 1945 combattendo per la libertà contro il nazifascismo. La fontana era lì. Era, appunto, fino al 26 aprile 2018. Triste ironia della sorte, settantatré anni dopo lo scontro che portò alla morte i due giovani la fontana è stata distrutta dal sopravanzante cantiere della Superstrada (a pagamento) Pedemontana Veneta. Quasi nessuno se n’è accorto, a parte gli abitanti della contrada, che su quella fontana avevano costruito la loro storia, e qualche altro, appassionato o non del tutto distratto dal rumore di un mondo troppo preso da altro che dalle tracce di un passato ormai lontano. E pensare a quante fatiche, quanto lavoro, quante storie di vita si sono accumulate fra quei sassi, fra quel lento silenzioso scorrere di acque…

... e la fontana ritrovata
E tuttavia non vogliamo lasciarci con il pensiero di ciò che non è più, perché, come dicevamo, in quelle stesse settimane è stata riportata alla luce da alcuni volontari la fontana più alta della contrada. La struttura è quella tipica delle fonti del nostro territorio: un piano superiore per raccogliere l’acqua e un lavatoio inferiore, realizzato nel Novecento, a sfruttarne il corso per consentire il lavaggio dei panni. Attualmente l’acqua non scorre, ma un piccolo intervento alla conduttura – ha commentato un paesano del posto – la potrebbe senza troppa fatica far rivivere. Ci affidiamo a questa speranza, perché anche l’acqua, come le memorie della nostra terra, torni a scorrere. E magari, scorrendo, possa far riflettere l’escursionista domenicale, e noi con lui, su un mondo che non è più ma che avrebbe, forse, ancora qualcosa da insegnare.






venerdì 4 ottobre 2019

Articolo "Fuga da Lipari"

Lipari, sabato 27 luglio 1929. La sera sta calando sull’isoletta siciliana divenuta la principale colonia di confino del regime fascista. All’imboccatura del porto alcuni carabinieri di guardia notano un motoscafo. Non danno tuttavia l’allarme: si tratta di certo di uno dei mezzi del servizio di sorveglianza, magari preso in prestito da qualche papavero dell’isola per un giretto serale in dolce compagnia.

Il motoscafo ha il motore spento. A bordo, però, nessun gerarca, niente militi o carabinieri. Tre antifascisti: il capitano Italo Oxilia, già responsabile della fuga di Filippo Turati in Francia nel 1926 al timone, ai motori Paul Vonin e a prua, a scrutare l’orizzonte, Gioacchino Dolci, ex confinato proprio a Lipari. I minuti passano. Interminabili...


Cari amici lettori,
sul sito www.laletteraturaenoi.it da oggi trovate un mio articolo (di cui sopra ho proposto l'incipit) in merito all'incredibile fuga di Emilio Lussu, Fausto Nitti e Carlo Rosselli dal carcere a cielo aperto di Lipari avvenuta sabato 27 luglio 1929. 

Una versione più ampia dell'articolo si può invece trovare sull'ultimo numero della rivista Quaderni Vicentini, reperibile nelle migliori edicole e librerie della provincia di Vicenza.